di Luca Simone.
Ieri si celebrava il 25 aprile, la festa della Resistenza, la festa della libertà che ci hanno donato i partigiani e la festa del punto più alto vissuto dall’Italia unita nella sua breve storia. Oggi, però, dobbiamo tornare ad occuparci di cose ben più prosaiche e, in un certo senso, deprimenti, ovvero dobbiamo occuparci della leader del Partito Democratico Elly Schlein. O forse sarebbe più corretto dire, di quella leader che non si è mai dimostrata tale a dispetto della grande fiducia popolare grazie alla quale era riuscita ad ottenere la guida del secondo partito del Paese. Infiniti scivoloni e pochissimi acuti sono il drammatico bilancio che porta in dote ormai un anno e mezzo di PD a trazione schleiniana. Si potrebbe quasi dire che la segretaria sia ancora in sella più per mancanza di figure alternative credibili che per un reale merito politico. Ma questa, non è solo colpa sua. L’ultima puntata di questa farsesca telenovela è andata in onda pochi giorni fa con la presentazione delle liste per le prossime europee.
Negli scorsi mesi la segretaria Dem non aveva fatto mistero di avere intenzione di concorrere per le europee in prima persona, scatenando i malumori all’interno del suo stesso gruppo dirigente che mal vedeva una esposizione così netta in contrapposizione a Giorgia Meloni che, in caso di candidatura diretta, avrebbe potuto sbaragliare Elly Schlein. La valutazione della segretaria, però, era stata quella di tentare la via della polarizzazione dello scontro per cercare di mobilitare gli elettori al voto europeo, come era avvenuto in occasione delle primarie aperte del febbraio 2023 che l’avevano vista uscire vincente dallo scontro con Bonaccini. Motivo per cui, alla riunione della direzione per decidere la linea da adottare in vista della campagna elettorale, qualcuno o qualcuna dei suoi fedelissimi aveva proposto di inserire il nome della segretaria nel simbolo della lista.
Una decisione accolta con indignazione (da dentro e da fuori) e vista come un pericoloso tentativo di personalizzare il partito, soprattutto in un momento difficile per la segreteria schleiniana dilaniata dai disastri a cui va incontro in campo locale e nazionale. A parlare di questo dietrofront, l’ennesimo, era stata la stessa Elly Schlein in una diretta Instagram lo scorso lunedì in cui si è limitata a leggere con voce scura un comunicato che cercava di spiegare come mai non fosse riuscita nemmeno stavolta a far passare la sia linea all’interno del partito che in teoria dovrebbe guidare. “Siamo un partito che discute apertamente”, questa la giustificazione addotta dalla segretaria, tutto giusto, se non fosse che ogni tanto nel gioco della politica sarebbe anche importante far passare le proprie posizioni, soprattutto quando ci si trova in cabina di comando. Anche se, diciamocelo, questa volta, forse, è stato meglio così. La decisione di inserire il proprio nome nel simbolo, sommata a quella di rinunciare a candidarsi in tutte le circoscrizioni ha fatto storcere il naso a molti all’interno del PD, perché è sembrato l’ennesimo tentativo di dare un colpo al cerchio e uno alla botte. Se la scelta era infatti quella di candidarsi, di scendere in campo in prima persona per sfidare Giorgia Meloni sul terreno familiare delle europee (storicamente più una faccenda di sinistra che di destra) e raccogliere un successo che rilanciasse il PD anche in ottica nazionale (la vera partita che conta ad oggi per il partito dato che in Europa difficilmente toccherà palla visto che torneranno al governo i conservatori del PPE), perché scegliere una via di mezzo che sembra scontentare tutti?
A scorrere le liste dei candidati scelti dalla segretaria nelle circoscrizioni c’è da mettersi le mani nei capelli. Non tanto per il valore politico delle personalità scelte, quanto per l’assoluta eterogeneità che lascia intravedere un totale disinteresse per un programma politico-ideale comune e condiviso. Sorvolando poi sul fatto che la linea del PD per le europee sia fumosa a dir poco dato che non si capisca cosa pensi in tema di Ucraina, crisi economica, crisi migratoria e contrasto alla Cina, ma questo è un altro discorso. Scorrendo superficialmente le liste troviamo una serie di nomi che non solo fanno fatica ad essere considerati facenti parti dello stesso disegno politico, ma per buona parte (quasi il 50%) già ricopre incarichi istituzionali importanti e per i quali ha ricevuto il mandato popolare. Quella di candidare le figure trainanti a livello mediatico ma impegnate in altri ruoli per i quali dovrebbe valere il vincolo di mandato (elemento di quella questione morale tanto cara al signore stampato sulle tessere del PD) è da anni il modus operandi della destra. Ma il PD non dovrebbe almeno sforzarsi di essere diverso? Non dovrebbe cercare di evitare situazioni scomode in cui la partita attualmente più importante per destini del continente e della sinistra europea stessa viene affidata a personalità disposte effettivamente a scendere in campo a e mettere a disposizione il proprio tempo e la propria competenza? Perché candidare personalità che già ricoprono cariche e non è detto che, una volta elette, accetteranno di giocare la partita all’Europarlamento di Bruxelles? Questa pratica di cercare dei traini per coalizioni prive di nomi che siano rappresentativi di determinate battaglie, di determinati ideali, suona come una rinuncia totale alla lotta politica. Come può sentirsi un elettore che appena due anni fa ha votato alle politiche per l’elezione di qualcuno che oggi gli richiede il voto alle europee dichiarandosi pronto a rinunciare al mandato che solo un paio di anni fa aveva ricevuto?
In virtù di ciò, a dispetto delle tante belle parole spese dalla segretaria sull’importanza di queste elezioni, la compilazione di queste liste pare quantomeno discutibile, e pare rispondere ad una logica che niente ha a che vedere con le promesse che Elly Schlein aveva fatto nella sua campagna per le primarie. Si tratta di candidature dettate dalla miopia elettorale e dalla volontà non tanto di offrire una reale alternativa politica, ma di mettere d’accordo le varie riottose correnti del PD candidando chi vuole rilanciarsi o riciclarsi in quel cimitero degli elefanti che per molti è il Parlamento Europeo. Allo stesso tempo si tratta di nomi, quelli degli amministratori e degli altri parlamentari (basti pensare a Zingaretti, Bonaccini e Zan per citarne alcuni), scelti a discapito di tutti coloro che, pur non ricoprendo cariche di rilievo e, sia chiaro, è un bene, erano davvero rappresentativi di qualcosa, magari di un’idea. Merce rara al giorno d’oggi nella grande e vuota casa della sinistra italiana.
Che la logica seguita da Elly Schlein di candidare campioni e campionesse di preferenze avrà risultati elettorali tangibili è quasi al di fuori di ogni dubbio. Candidare i big nella competizione elettorale che da sempre è casa della sinistra più che della destra e dell’estrema destra farà sì che probabilmente discuteremo di un Partito Democratico che veleggia attorno al 20%, un risultato apparentemente ottimo. Motivo per cui bisogna già aspettarsi i titoloni dei giornali fiancheggiatori che inneggiano alla “leader discesa dal cielo” e le sicumere dei sicofanti che parlano di “aria cambiata”, le analisi serie, però, non si possono certo fare in questo modo, e il fatto che l’informazione, il giornalismo e in generale la vita politica italiana si sia ridotta a questo, non implica che cercare una via diversa sia impossibile. In caso di vittoria, anche schiacciante, bisognerebbe innanzitutto cercare di capire come questa è stata raggiunta, perché non basta vincere, ma bisogna saper vincere e saper costruire sulle fondamenta gettate da una vittoria. Come si sentiranno gli elettori nel vedere che una cospicua parte dei loro eletti rinuncia al mandato europeo per mantenere l’attuale incarico? Perché andando in Europa tradirebbero l'impegno al quale teoricamente sono legati o, in caso scegliessero di rinunciare, allora, cosa sono stati votati a fare? Perché sono stati messi in lista se neppure avevano la minima intenzione di mettere piede a Bruxelles? Ma ragioniamo in maniera possibilista dando per scontato che tutti e tutte sceglieranno di rispettare il mandato europeo: quale sarà la loro linea e quella del partito? Non rappresentando nulla a livello di politica europea, come potranno mai influire?
Ulteriore domanda, sempre mantenendoci nel campo del possibilismo di matrice positiva: anche in caso di successo, questa manovra sarà davvero servita ad Elly Schlein per affermarsi come leader sia all’interno che all’esterno del suo partito? Domande. Domande che preoccupano. Domande che nessuno ha ancora mai fatto alla segretaria Schlein e che, forse, sarebbe ora di fargli alla vigilia del voto.
La vittoria non rende automaticamente dei fenomeni, e neppure tutte le fanfare del giornalismo e dei media italiani possono aiutare a cambiare questa regola su cui la politica si fonda fin dall’inizio della propria storia. È il modo in cui si vince a decretare la differenza tra una vittoria piena e una vittoria che sa di sconfitta. E per rendersi conto di quanto questo sia vero non è necessario guardare eccessivamente indietro, basti pensare a cosa è successo in Sardegna appena due mesi fa. La “grandiosa vittoria” del campo largo ottenuta per una manciata di voti si è tradotta qualche settimana dopo in un tracollo elettorale in Abruzzo, nella partita non giocata in Basilicata e nel quasi affossamento del campo largo dopo le vicende giudiziarie di Puglia e Piemonte. A fine febbraio Elly Schlein era artefice del più grandioso successo della sinistra italiana, qualche settimana dopo era additata come sola ed unica responsabile. Serve equilibrio e capacità critica, non faziosità. Cerchiamo di proiettarci in avanti, preparandoci ad analizzare (ma seriamente) i possibili risultati che usciranno fuori dalle urne europee di inizio giugno.
L’impressione che ne deriva è che non si tratterà certo di elezioni europee che metteranno a rischio la segreteria di Elly Schlein, ma ci viene da ribadire che questo apparente successo sia più figlio di una reale mancanza di alternative in seno al partito che di un reale disegno politico a lungo termine. Pensateci, chi potrebbe ad oggi prendere il posto dell’attuale segretaria e, soprattutto, chi sarebbe disposto a tenere in mano una patata così bollente? La domanda è retorica.
Auguriamoci solo che le fanfare e i sicofanti siano messi a tacere per qualche ora, perché alla sinistra e, forse, anche alla stessa Elly Schlein stanno facendo più male che bene.
Image Copyright: Associated Press
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