di Caterina Amaolo.
Se Facebook fosse una nazione, sarebbe la terza per numero di abitanti dopo Cina e India. Il suo valore di capitalizzazione a Wall Street ha superato i 1.000 miliardi di dollari.
In realtà l’idea di Zuckerberg non era affatto nuova. Serpeggiava già, infatti − come viene accennato di sfuggita nel film di David Fincher The social network (2010) − nei college americani agli inizi degli anni Zero, e reti sociali informatiche come MySpace esistevano sin dal 2003.
A cosa è dovuto, allora, il successo di Facebook? È chiaro che, no, il successo di Facebook non risiede nell’originalità dell’idea né in un maggiore livello di perfezione tecnologica che ne segnerebbe lo scarto rispetto alla concorrenza. Il successo di Facebook è dovuto al nuovo modello di comunicazione pubblicitaria che il social ha attuato e grazie al quale trae profitti necessari al proprio funzionamento.
La chiave di volta che svela il segreto di questo modello ci è rivelata dalle parole che Sheryl Sandberg, a quel tempo direttrice operativa di Facebook, rilascia in un articolo pubblicato nel 2010 dalla rivista «Time», in cui Zuckerberg viene designato come uomo dell’anno.
La frase è la seguente:
It's a shift from the wisdom of crowds to the wisdom of friends," says Sandberg. "It doesn't matter if 100,000 people like x. If the three people closest to you like y, you want to see y.
In altre parole:
Non importa se a 100.000 persone piace x. Se alle tre persone a te più vicine piace y, allora tu desidererai y.
Per spiegare il motivo della sua rilevanza anche per coloro che non si occupano di marketing ma di storia della cultura, partiamo da lontano.
Facebook e il romanzo: costanti antropologiche
Partiamo, dunque, scomodando uno dei libri più illuminanti e intelligenti della critica letteraria del Novecento: Menzogna romantica e verità romanzesca di René Girard.
René Girard è uno di quegli autori che rendono difficile il mestiere di chi cataloga libri. E se cercate in biblioteca i suoi scritti, li potete trovare a volte negli scaffali di Letteratura, altre in quelli di Storia delle religioni, di Antropologia, di Psicologia o di Filosofia, perché è spesso obbiettivamente difficile classificarli in modo univoco.
In Menzogna romantica e verità romanzesca Girard indaga un nervo scoperto delle relazioni intrapsichiche che coinvolgono gli individui: il desiderio. L’idea-guida di Girard è in fondo semplicissima: gli esseri umani sono essenzialmente esseri desideranti. L’imitazione reciproca è ciò che distingue l’uomo dagli altri animali, è il meccanismo principale della socializzazione e della conoscenza e il fondamento su cui si struttura l’identità dell’individuo. In verità il sostrato teorico della concezione girardiana era stato in parte anticipato dal dibattito sulla fenomenologia del desiderio su cui Lacan elabora alcune sue riflessioni negli anni Cinquanta del Novecento (Bottiroli, 2011: 280-289). Per altro, alcune teorie neuroscientifiche contemporanee, legate alla scoperta dei neuroni specchio, le confermano (Lebreton et.al.,2012:7146-7157).
Secondo Girard, dunque, il desiderio umano si sviluppa seguendo una geometria triangolare. Semplificando un po’ un ragionamento complesso: quando desideriamo un oggetto, consciamente o inconsciamente, non lo facciamo perché ne apprezziamo una sua qualità oggettiva ma perché ci lasciamo, invece, influenzare dal prestigio che per noi riveste la persona o l’istanza (reale o immaginaria) che prima di noi desidera quell’oggetto o prova interesse per un oggetto ad esso assimilabile (Girard, 1977:25-26). In questo senso, il desiderio umano tradisce sempre la volontà di essere un Altro. Questa legge non scritta e ignorata dal senso comune è rivelata dai romanzi: Don Chisciotte combatte e cerca pulzelle da salvare ispirandosi alle gesta del suo modello dichiarato: Amadigi di Gaula; Julien Sorel tiene nascoste sotto al letto le Memorie di Sant’Elena e fa quel che può, nella Francia della Restaurazione, per seguire le orme del suo eroe, Napoleone; Emma Bovary desidera ciò che i romanzi romantici della sua biblioteca le suggeriscono di desiderare, e così riempie il vuoto della sua vita reale; Marcel desidera diventare scrittore per emulare Bergotte, e così via.
Allo stesso modo, un individuo consumatore desidera, ad esempio, la sneakers di Chiara Ferragni non per le sue caratteristiche estetiche intrinseche, ma perché le indossa Chiara Ferragni. In questo senso, l’influecer, a cui il consumatore accorda una certa stima, è mediatrice del desiderio, secondo quanto afferma Girard.
Girard e Facebook: perché?
Prima ancora di confessare le proprie opinioni o narrare le proprie esperienze, coloro che socializzano attraverso Facebook accettano di esibire in pubblico la propria intimità e, dunque, i propri desideri. Incistati nella convinzione che la vita privata sia significativa solo se esibita pubblicamente, si offre volontariamente la propria intimità al voyeurismo dell’altro (di chiunque altro). Alla base di tutto c’è un istinto antropologico antico e profondo che non va ignorato, soprattutto perché il mutamento epocale è anche e soprattutto un mutamento generazionale. L’istinto è quello di far parte di un gruppo, di tessere relazioni con altri esseri umani, di condividere con altri idee e valori. Ma al gruppo virtuale di Facebook si accede esibendo in pubblico la propria interiorità, rinunciando alla segretezza dell’io. È così che si crea quella rete di mediazioni interne che il social network, in realtà, è: una rete virtualmente infinita e discontinua di piccoli leader che si imitano a vicenda, che entrano in competizione tra loro, che si contendono, nelle rispettive cerchie, il ruolo di fomentatori del desiderio.
In un’ottica capitalistica, desiderio e pubblicità si rivelano istanze complementari.
Se grandi compagnie, dalla Coca-Cola alla Adidas, hanno investito milioni di dollari su Facebook, il suo nuovo modo di fare pubblicità deve essere efficace e redditizio. Ma perché?
Due sono i motivi.
In primo luogo, l’efficacia di questo nuovo modello pubblicitario sta nel fatto che il suo destinatario non è anonimo ma mirato. Se cioè lo spot del Mulino Bianco ha un carattere generalista e si rivolge a un destinatario indistinto, privo di caratterizzazione sociale, culturale o anagrafica, i suggerimenti promozionali di Facebook appartengono ad un contesto sociale di cui sia l’emittente del messaggio sia il suo gruppo di amici − presumibilmente tutti della stessa età, con interessi simili, approssimativamente dello stesso livello socioculturale − sono membri. È perché è incorniciato in questo nuovo contesto che il messaggio diventa efficace e può conferire valore aggiunto al prodotto. E sottraendolo all’anonimato dello spot televisivo, il messaggio così personalizzato lo inserisce in un circuito ristretto ma qualificato di possibili consumatori che, verosimilmente, ne potranno apprezzare le qualità meglio di altri: la gittata sarà più limitata, ma il tiro molto più preciso. Ancora, per dirlo con le parole terribilmente vere della Sandberg: «Ciò che un venditore ha sempre cercato è tentare di farti vendere qualcosa ai tuoi amici. E questo è esattamente ciò che fai su Facebook».
Il secondo motivo risiede nel fatto che Facebook − e Instagram allo stesso modo − funziona molto meglio di altri social network (che si affidano a sistemi pubblicitari più tradizionali) perché crea una rete virtualmente infinita di quelli che Girard definisce “mediatori interni”, cioè di individui capaci di suscitare il desiderio agendo sulle sue strutture elementari. Queste strutture, come ci insegna il romanzo degli ultimi centocinquanta anni, da molto tempo ormai non si basano più sull’imitazione di grandi modelli, ma in misura sempre più crescente sull’adozione di piccoli maestri ai quali riconosciamo un’autorità forse più limitata ma nei quali ci immedesimiamo più facilmente perché sono vicinissimi a noi e con i quali, di conseguenza, siamo portati a competere e a rivaleggiare apertamente. Si tratta dei nostri amici e conoscenti, di persone comuni con le quali siamo però in contatto costante e con cui condividiamo gusti e desideri, cioè (virtualmente) prodotti e merce.
Più che la qualità di un prodotto, nel marketing del nostro tempo, conta la sua desiderabilità, il suo appeal. Ebbene, la pubblicità di tipo tradizionale continua a suscitare il desiderio attingendo a quelle stesse strutture elementari che il romanzo dell’Ottocento si era incaricato di demistificare: si affida al prestigio di un mediatore esterno, cioè al grande attore, alla modella di grido o al campione sportivo che ciascuno di noi vorrebbe essere (ma non è). Ma anche quando lo fa con ironia e intelligenza usa uno schema ormai logoro, destinato a divenire minoritario e adatto solo a promuovere categorie merceologiche di larghissimo consumo e che di solito non creano status. Lo schema vincente è invece quello su cui ha puntato Facebook, e ora anche Instagram.
Perché, infondo, «Non importa se a 100.000 persone piace x. Se alle tre persone a te più vicine piace y, allora tu desidererai y».
Bibliografia
-Antonello P, Fornari G. (2009). Identità e desiderio. La teoria mimetica e la letteratura italiana. Massa: Transeuropa.
-Bottiroli G. (2011). L’oggetto del desiderio ha il colore del vuoto, in «Enthymema», IV, pp. 280-289.
-Girard R. (1977). Mensogne romantique et verité romanesque. Parigi: Editions Grasset & Fasquelle.
-Girard R. (1978). Des choses cachées depuis la fondation du monde, recherches avec J.-M. Oughourlian et G. Lefort. Paris: Editions Grasset.
-Lebreton M., Kawa S. et al. (2012). Your Goal Is Mine: Unraveling Mimetic Desires in the Human Brain, in «The Journal of Neuroscience», vol. 32, n. 21.
Sitografia
Le parole di Sheryl Sandberg si leggono nell’articolo di Lev Grossman al link seguente: https://content.time.com/time/specials/packages/article/0,28804,2036683_2037183_2037185-5,00.html
I dati ufficiali sul numero di utenti e sul valore di capitalizzazione di Facebook sono illustrati nei link di seguito:
Image Copyright: Ciudad Magazine
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