di Gabriele Padula.
Uno degli strumenti disponibili nella cassetta degli attrezzi dello psichiatra è il farmaco, utilissimo soprattutto (o forse addirittura solamente) se accompagnato da un’adeguata relazione, che possa essere almeno minimamente terapeutica, o che comunque si tenti di rendere tale. I farmaci che vengono usati più spesso in un reparto di psichiatria si possono suddividere in quattro grossi gruppi: i neurolettici detti anche antipsicotici, gli antidepressivi, gli stabilizzanti dell’umore e gli ansiolitici. I pazienti reagiscono in modo diverso alle terapie farmacologiche impostate dai medici e poi somministrate dal personale infermieristico. Ho incontrato spesso dei pazienti che contestavano la categoria di classificazione del farmaco prescritto perché inappropriata rispetto a quelle che pensavano essere le loro diagnosi (ad esempio pazienti che assumo neurolettici senza avere necessariamente una schizofrenia). In linea generale, a prescindere dall’appartenenza di un farmaco ad una determinata categoria, ognuno di essi ha un proprio e diverso profilo molecolare che ne giustifica l’uso multiforme.
Una paziente che ho incontrato in reparto assumeva una terapia con risperidone, un antipsicotico atipico. Tale terapia le era stata impostata per via di un ronzio da cui era profondamente angosciata e a causa del quale non riusciva a dormire la notte. Nonostante, impostata la terapia, il ronzio fosse praticamente scomparso e la paziente migliorata nell’umore e nel ritmo sonno-veglia, più volte ha cercato di mettere in dubbio, sospendere e contrattare la terapia, poiché si era informata su internet della classe farmacologica. La paziente non aveva, infatti, una psicosi schizofrenica, piuttosto il suo stile di personalità poteva essere inquadrato come paranoide-schizoide (ovvero tendente alla sospettosità, all’interpretazione sopra le righe dei comportamenti altrui e degli accadimenti di vita, al ritiro in un mondo interno, considerato più confortevole rispetto alle mondo esterno percepito come pieno di insidie), che rendeva ragione anche dell’atteggiamento che aveva nei confronti del farmaco e di noi curanti e su cui probabilmente si era innestata l’esperienza dispercettiva del ronzio (come allucinazioni uditive non strutturate). Mi sembra, tuttavia, comprensibile che la paziente, sapendo di assumere un antipsicotico, abbia manifestato la sua contrarietà ed un bisogno di maggiore chiarezza. Spesso nella fretta delle attività ospedaliere, infatti, si lavora e si riflette poco sull’accettazione del farmaco da parte del paziente, che sì giova dell’effetto psicoattivo della sostanza, ma anche, in un certo senso, lo subisce passivamente, come se fosse calato dall’alto.
Un’altra paziente, ricoverata in reparto per uno stato maniacale in un disturbo bipolare, mi chiedeva spesso nei nostri colloqui chiarimenti sui farmaci, non solo sugli effetti avversi, ma anche e soprattutto sull’effetto sperato. Era come se avesse la necessità che le rendessi il farmaco quasi “familiare”, meno estraneo al suo corpo; come se volesse viverlo e inglobarlo con la mente, accettarlo e conoscerlo, come se il rapporto con il farmaco fosse parte del processo terapeutico. Questa paziente, dotata di un’ottima intuizione relazionale, mi ha svelato un tipo di pratica che può essere molto terapeutica per i pazienti. Infatti, aggiungere nell’esperienza del paziente con un disagio psichico acuto, che già egli esperisce come un “altro da sé” che lo assedia, un ulteriore fattore di “alterità” può pure essere utile dal punto di vista oggettivo, comportamentale, del meccanismo d’azione del farmaco, che rimane comunque intatto, ma non lenisce il senso di estraniamento da sé stessi, che costituisce un’esperienza di base centrale del vissuto psicopatologico.
A volte è quasi sconfortante dover costantemente trattare e ritrattare i farmaci e i dosaggi prescritti, avvilisce e quasi svaluta la professionalità del medico; a volte questo può essere considerata anche una perdita di tempo. Tuttavia, quindi, il modo in cui il farmaco viene somministrato e recepito dal paziente può fornire moltissime informazioni clinicamente utili e può porre le basi per un tipo di relazione, in cui il sapere tecnico del medico viene effettivamente messo al servizio della necessità del paziente, ed in cui le esperienze vissute come “passive” possano essere ritrattate e rivisitate in prospettive ermeneutiche, e quindi di senso, alternative, come parte del processo terapeutico.
Per altri pazienti è stato, invece, necessario somministrare i farmaci anche contro la loro stessa volontà. Si tratta, ad esempio, di quei pazienti divorati dal delirio e dall’angoscia connessa che definirei primordiale e devastante, come solo ho riscontrato nelle psicosi acute schizofreniche o nei gravi scompensi maniacali delle sindromi bipolari. In questi momenti di acuzie, la lucidità mentale dei pazienti è compromessa e le azioni compiute, che possono anche essere talvolta aggressive verso di sé e verso gli altri, sono involontarie o comunque distorte dall’accadimento psichico patologico. In genere questi pazienti, una volta stabilizzati, hanno poi mondi interiori immensi da raccontare e rimandi di significati splendidamente e intuitivamente aderenti alla realtà psicologica umana, ma che sono vissuti in un modo unico e, talvolta, come nel caso delle schizofrenie, radicalmente diverso rispetto al senso comune.
Altre volte ancora, invece, ho conosciuto pazienti che hanno riposto grandissima fiducia nei farmaci, come se potessero risolvere ogni tipo di problema, riflessione, ogni conflitto intra-psichico (se di conflitti si può parlare), ogni vissuto traumatico. Questo può accadere per via di un’eccessiva e irreale fiducia verso la psichiatria intesa solo come scienza positivistica, alla stregua delle altre scienze positivistiche; come può anche accadere per via di particolari strutture e stili di personalità, inclini ad un affidarsi quasi cieco all’”altro”, vuoi per disperazione vuoi per una convalida, da parte di un consimile, di un altro essere umano, della effettiva sofferenza psicologica del paziente.
Un paziente con una tristezza reattiva, nel contesto di una personalità di struttura borderline, investiva di un potere quasi salvifico il farmaco prescrittogli, poiché era convinto che potesse risolvere del tutto la condizione di depressione da cui era convinto di essere afflitto. È impensabile, a mio avviso, che un farmaco possa determinare uno smussamento, una modifica, una elaborazione e integrazione dei lati e delle sfaccettature di una personalità patologica (ovvero di una personalità che per le sue caratteristiche fa soffrire il soggetto stesso e/o la società), qualsiasi essa sia. Con questo non voglio dire che i farmaci non siano utili, anzi: ho visto pazienti divorati dai loro deliri conviverci con più tranquillità, pazienti con depressione ritrovare le speranze perdute e l’umore di sempre, pazienti con disturbo bipolare trovare una loro stabilità timica. Tra l’altro i farmaci psichiatrici e i dosaggi di questi sono scelti sulla base di prove di efficacia e di rapporto rischio-beneficio, raccolte con metodologia rigorosamente scientifico-statistica. Tuttavia, mi pare innegabile che, al di là di questo, il farmaco abbia anche una sua simbologia ed una sua ermeneutica, a cui concorrono gli atteggiamenti, la storia di vita passata e la stessa psicologia, tanto e primariamente dei pazienti quanto anche degli psichiatri, e che tale simbologia possa rientrare nel lavoro terapeutico di ricerca dei significati da fare con i pazienti stessi.
Bibliografia
-Allen, F. (2014). La Diagnosi in Psichiatria. Milano: Raffaello Cortina Editore
-Borgna, E. (2018). Noi siamo un colloquio. Bergamo: Universale Economica Feltrinelli
-Borgna, E. (2018). L’ascolto gentile. Racconti Clinici. Torino: Giulio Einaudi Editor
-Lingiardi, V. McWilliams, N. (2020). Manuale Diagnostico Psicodinamico PDM-2. Milano:
Raffaello Cortina Editore
-Sarteschi, P. Maggini, C. (2016). Manuale di psichiatria. Milano: Monduzzi Editoriale
-Scharfetter, C. (2018). Psicopatologia generale. Roma: Giovanni Fioriti Editore
-Schneider, K. (2004). Psicopatologia clinica. Roma: Giovanni Fioriti Editore
-Stanghellini, G. Mancini, M. (2018). Mondi Psicopatologici. Milano: Edra
Image Copyright: Adolf Hirèmy-Hirschl, The Souls of Acheron, 1898
Comments