di Michele Dicuonzo.
Il fenomeno dell’eutanasia racchiude al suo interno un insieme di fenomeni eterogenei. Allo stato attuale, l’unica ipotesi beneficiaria di uno specifico dettato normativo è l’eutanasia passiva, disciplinata dalla L.219/2017. Sono lasciate fuori dallo spettro normativo le ipotesi di eutanasia attiva, ovvero l’interruzione intenzionale della vita di un terzo su sua richiesta, e di suicidio assistito, ovvero l’assistenza fornita a chi si dà volontariamente la morte. Nonostante l’inerzia legislativa nel regolare compiutamente questi fenomeni, si sono registrati in tempi recenti delle evoluzioni positive in entrambe le direzioni: con riguardo alla fattispecie dell’eutanasia attiva, la spinta per una futura opera di legiferazione la sta fornendo il recente referendum riguardante l’abolizione dell’art. 579 c.p.; tuttavia, l’evoluzione maggiore si ravvisa nell’ambito del suicidio assistito a seguito dell’intervento della Corte Costituzionale con la sentenza 242/2019, la quale ha riformato l’art. 580 c.p. Alla luce di questo, può affermarsi l’esistenza di un diritto a morire dignitosamente al pari dell’attuale assetto normativo italiano?
Sviluppo ed inquadramento giuridico del diritto all’autodeterminazione personale
Il diritto all’autodeterminazione personale è stato oggetto di un lungo e travagliato percorso nel nostro ordinamento giuridico. Il punto di partenza della trattazione è rappresentato dalla definizione del bene giuridico in gioco, ovvero “il principio di autodeterminazione nell’ambito degli atti di disposizione del proprio corpo”. In tal senso, recenti interventi legislativi e pronunce giurisprudenziali hanno mutato la rigida impostazione panpubblicistica presente nel codice penale Rocco, il quale considera a tal punto indisponibile il diritto alla vita in capo al singolo titolare da individuare come fattispecie di reato sia l’omicidio del consenziente (art. 579 c.p.) sia l’istigazione o aiuto al suicidio (art. 580 c.p.). Il processo legislativo, mutuato anche alla luce di numerosi disegni di legge mai realizzati e di una sentenza della Consulta, ha raggiunto il suo apice con l’introduzione nel nostro ordinamento della legge 22 dicembre 2017 n. 219 rubricata “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”: la presente legge ha rafforzato la base costituzionale del diritto alla vita, valorizzando e promuovendo un’alleanza terapeutica medico-paziente e garantendo, in questo modo, una maggior collaborazione nel momento di erogazione della prestazione curativa. Il fattore emblematico di tale ratio legis è il richiamo che l’art.1 fa al “rispetto dei principi di cui agli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione e degli articoli 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea”; il legislatore, operando un rinvio alle norme costituzionali, ha così introdotto, per la prima volta, una nuova situazione giuridica soggettiva, ovvero il diritto all’autodeterminazione della persona, mutuato alla luce di tre fondamentali principi costituzionali: in primo luogo, la tutela ed il riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo (art. 2 Cost); in secondo luogo, l’inviolabilità della libertà personale (art. 13.1 Cost); infine, il divieto di sottoporre il singolo a trattamenti sanitari lesivi del rispetto della persona umana (art. 32.2 Cost).
Inoltre, il richiamo operato dal legislatore alla Carta dei diritti fondamentali dell’UE non è casuale: in particolare, la Carta di Nizza, a differenza dell’art. 32 della Costituzione, separa il diritto alla salute, inteso diritto individuale e nella cui sfera opera il principio di autodeterminazione, dalla dimensione pubblica della tutela della salute collettiva, dalla quale origina il diritto sociale ad ottenere trattamenti sanitari erogati dallo Stato. Infatti la Carta, nella prima prospettiva, dispone all’art. 3 comma 2 che “nell’ambito della medicina e della biologia devono essere in particolare rispettati: il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge”, mentre, nella seconda prospettiva, garantisce all’art. 35 del Titolo IV il diritto dei singoli all’accesso ai servizi sanitari e di cura riconosciuti dagli stati nazionali, realizzando così il dovere solidaristico. In quest’ottica, l’integrità del corpo è un valore che non può considerarsi separato dall’autodeterminazione, ma ne costituisce, invece, una chiara esplicitazione, poiché non può esistere un concetto di salute ed integrità distinto dal consenso informato.
L’autodeterminazione – si osserva – «è l’espressione della stessa integrità nel suo gioco dinamico» (ZATTI R., 2008, p. 408)
Un punto chiave in cui si esplica il riconoscimento di un diritto all’autodeterminazione è la disciplina del “consenso informato”: gli artt. 2 e 5 dispongono che “nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge”; ne consegue, perciò, che “ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare, in tutto o in parte […] qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico”. In altri termini, la norma, tutelando il diritto del singolo all’ “autodeterminazione terapeutica”, pone il capo al medico curante una duplice responsabilità, in quanto egli, da un lato, ha l’obbligo di informare in modo completo il paziente del suo stato di salute, mentre, dall’altro, si ascrive a lui il divieto di costringere il paziente a sottoporsi a cure mediche nel momento in cui egli abbia coscientemente prestato il suo rifiuto, informandolo delle possibili conseguenze a cui si espone in caso di mancato trattamento. I termini entro cui il consenso può definirsi cosciente sono enunciati nell’art. 4, il quale prevede come questo debba essere “acquisito nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente, documentato in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o, per la persona con disabilità', attraverso dispositivi che le consentano di comunicare”. Inoltre, il consenso precedentemente prestato si considera revocabile in qualsiasi momento, anche nel caso in cui questo comporti l’interruzione del trattamento.
Un ulteriore punto cruciale della legge in esame si rinviene nell’art. 6, il quale esenta l’ascrizione di responsabilità civile e penale in capo al medico obbligato a rispettare la volontà del paziente di non sottoporsi a trattamenti sanitari salva-vita. In tal modo, il mancato intervento del medico alla luce di quanto detto, non comporta l’addebito del reato di omissione di soccorso ex art. 593 c.p. La legge, pertanto, pone il medico in una posizione di garanzia, la quale trova attuazione nel dovere di «impedire che il paziente rimanga privo della corretta offerta dei trattamenti possibili e dell’attuazione di quelli che accetta» (D’AVACK L., 2008, p.759)
Infine, l’interruzione può essere chiesta anche in previsione di una futura ipotetica situazione di incoscienza o incapacità, grazie agli istituti delle disposizioni anticipate di trattamento (DAT) e della pianificazione condivisa delle cure, per la quale si impone l’intervento di un fiduciario.
Autodeterminazione e suicidio assistito
Come evidenziato nell’introduzione, manca attualmente una compiuta disciplina normativa in materia di suicidio assistito. La domanda che sorge spontanea è se la libertà di autodeterminazione nel rifiuto delle cure evincibile nella l. 219/2017 possa fungere da fondamento per il riconoscimento di un più ampio diritto all’autodeterminazione nella morte.
Autorevole dottrina, recuperando la nozione di soggetto giuridico titolare di attribuzione di sovranità mutuata dal combinato disposto tra l’art. 32.2 Cost. e l’art. 8 CEDU, e staccandosi dalla concezione economica e biologica di individuo come assoggettato al potere di una norma (10), sostiene che l’insieme delle scelte personalissime dell’individuo non possono essere compresse da interessi estranei a questo, a meno che ciò non sia giustificato dalla possibilità di recare una lesione a diritti e libertà altrui (11). Pertanto, sarebbe ingiustificato continuare a concepire il bene vita come indisponibile e non soggetto ad alcuna rinuncia volontaria del suo titolare.
La natura premonitrice di quanto enunciato permette di trarre la logica conseguenza che se il bene vita è disponibile, “il suicidio stesso non si atteggia come atto contra ius, bensì come libertà insopprimibile dell’individuo, perché al diritto alla vita non fa da contraltare alcun obbligo di vivere” (12), concludendo che l’atto estremo potrebbe essere compiuto tanto dal titolare stesso, quanto da un soggetto terzo, previo consenso del primo. Tuttavia, non potendosi ignorare la sostanziale differenza tra le due ipotesi, emerge la necessità di limitare la libertà di autodeterminazione del bene vita a tassative ipotesi e rigidi parametri procedurali, garantendo in special modo una compiuta tutela a favore dei soggetti più fragili e vulnerabili e scongiurando pericoli di abuso.
Il banco di prova della querelle giuridica: il Caso Cappato e la sentenza della Corte Costituzionale
A seguito dell’ordinanza pronunciata dalla Corte d’Assise di Milano con cui si presentava questione di illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., la Corte Costituzionale è stata chiamata a definire il riconoscimento o meno di un diritto ad una morte dignitosa. La questione di legittimità è stata sollevata in merito al procedimento instaurato nei confronti di Marco Cappato, imputato del reato di “aiuto al suicidio” a seguito della morte di Fabiano Antoniani, noto come Dj Fabo. La Consulta adottò, in prima facie, una decisione del tutto inedita, scegliendo di non pronunciarsi immediatamente sulla questione, ma optando per l’emissione di un’ordinanza di sospensione con rinvio a data fissa della trattazione della questione di costituzionalità all’anno successivo, sollecitando in questo modo un intervento del Parlamento sulla questione.
Nonostante tali auspici e a seguito dell’ennesima prova di inerzia del legislatore, la Corte (sent. 22 novembre 2019 n.242) pronunciò dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale della norma incriminatrice dell’aiuto al suicidio per violazione degli artt. 2, 13 e 32 co. 2, Cost. limitatamente all’ipotesi in cui si agevoli “l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”, predisponendo al tempo stesso che il controllo di tali caratteri del paziente vadano verificati da una struttura pubblica del Sistema Sanitario Nazionale . Il merito e la lungimiranza della Corte in tale occasione è da rinvenirsi, in primo luogo, nell’aver compreso l’evoluzione del pensiero della società su un argomento così divisivo come l’eutanasia e, inoltre, nell’essersi allontanata dal dogma dell’indisponibilità del bene vita, circoscrivendo l’autodeterminazione a stringenti ipotesi al fine di scongiurare il pericolo di interferenze esterne.
La Corte ha pertanto introdotto nell’ordinamento una nuova causa di liceità: la norma penale è preservata, ma si riconosce la superiorità dell’autonomia individuale rispetto ad esigenze punitive. Tale libertà è circoscritta ad una precisa aerea di non punibilità in presenza di specifiche ipotesi e nel rispetto delle garanzie procedurali della l.219/2017; in tal modo si realizza una soluzione di continuità, mutatis mutandis, con la l.219/2017, in cui già sono concesse assicurazioni di poter accedere ad un rifiuto delle cure salva-vita ed esercitare un diritto (negativo) a morire, sempre sul presupposto di una scelta autonoma e consapevole. La rinuncia alla vita è una costante presente della legge sovra citata, per l’esercizio della quale, in quanto espressione di una libertà individuale, occorre porre una decriminalizzazione della condotta del terzo, specialmente in ipotesi in cui lo stesso titolare non sia in grado di provvedervi da sé (15)
Brevi cenni alla giurisprudenza della Corte Europe dei Diritti dell’Uomo
La Corte Costituzionale, pertanto, non ha accolto la totale illegittimità della fattispecie delittuosa. Tale posizione non è dissimile da quanto si ricava in alcune pronunce della Corte di Strasburgo (Corte EDU, Gross vs Svizzera 2010, , Haas c. Svizzera 2011, Pretty vs Regno Unito 2010), la quale, da un lato, ha mutuato dall’art. 8 CEDU l’affermazione esplicita di un “diritto individuale di decidere come e quando la propria vita avrà fine” qualora ricorra la capacità di raggiungere liberamente tale decisione, e, dall’altro lato, ha stabilito la necessità di ancorare l’autodeterminazione a parametri di legalità, di proporzionalità rispetto al conseguimento dello scopo e di legittimità del fine circa le ipotesi si suicidio assistito, al fine di proteggere i cd “soggetti deboli”. In tal modo, la corte EDU ha riservato agli Stati aderenti un rilevante “margine di apprezzamento” circa le limitazioni all’autodeterminazione.
Conclusioni: esiste un diritto a morire?
In sintesi, la Corte Costituzionale ha adottato un atteggiamento fortemente paternalistico, preferendo non pronunciarsi né sull’esistenza né sulla natura di un diritto a morire, ma optando per la fissazione di limiti all’ambito di applicabilità della sua decisione, circoscritti al contesto concreto del Caso di Dj Fabo. La sfida che si pone davanti al giurista italiano è di andare oltre l’orientamento caldeggiato dalla Corte, propendendo per una soluzione maggiormente progressista: in tal senso, un importante punto di riferimento è fornito dalla Corte Costituzionale tedesca, la quale, affermando il pieno riconoscimento del principio di autodeterminazione e della dignità personale, ha riposto al centro del discorso l’individuo come esclusivo detentore del potere decisionale e distaccandosi dal giustificazionismo procedurale, per il quale, invece, propende la Corte italiana. Avallando una tale impostazione si garantirebbe il diritto di porre fine alla propria vita anche in presenza di quelle malattie, fisiche o psico-fisiche degenerative, come la SLA, il Parkinson e l’Alzheimer.
Tuttavia, il ruolo chiave in questa materia è riposto nelle mani del legislatore, il quale si è dimostrato troppo spesso schivo nell’assumersi le responsabilità nell’adozione di decisioni attinenti tematiche così fondamentali per il contesto sociale. L’auspicio è che il legislatore compia un intervento volto a disciplinare tutte le ipotesi di eutanasia e di aiuto al suicidio; un buon punto di partenza nell’assolvimento di tale compito è rappresentato dalla sentenza 242/2019 della Consulta, ma da sola non basta: al fine di creare una compiuta opera di legiferazione, occorre che, conformandosi ai parametri imposti dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, si introduca “il diritto a decidere come e quando morire”, delimitandone l’ambito applicativo a precise ipotesi e garantendo che il Sistema Sanitario Nazionale ne dia effettiva e concreta attuazione.
Bibliografia
- Apostoli C. “Principi Costituzionali e scelte di fine vita” BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, n. 1/2021
- Risicato L. “Dal diritto di vivere al diritto di morire. Riflessioni sul ruolo della laicità nell’esperienza penalistica”, Giappichelli Editore Torino, 2008
- Marinucci, Dolcini, Gatta “Manuale di diritto penale, parte generale” Giuffrè editore Milano, 2020
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