di Andrea Di Carlo.
Inizio questo articolo descrivendo un battibecco avvenuto qualche settimana fra due figure chiave nella gestione dell’ordine pubblico. Imbarazzante, infantile e surreale è stato lo scambio di accuse tra l’attuale (ahimè) titolare del Viminale, il prefetto Matteo Piantedosi, e il suo collega ex Capo della Polizia-Direttore generale della Pubblica Sicurezza ed ex autorità delegata alla sicurezza della Repubblica del governo Draghi, il prefetto Franco Gabrielli. Dico surreale perché i due alti funzionari si sono sfidati a chi fosse più questurino dell’altro. Da una parte Piantedosi che rivendica il suo passato di zelante poliziotto e dall’altra Gabrielli che rivendica lo stesso accusando il collega di non esserlo abbastanza. Se non fosse che ogni giorno dei disgraziati muoiono nel Mediterraneo questo litigio strapperebbe qualche sorriso di compassione… Questo scambio di critiche ha, a mio giudizio, un che di macabro, perché mi ricorda un efficiente funzionario che rilasciava dichiarazioni simili, cioè Adolf Eichmann, quel burocrate reso famoso da Hannah Arendt con la sua famosa “banalità del male”. Lungi da me accostare Piantedosi e Gabrielli a un criminale di guerra, ma ahimè bisogna rilevare che la loro lite è purtroppo foriera di simili accostamenti.
Hannah Arendt: vita e pensiero
Nata in una famiglia ebrea di Hannover, Arendt visse tra Germania, Francia e infine gli Stati Uniti. Studentessa e per un certo periodo amante di Martin Heidegger, la filosofia arendtiana nasce dalla necessità di fare dell’azione il motore delle nostre vite. L’opera in cui esprime chiaramente il suo pensiero è Vita Activa: La condizione umana (1958). Arendt opera una rivalutazione della vita activa, cioè dell’agire umano, più importante della vita contemplativa religiosa. Siamo di fronte alla rivalutazione dello zoon politikon aristotelico, cioè l’idea che l’umanità tragga la sua ragion d’essere dal creare e vivere insieme. Non siamo monadi, ma collaboriamo, cooperiamo per l’eudaimonia, cioè per far sì che tutti noi possiamo vivere nel modo migliore possibile. Ciò che caratterizza la condizione umana è far nascere qualcosa, la natività (Arendt 2017: 56-57). Come si può intuire, le posizioni della filosofa sono antitetiche alle recenti e controverse affermazioni del ministro dell’Agricoltura Lollobrigida. Prima di continuare la mia disamina, voglio ribadire questo punto perché è determinante per capire l’atteggiamento di Eichmann: per Arendt è fondamentale cooperare e creare qualcosa insieme. Nascere e creare sono dunque le parole chiave per capire la natura umana (Arendt 2017: 63). Esistiamo perché vogliamo vivere e conoscere insieme il mondo, senza alcun ostacolo al nostro fiorire.
La banalità del male, cioè l’opposto della vita activa
L’opposto della vita activa è riassunto nella tristemente celebre frase “banalità del male”, coniata dalla filosofa stessa per descrivere il comportamento del funzionario nazista Adolf Eichmann nel suo saggio La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme (1963). Arendt era la corrispondente del New Yorker ed era stata incaricata dal giornale di scrivere un reportage sul processo. Eichmann fu uno degli ufficiali responsabili della soluzione finale della questione ebraica durante la conferenza di Wannsee (1942). Utilizzando un linguaggio più informale si può dire che egli era un pezzo grosso del partito hitleriano. Essendo un importante quadro del nazionalsocialismo, ci si dovrebbe aspettare una certa sicumera. In realtà, ed è la questione al centro del saggio arendtiano, Eichmann era l’opposto. Addirittura egli si unì alle SS come esperimento. Come sintetizza l’autrice tedesca, egli divenne membro delle SS perché gli era stato chiesto da un altro quadro del partito, Ernst Kaltenbrunner. Riporto per intero ciò che scrive Arendt (2015: 69): “[Eichmann] Non ebbe il tempo, e nemmeno il desiderio, di informarsi bene, non conosceva il programma del partito, non aveva mai letto Mein Kampf. Kaltenbrunner gli disse: “Perché non entri nelle SS? e lui rispose: “Già, perché no?” Andò così. Il funzionario hitleriano non ricorda né Rommel né Göring e neppure Heydrich: egli ha agito non perché voleva, ma perché così volevano dall’alto. È il criminale di guerra stesso a descrivere il suo comportamento: “Con la liquidazione degli ebrei io non ho mai avuto a che fare […], insomma non ho mai ucciso un essere umano; né ho mai dato l’ordine di uccidere un ebreo o un non ebreo: proprio, non l’ho mai fatto […]. È andata così… non l’ho mai dovuto fare” (Arendt 2015: 46-47). È questo ciò che rende inquietante ciò che lo zelante funzionario ha fatto: doveva commettere quelle atrocità perché doveva rispettare gli ordini. È puramente una questione di disciplina: così vogliono e così sarà fatto. Eichmann è l’anti-Arendt per eccellenza: non solo ha eseguito gli ordini, ma non ne ha nemmeno discusso il senso. La pensatrice descrive in modo icastico la mentalità dell’alto quadro nazionalsocialista: “la sola differenza tra Eichmann e l’umanità è che, manifestamente, egli la ignorava del tutto” (Arendt 2015: 96-97).
Perché Piantedosi?
A scanso di equivoci voglio ripeterlo: non è mia intenzione, nemmeno lontana, definire Matteo Piantedosi nazista. Pur non apprezzandone il lavoro, non è legittimo azzardare un simile paragone. Quello che invece è legittimo è rilevarne il modo in cui si presenta nelle aule parlamentari (specialmente dopo la tragedia di Cutro), con un fare più da contabile invece che da essere umano. Subito i tristissimi fatti di Cutro, il ministro ha dichiarato che “la disperazione non può mai giustificare condizioni di viaggio che mettano in pericolo la vita dei propri figli”. In audizione alla Camera lo stesso Piantedosi asserisce che è “orgoglioso” di essere un alto funzionario di polizia. Il titolare del Viminale non parla da essere umano, ma da grigio e sordo burocrate. Ovviamente si dice afflitto dalla catastrofe umanitaria voluta dal memorandum del suo predecessore Minniti, ma allo stesso tempo dice che la disperazione non dovrebbe mettere in pericolo la vita dei minori. Subito dopo dice di essere orgoglioso di aver scalato i vertici della pubblica sicurezza. Si ha l’impressione che non sia l’essere umano a parlare, ma il ragioniere, l’uomo che non si occupa ordine e sicurezza pubblica, ma quello che deve fare il conto del numero dei morti sotto il governo del presidente del Consiglio Meloni e che il numero delle vittime sia inferiore rispetto a quello dei predecessori.
Il ministro ha varcato il Rubicone nel momento in cui ha affermato che i migranti non “dovevano partire”. Li abbiamo sfruttati, colonizzati e massacrati e adesso non devono cercare aiuto presso i colonizzatori? No, secondo il serafico questurino, che asserisce che li andrà a prendere lui stesso. Non si dice più “aiutiamoli a casa loro” come ebbe a dire uno dei suoi predecessori; adesso si lasceranno direttamente a casa loro. Nelle parole del ministro, dicendola con Arendt, non c’è alcun rispetto della vita umana ma c’è soltanto l’obbedienza pedissequa a quello che vuole il governo (che è ovviamente colpevole quanto il ministro) e anche un’interpretazione distorta del proprio lavoro; Piantedosi non dovrebbe certificare una diminuzione nelle vittime grazie all’azione del governo, ma dovrebbe invece far sì che simili tragedie non avvengano più. Lascia anche sgomenti il fatto che il ministro dica en passant che si impegnerà a risolvere qualunque siano state le mancanze del Viminale assumendosene le responsabilità (che sarebbe il minimo richiesto al titolare del Ministero dell’Interno). Egli, fin qui, si è comportato come un altro anti-Arendt, in quanto la sua difesa del suo prezioso lavoro di questurino e della sua orgogliosa affermazione di essere un integerrimo servitore dello Stato (meglio di Gabrielli) lo rendono un misto di ipocrisia e allo stesso tempo di noncuranza della specie umana.
Conclusione: La banalità del male del XXI° secolo
Il ridicolo scontro verbale tra Gabrielli e Piantedosi su chi sia il questurino doc sarebbe passato sotto silenzio se non fosse avvenuto in un momento in cui le vittime lungo le rotte mediterranee si moltiplicano ogni giorno. Matteo Piantedosi si fregia del suo titolo, discolpa sé stesso e il governo affermando con un certo orgoglio (!!!) che il numero delle vittime è diminuito; tuttavia, alla prova dei fatti, non fa niente di quello che ci si aspetterebbe da lui. Questa è l’italica banalità del male: prendere decisioni, sparare nella mischia e poi scusarsi (ipocritamente) dicendo di essere stati fraintesi. Non si ammettono le proprie colpe, si va avanti tranquilli, scagionandosi.
Bibliografia
-Arendt, Hannah (2017) La condizione umana. Milano: Bompiani
-Arendt, Hannah (2015) La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme. Milano: Feltrinelli
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