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La controrivoluzione in Sudan: un arresto nella transizione democratica del Paese

Writer's picture: Koinè JournalKoinè Journal

di Annachiara Ruzzetta. Il 25 ottobre, in Sudan, ha avuto luogo un colpo di Stato militare. La giunta guidata dal generale, e capo del Consiglio militare, Abdel Fattah al Burhan, ha sciolto il governo di transizione a guida civile che era stato istituito dopo l'estromissione dell'ex presidente Omar al Bashir nell'aprile 2019. Il golpe ha messo fine ad un partenariato militare-civile di condivisione del potere, guidato dal primo ministro Abdalla Hamdok, e che avrebbe dovuto dirigere il Sudan verso la democrazia, con elezioni previste per il 2023. Al Burhan ha affermato di aver agito così “per evitare una guerra civile“. Tuttavia, questo colpo di mano ha incontrato l’iniziale resistenza della popolazione, a cui i servizi di sicurezza sudanesi hanno risposto interrompendo le reti internet e di telecomunicazione, schierando truppe a Khartoum e in altri centri abitati, ed intervenendo violentemente contro i manifestanti.

Anche se destabilizzante per la politica e l'economia del Sudan, il colpo di stato non rappresenta un cambiamento fondamentale nelle dinamiche di potere a Khartoum. Al contrario, porta alla luce le strutture distorte del violento sistema cleptocratico dell’era al Bashir, che nemmeno la rivoluzione del 2019 è stata in grado di scalfire. Analizzare queste dinamiche è essenziale per affrontare la crisi politica in corso in Sudan e rivitalizzare la possibile transizione verso un governo civile.

Una partita per il potere mai finita: dalla rivoluzione del 2019 al colpo di stato di al Burhan

Il golpe messo in atto lo scorso 25 ottobre arriva in un momento cruciale nella storia del Sudan contemporaneo. Per la prima volta dopo il colpo di stato che ha portato al potere Omar al Bashir nel 1989, il Paese ha visto un ritorno ad un governo quasi civile. Il dittatore Omar al Bashir, che ha governato il Sudan per quasi tre decenni, è stato infatti rovesciato dalla sua carica nell'aprile del 2019. Ciò che a primo acchito poteva sembrare la prevedibile conseguenza del fallimento delle numerose bread democracies della regione (Sadiki 1997), e una questione di politica interna, va invece contestualizzato in un quadro più ampio per capire come sia potuta sopravvivere un’autocrazia personificata da un criminale di guerra internazionale, i cui lasciti si sono ora ripresentati sotto forma dell’establishment militare guidato da al Burhan – e mai veramente dissolto – che ha dato vita al golpe dello scorso ottobre.

Con l’espressione “democrazia del pane” si intende un sistema istituzionale di apparente democraticità in cui l’eventualità di rivendicazioni popolari, suscettibili di compromettere il potere costituito, viene scongiurata rispondendo ai bisogni basilari delle masse e garantendo loro quel tanto da sopravvivere (idem: 135). Il regime trentennale di al Bashir rientra all’interno di questa categoria, come dimostrato dalle cause scatenanti delle manifestazioni succedutesi dal 2018. Il casus belli che ha innescato l’ondata di proteste il 19 dicembre 2018, infatti, altro non è se non la decisione del governo di triplicare il prezzo del pane. Una misura che ha assunto un carattere drammatico nel quadro di una crisi economica che si esprime nella carenza di cibo e carburante in tutto il paese. Dal pane in tavola alle richieste di rinnovamento politico, i manifestanti hanno invocato per mesi a più voci le dimissioni dello strongman al Bashir, al suono di “al shaab yurid isqat al nizam”, vale a dire “il popolo vuole la caduta del regime”. Il 12 aprile 2019, l’esercito ha risposto arrestando Omar al Bashir, e inaugurando così i negoziati che hanno portato ad un governo di transizione congiunto civile-militare per governare il Paese per un periodo di 39 mesi. Alla sua guida come primo ministro, l’ex-funzionario delle Nazioni Unite Abdalla Hamdok, e Abdel Fattah al Burhan, volto pubblico dell’establishment militare e presidente del Consiglio sovrano. Tuttavia, la transizione politica del Sudan è rimasta estremamente fragile, e anche prima della pandemia di coronavirus, i rischi di fallimento erano molti. Anche se ci sono stati alcuni progressi nella ricerca di un accordo globale con i gruppi armati, e nuovi accordi nel settore della sicurezza per mantenere la pace nelle aree del paese colpite dal conflitto, il governo di transizione non ha sviluppato quelle misure concrete necessarie per accelerare, e cementare, il processo di pace. Infatti, secondo Y. F.*, attivista sudanese per i diritti umani, "il Sudan è un paese che ha bisogno di essere ricostruito dalle sue ceneri”. Parlando con Koinè, Y.F. ha affermato che ciò di cui il Paese ha bisogno è “una riconciliazione nazionale efficace, sistemi legislativi e giudiziari indipendenti. [Il Sudan] non è un paese su cui si può decidere in pochi mesi, o anni. È un processo. Ha bisogno di tempo. Per ora non vedo alcun cambiamento sostanziale, e il recente attacco da parte delle forze armate di al Burhan ne è la prova".

Il gen. sudanese Abdel Fattah al Burhan saluta i suoi sostenitori durante una manifestazione sostenuta dai militari nel distretto di Omdurman a ovest di Khartoum, in Sudan, 29 giugno 2019 Non è pertanto esatto dire che la causa scatenante del golpe sia da ricercarsi nell’imminente passaggio dal Consiglio sovrano a una presidenza civile, dal momento che mancano più di otto mesi a tale scadenza. Le ragioni dell’improvvisa azione di al Burhan sono strutturali, e vanno individuate nel rifiuto radicale dell’esercito di accettare la prospettiva di essere sottoposto al controllo delle autorità civili. Non a caso la crisi sudanese fa emergere uno dei principali nodi irrisolti dei sistemi politici di una parte del mondo arabo, ovvero il ruolo degli apparati militari e di sicurezza. Infatti, dopo il golpe dello scorso 25 ottobre, i militari sono rimasti soli al comando dopo essersi sbarazzati del pungolo della società civile, con il vantaggio di poter essere nelle condizioni di salvare il redditizio settore industriale legato all’esercito, di cui la componente civile voleva privarli. Questa dimensione economica ha un peso non indifferente. L’esercito cerca inoltre l’impunità per i crimini del passato. Il numero due dell’apparato militare, Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemetti, comandante delle Rapid Security Forces (RSF) o Janjaweed - una forza paramilitare accusata di molteplici violenze contro i civili a partire dal genocidio del 2003 in Darfur - al termine della transizione avrebbe dovuto affrontare una magistratura meno compiacente.

Il problema generale è ben più profondo della semplice mancanza di un controllo civile sull’esercito e tocca gli stessi presupposti fondativi dello Stato. I militari non si limitano a svolgere il ruolo di garanti ultimi della sicurezza, ma hanno allargato a dismisura il proprio raggio d’azione e soprattutto hanno consolidato la propria centralità politica ed economica all’interno dello Stato, pur non rinunciando a rappresentarsi quale istituzione super partes. A chi interessa il golpe in Sudan La geografia colloca il Sudan al centro di numerose questioni geopolitiche regionali e mondiali. Decisivo è il suo sbocco sul Mar Rosso, un corridoio fondamentale che collega il Mediterraneo all’Oceano Indiano e all’Asia-Pacifico, cioè di fronte alle coste di uno degli alleati più preziosi e fragili degli Stati Uniti in Medio Oriente, ossia l’Arabia Saudita. La collocazione costiera motiva il crescente interesse di Russia, Cina e Turchia. Mosca conta di installarvi la sua prima base navale nel continente dai tempi dell’Urss, Pechino vi ha costruito un porto funzionale alle nuove vie della seta (BRI), mentre Ankara vi vede uno snodo cruciale per arrivare agli Oceani. Inoltre, con l’indipendenza del Sud Sudan nel 2011, Khartoum ha perso circa il 30% del territorio e oltre il 70% della rendita petrolifera. Ciò ha costretto il governo, già ai tempi di al Bashir, a rivedere la propria agenda geopolitica alla luce delle necessità di bilancio. Esempio lampante di questo sviluppo è la rottura dei rapporti con l’Iran, a favore dei suoi ricchi rivali regionali, con tanto di partecipazione di truppe sudanesi alla guerra in Yemen contro le milizie huthi sostenute da Teheran.

Nei due anni e mezzo passati dal rovesciamento di al-Bashir, la novità più importante è il disgelo con gli Stati Uniti, che hanno rimosso il Sudan dalla lista degli sponsor del terrorismo, ridotto le sanzioni e permesso al Paese africano di accedere ai fondamentali finanziamenti del Fondo Monetario Internazionale. In nome del riavvicinamento a Washington, il Sudan ha siglato gli accordi di Abramo per la normalizzazione delle relazioni diplomatiche con Israele. Ma la reazione degli Stati Uniti non è stata favorevole al generale al Burhan: Joe Biden ha infatti confermato il proprio riconoscimento del governo civile guidato da Hamdok, oltre a far congelare alla Banca Mondiale gli aiuti umanitari. Giovedì 28 ottobre al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite si sono contrapposti i membri permanenti occidentali e orientali, quando sono stati tirati in ballo democrazia e diritti umani, con la richiesta del Palazzo di Vetro di ripristinare il governo civile. Per ora è certo che i Paesi che hanno investito geopoliticamente nel Sudan seguiranno con attenzione il golpe, consci che gli equilibri regionali di potenza passano anche per Khartoum.


La carta raffigura i grandi attori che guardano con crescente interesse agli sviluppi politici, economici e militari dell’area di Mar Rosso e Corno d’Africa, esercitandovi un’influenza variabile. Dalla caduta del regime di al Bashir, il Sudan è diventato il principale polo di interesse per Turchia e Russia nelle proprie mire espansionistiche nel Mar Rosso e verso il Mediterraneo Orientale.

Cosa si prevede ora per il Sudan?

Aprile 2021, il primo ministro del Sudan Abdalla Hamdok e il generale Abdel Fattah al Burhan, presidente del Consiglio sovrano, a Khartoum

Il 21 novembre, Abdalla Hamdok è stato liberato dagli arresti domiciliari ed è rientrato in carica come primo ministro del governo di transizione sudanese. Ciò a seguito di un accordo politico con al Burhan. Tuttavia, la repentina riabilitazione di Hamdok ha destato più di una perplessità. Il testo dell’accordo del 21 novembre non è stato divulgato, ma le clausole rese note prevedono la scarcerazione di tutti i prigionieri politici e il reinsediamento del primo ministro alla guida di un esecutivo tecnico che conduca il paese a nuove elezioni nell’estate 2023. L’accordo non è il frutto di un negoziato politico volto ad affrontare i nodi che hanno rischiato di far deragliare definitivamente la transizione sudanese, quanto di un passo indietro dei militari e di una decisione autonoma di Hamdok, sottoposti entrambi a forti pressioni sia sul fronte domestico che internazionale. Soprattutto, l’accordo che ha reintegrato il primo ministro nelle sue funzioni non è stato né negoziato né tantomeno firmato dai raggruppamenti sociali protagonisti della rivoluzione dell’aprile 2019, le Forces for Freedom and Change (FFC), che contestano la legittimità politica e la validità giuridica del testo. C’è chi ha parlato di “suicidio politico” di questo economista prestato alla politica, eroe delle piazze ai tempi della Rivoluzione del 2019, ma oggi accusato di aver ceduto alle pressioni dei militari e di mediatori sudanesi e stranieri, interessati a riportare il paese allo status quo. Al momento, Hamdok pare essere sostenuto più dalle cancellerie internazionali che dalle forze civili sudanesi e si trova ad affrontare una crisi di credibilità che lo costringerà a un lavoro di tessitura del consenso tutt’altro che semplice. A tal proposito, le FFC appaiono oggi ancora più convinte dell’inaffidabilità dei militari quali partner capaci di condurre in porto la transizione. Il colpo di Stato, com’era inevitabile, ha “radicalizzato” le rivendicazioni dei Comitati di resistenza, cellule di base della protesta anti-regime, che hanno sconfessato Hamdok e insistono nel chiedere a gran voce l’uscita di scena dei militari e la creazione immediata di istituzioni di governo pienamente civili.

Il 27 ottobre 2021, i dimostranti a Khartoum hanno resistito su strade barricate dove bruciavano pneumatici, cantando "no al governo militare"

N.A.*, attivista sudanese e presidente di una ONG statunitense che si batte per i diritti delle donne in Darfur, ritiene che a meno che il "disarmo delle milizie, il ritiro della RSF dalle aree abitate dai civili, l'integrazione delle loro forze nell'esercito nazionale, e la loro completa rimozione dal Darfur, dal Nilo Blu e dal Sud Kordofan non avvenga, ci si deve aspettare ulteriore violenza” – che non è tardata ad arrivare, vista la nuova ondata di attacchi da parte delle milizie arabe armate Janjaweed nello stato del Darfur occidentale, che hanno causato almeno 138 morti tra la popolazione civile. È difficile che la transizione possa riprendere il proprio corso senza un negoziato politico inclusivo che coinvolga le principali forze politiche, militari e sociali del paese. Tuttavia, anche qualora vi fosse la volontà dei protagonisti della crisi di aprire un tale spazio di dialogo, non è detto che l’iniziativa troverebbe il necessario sostegno internazionale e la disponibilità a collaborare di tutti gli attori interni. Secondo I.K.*, attivista e studente sudanese attualmente residente in Olanda, ciò che è avvenuto il 25 ottobre è un “gioco politico sporco”, e finché l’establishment militare che ha portato al Burhan al potere resterà in carica, la Rivoluzione della società civile sudanese “dovrà andare avanti”.

*Le identità delle fonti sopracitate sono state estromesse per motivi di sicurezza

Bibliografia Sadiki, L. (1997). Towards Arab Liberal Governance: From the Democracy of Bread to the Democracy of the Vote. Third World Quarterly, Vol. 18, No. 1. New York: Taylor & Francis, Ltd.



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