
di Tommaso Di Ruzza
Capita sempre più spesso ormai, per fortuna o per sfortuna, di imbatterci in dibattiti relativi alle tematiche che caratterizzano il mondo globalizzato e la società in cui viviamo, e a me è sempre sembrata doverosa ed all’ordine del giorno, anche se in modo diverso nella storia, la volontà di comprendere in quale direzione si muovono le intenzioni ed i processi umani che il mondo lo costruiscono e lo determinano pezzo per pezzo e giorno dopo giorno. E’esattamente da questa necessità, ora come ora più che attuale, che chi scrive si addentrerà nella missione impossibile e per questo interessante di carpire i cambiamenti della società odierna analizzando la cosiddetta globalizzazione e arrivando poi a descrivere la sua cugina più vicina, quella che in molti chiamano deglobalizzazione.
Si, ma perché la globalizzazione? E che cos’è?
Mi sembra piuttosto chiaro che se la sola volontà di inquadrare la realtà che ci circonda bastasse, oggi probabilmente saremmo tutti estasiati con lo sguardo rivolto verso l’alto a guardare la nave “ENTERPRISE” della famosa saga fantascientifica “STAR TREK” sottoporsi all’ultimo check in prima di partire a velocità curvatura.
E invece ci troviamo a dover interpretare i segnali di una società fondata oramai sempre più sul cosiddetto “HOMO OECONOMICUS”, l’uomo del consumo, e che di fatto è attraversata da cicli e periodi nei quali il processo di globalizzazione e ciò che ad essa è più o meno collegato, determinano le nostre quotidianità.
E’ chiaro dunque come nel caso della globalizzazione, che per i non addetti ai lavori è oggi intesa più che altro come la progressiva mondializzazione dei vari interessi di massa, si scorga una diretta responsabilità, nell’ottica della sua emersione più o meno pervasiva, di tutti quei processi vari che, anche grazie al primato sulla scena internazionale degli USA nel 1945 e nel 1989-91 hanno allontanato possibili alternative, e i cui effetti sono il punto focale della nostra discussione.
Quindi basta parlare delle interconnessioni della società contemporanea per capire cosa sia la globalizzazione, o c’è di più in essa?
Ahimè no. Difatti la globalizzazione non può e non deve di certo essere inquadrata solo sotto il punto di vista politico- esperienziale e quotidiano, pena l’errore concettuale grave che ci porta a pensare ad essa come un fenomeno ascrivibile e orientativamente facile da descrivere.
Proprio per questa ragione perciò risulta evidente come al trascorrere degli anni si sia cristallizzata una trasformazione della percezione di spazio e tempo che hanno, nel male e certamente anche nel bene, ridelineato le linee guida relative alle interazioni umane, trasformazione questa che ci aiuta a carpire il senso della globalizzazione e del suo progressivo processo di destrutturazione che secondo alcuni studiosi oggi sarebbe in atto.
Basti pensare a ciò che in Inghilterra intorno alla metà del XIX secolo si diceva a proposito dei treni, a quel tempo fresca novità infrastrutturale: “Il treno annichilisce le distanze; la superficie del nostro paese si va riducendo, e presto non sarà molto più grande di un’unica immensa città” (Harvey 1996: 207-291)
E’ chiaro dunque come tutto questo tradisca la presenza di obblighi che la stessa produzione capitalistica nel tempo ha progressivamente sollevato, delimitando i confini di una globalizzazione originatasi sul concetto secondo cui è il mercato stesso a regolamentare a sua più o meno ampia discrezione, le dinamiche dei rapporti che intercorrono fra individui e società.
Questo ci porta a poter dire con una certa sicurezza, ma mai troppa altrimenti Socrate se ne potrebbe dolere, che maggiore è la cassa di risonanza di cui il capitalismo mercatista può disporre, maggiore sarà l’effetto sui desideri collettivi e sui rapporti umani.
Tutte le criticità che dunque la globalizzazione ci ha presentato e ci presenta oggi, non sono quindi derivate dalla semplice equazione che vede il processo tecnologico impersonare la causa che porta alla relativizzazione di spazio e tempo, ma esse sono invece indicative di come e quanto le interazioni si velocizzino e si modifichino, creando anche dei black-out che spesso fanno arrancare i sistemi politico-sociali complessi di cui noi facciamo parte.
Quanto è elevato il suo grado di complessità?
La globalizzazione è un processo indeterministicamente caratterizzato dalla capacità di plasmare i cambiamenti del tessuto su cui agisce e che senza dubbio finora è risultato sostanzialmente identificabile con la modernità, fino al punto che disgiungere questi due concetti potrebbe non risultare la scelta migliore, sempre ammesso che lo si riesca a fare. Ma globalizzazione, oggi vuol senz’altro anche dire tendenza alla visione unificata delle cose, eppure allo stesso tempo, controintuitivo ma vero, diversificata, nell’ottica di una pluralità di strade percorribili, tutte con una loro identità e tutte da scoprire.
Visione questa che ci porta ad associare alla globalizzazione il concetto di una ben chiara “INTERDIPENDENZA” dei soggetti interessati agli scambi (economici o culturali) che ne contraddistingue l’immagine principale e meglio conosciuta anche nell’immaginario collettivo e tipico di tutti i giorni.
E la deglobalizzazione?
Molto complessa e più difficilmente descrivibile risulta invece oggi la progressiva e più o meno discussa destrutturazione di questa interdipendenza appena citata, che da molti oggi viene chiamata “deglobalizzazione”, e che si va a inserire non solo in settori oggi occupati da temi scottanti come ad esempio la transizione energetica, ma che riporta anche a esempi molto attuali, (si pensi ad esempio al rapporto tra USA da una parte e Mosca e Pechino dall’altra?). Si, perché oggi si prosegue in una direzione che vede la derussificazione degli approvvigionamenti e soprattutto la ricerca di una emancipazione energetica come sempre più all’ordine del giorno, viste le purtroppo numerose dimostrazioni di cesura col “mondo occidentale tutto jeans e hamburger” che Vladimir Putin sembrerebbe, quantomeno da 11 mesi a questa parte, aver di gran lunga preferito a scapito di un dialogo, che seppur con le sue difficoltà potrebbe dall’inizio aver portato ad un compromesso almeno temporaneo.
Ma se si parla di Russia, e perciò si sposta l’attenzione anche su quella che purtroppo al momento non sembra essere la sua principale reale interlocutrice geopolitica, ovvero l’Europa, agli occhi di una sempre crescente opinione pubblica adombrata se non genuflessa agli USA, si scopre che per essa la deglobalizzazione non è certamente una semplice iniziativa di stampo nazionale, bensì una vera e propria razionalizzazione di fonti, materie prime, capitali ed obiettivi di stampo geoeconomico. Vista la situazione attuale in Ucraina tuttavia, questo processo deglobalizzatorio per l’Europa è al momento molto coincidente con la derussificazione di cui si parlava poco prima, non per motivi trascendentali sia ben chiaro, quanto più che altro poiché non si dispone ad oggi, nel vecchio continente, di risorse geopolitiche, economiche e anche sociali, con le quali poter differenziare la sfera di azione riguardo al perseguimento di uno staccamento dall’interdipendenza che essa si trova ad avere come detto dalla Russia. Questo discorso può secondo me essere esteso anche ad altre realtà, tra cui Cina e Usa, ed allo stesso tempo Italia ed Europa stessa, ammesso che questo sia conveniente e che non si vadano a creare danni ben maggiori di quelli che sarebbero i benefici poi effettivamente sorti in seguito ad un’operazione di questo genere e portata.
E l’Europa e l’Italia dove si collocano?
Proprio su questa scia l’Europa ha infatti riattratto a sé alcuni settori economici di produzione anche importanti e oggi adducenti una certa centralità nel sistema economico a chi li agisce tra cui ad esempio l’universo dei prodotti fondati sull’elettronica. Proprio su questo, è agevole porre attenzione infatti sulle dinamiche del commercio ad esempio dei chip, che oggi ci restituiscono quantomeno una bozza del difficile mosaico che rappresenta i rapporti commerciali tra Usa e Cina. In un certo senso dunque frapporsi alla Cina in ambito economico-produttivo ed industriale sembra oggi diventare difficile e talvolta nemmeno fattibile o vantaggioso anche per una superpotenza come gli Stati Uniti, che nonostante questo diversamente da come si sente ultimamente, non si trova a fronteggiare una criticità di importanza galattica a proposito della perdita di forza del dollaro.
In un certo senso quindi la prospettiva di una perdita di forza del dollaro risulta ad oggi ancora un mero volo pindarico che riserviamo agli Heiddegger dell’economia speculativo-teorica, visto anche il fatto che proprio in luce della oggettiva supremazia che ha il dollaro nell’arena delle valute mondiali, a maggior ragione se si giungesse ad una “sdollarizzazione”, è molto difficile che non si giunga automaticamente ad una riduzione monetaria e , quindi, ad un aumento di investimenti nelle fonti di ricchezza fisiche, come ad esempio l’oro, ma non è difficile rendersi conto che questo processo causerebbe importanti disfunzioni del sistema monetario e ancor più bancario che alla fine difficilmente potrebbero giovare a qualcuno, Italia inclusa ovviamente, rientrando oramai da almeno 70 anni nella sfera di influenza statunitense.
Ma allora che strada imboccare delle due?
Beh, quand’anche si avesse una risposta da poter dare a questa domanda, le difficoltà avute nell’arrivare ad avere gli elementi stessi per averla potuta formulare saranno una barzelletta se confrontate alle criticità che invece si dovrebbero affrontare per mettere in pratica la risposta che ci siamo dati. Di certo però, non sembra più sostenibile oramai il modello di globalizzazione che fino ad oggi è stato attuale, anche e soprattutto da un punto di vista ambientale e sostenibile. Allo stesso tempo dire che la deglobalizzazione sia la strada giusta implicherebbe non solo eliminare tutto ciò di buono che la globalizzazione abbia prodotto, ma anche giocare a fare Nostradamus, e quindi addentrarsi nell’ignoto e rimanere delusi più di prima dagli effetti creati. Vedremo cosa ci riserva il fato… e poi…
Chissà che il futuro non riservi una terza via!
Bibliografia
-Harvey D. (1996) “ Justice, Nature, and the geography of difference”, Oxford, Blackwell.
Image Copyright: Dagens Nyether
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