di Cecilia Pugliese.
“Bisognerebbe amare la vittima senza bisogno di sapere nulla di lei. Bisognerebbe sapere molto del carnefice per capire che la distanza che ci separa da lui è minore di quanto crediamo.” (Nicola Lagioia, “la città dei vivi)
Nella Primavera del 2016, nel quartiere Collatino di Roma, due giovani, senza alcun pretesto apparente, torturarono a morte un ragazzo di 23 anni: Luca Varani. Le notizie dell’omicidio, le interviste ai familiari, le testimonianze riempirono i giornali, i programmi televisivi per diverso tempo. Tutti ricercavano un qualche movente per un massacro a sangue freddo che nemmeno gli assassini riuscivano apparentemente a spiegare. Nel libro “La città dei vivi”, Nicola Lagioia ricostruisce passo per passo le vicende che hanno portato Marco Prato e Manuel Foffo a realizzare il loro accordo di far del male a qualcuno: progetto partorito in giorni scanditi da droga e alcool. Nell’intreccio del romanzo le parole si susseguono ad un ritmo serrato; le vicende si fanno sempre più agghiaccianti e l’autore scava a fondo per tentare di dare una fisionomia al male e distruggere l’apparente normalità di due ragazzi della Roma borghese. Quello che sembra un omicidio a sangue freddo, un gesto nato da un raptus, la cui causa il lettore all’inizio attribuisce ad un eccesso di droghe, in realtà nasconde pensieri macabri, personalità morbose, traumi non affrontati e una rabbia sommersa che cova e divora. Le idee più crudeli, le orribili fantasie si nascondono in profondità, dietro la facciata di due persone apparentemente normali che chiunque potrebbe incrociare nella propria vita. È dunque questo che lascia al lettore una sensazione di angoscia: il dover riconsiderare il concetto di bene e male, di patologia e stabilità e comprendere come i confini non siano netti, ma piuttosto sfumati e frastagliati. Lagioia non giudica, descrive e fa capire come il male sia più vicino di quanto si creda.
La violenza accompagna l’uomo dai primordi della società. Essa persiste ed è ovunque: vaga nei quartieri più benestanti, macchia le mani e scava la mente dei più rispettabili, dilaga nei quartieri più poveri, sfrutta le differenze di genere, di razza, cavalca la disparità economica e spesso è alimentata da filosofie, credenze religiose e pensieri politici. La criminalità assume molteplici volti: bullismo, calunnia, frode, omicidio, femminicidio, violenze razziali.
E così- come il lettore alla fine della “città di vivi” - molti nel corso della storia si sono interrogati su cosa spinga l’uomo a tutto ciò, se vi siano tratti che identifichino una persona violenta o se sia piuttosto il contesto in cui si è immersi a determinare le azioni future. Ci si può chiedere, dunque, se criminali in qualche modo si nasca per un pattern genetico prestabilito o se siano le esperienze di vita a plasmare una personalità pericolosa. La risposta è alquanto complessa. Innanzitutto, è necessario allontanarsi dal binomio natura e cultura ed eliminare l’impostazione avversativa della domanda. Bisogna abbracciare l’idea che i due concetti si intreccino e influiscano allo stesso modo nel creare una personalità incline al crimine. Per alcuni all’origine della violenza c’è un istinto primordiale connaturato nell’uomo e nella sua evoluzione. Si pensi al concetto espresso da Freud in “al di là del principio di piacere”: Thanatos e Eros, distruzione e vita, due pulsioni, presenti in ciascun individuo in continua lotta per prevalere una sull’altra. Secondo Lorenz, famoso etologo del 900, l’uomo si distingue dalle altre specie per colpire e uccidere i propri simili. Secondo la sua teoria l’aggressività è un istinto che accomuna l’uomo all’animale e che deve per forza essere espressa. Così come un vaso che se riempito fino all’orlo rovescerà l’acqua al suo esterno, anche l’aggressività, accumulandosi sempre di più, deve avere canale di sfogo. Secondo lo studioso però è nelle modalità in cui essa viene manifestata che ci si discosta dal mondo degli esseri non umani. Un combattimento tra lupi è governato da specifiche regole e riti per cui lo sconfitto esibisce il collo al vincitore per terminare così lo scontro e definire, senza alcun spargimento di sangue, una supremazia. Quante volte nel mondo dell’homo sapiens, uno scontro si traduce in aggressioni, zuffe o addirittura in guerriglie? Quante volte la rabbia mossa dalla gelosia si tramuta in omicidio?
Il male è comune, virale e forse anche molto più “normale” di quanto si creda. Se dunque per alcuni la violenza è parte dell’individuo, per altri l’aggressività nasce per esperienze di vita a cui si è esposti e si sviluppa grazie alle regole che la comunità deve seguire e al ruolo che ciascuno ricopre. Hannah Arendt nel racconto del processo di Eichamann, responsabile della deportazione degli ebrei, scrive come egli non si riteneva in alcun modo “colpevole nel senso d’accusa” (Arendt, 1964: 29). Egli si trovava di fronte al tribunale distrettuale di Gerusalemme con l’accusa di crimine contro l’umanità. Eichmann era “convintissimo di non essere un innerer Scheinehund, cioè di non essere nel fondo dell’anima un individuo sordido e indegno; e quanto alla consapevolezza, disse che sicuramente non si sarebbe sentito la coscienza a posto se non avesse fatto ciò che gli veniva ordinato- trasportare milioni di uomini, donne e bambini verso la morte- con grande zelo e cronometrica precisione” (Arendt, 1964: 33). Di fronte a queste parole, il lettore rimane attonito. Come si può spiegare uno dei più grandi crimini dell’umanità con la semplice esecuzione di ordini dall’alto? Eppure, in Eichmann, secondo la Arendt, non c’era nient’altro che la coscienza di un uomo comune e dietro ad un atto così disumano, privo di qualunque etica e morale, la volontà di seguire precisamente gli ordini imposti. Da qui il concetto di “banalità il male”, a sottolineare quanto tale fenomeno sia più comune di quanto si creda.
A rafforzare l’idea di come seguire regole e ricoprire determinati ruoli possa far decadere qualunque giudizio morale o etico, sono stati condotti molti esperimenti nella ambito della Psicologia Sociale, tra i quali due risultano emblematici: l’obbedienza all’autorità di Milgram e la prigione di Stanford di Zimbardo. Nel primo caso la ricerca era così strutturata: ai partecipanti, ignari del reale scopo, veniva assegnato dallo sperimentatore il ruolo di “insegnanti”. Il loro compito era quello di punire con una scossa in una scala crescente da 15 a 450 Volt gli errori commessi, nelle varie sessioni di test, da altri partecipanti (in realtà attori che fingevano urla di dolore nella stanza adiacente). Nonostante vi fosse la consapevolezza da parte dei soggetti che il loro compito avesse conseguenze dolorose, più della metà ha portato a termine quanto richiesto da chi aveva organizzato l’esperimento. Nell’esperimento di Zimbardo, degli studenti volontari furono divisi in due gruppi, guardie e prigionieri e furono portati in una “prigione simulata”. La cosa sconvolgente è che dopo poco tempo i ragazzi che “interpretavano” il ruolo di carcerieri iniziarono a comportarsi violentemente, tanto che l’esperimento fu interrotto dopo sei giorni. In questo caso gli studenti erano stati scelti in maniera del tutto casuale, ragazzi assolutamente comuni, che si sono però trasformati in dei sadici aguzzini. È dunque la consapevolezza di essere in una situazione di superiorità a legittimare comportamenti violenti?
È abbastanza chiaro che l’ambiente abbia un ruolo determinante nel definire e costruire la scala di valori di ciascun individuo. Si parla infatti di emozioni sociali per definire l’insieme di stati affettivi che si formano grazie alla possibilità di intrecciare relazioni. Sotto quest’ottica, in una società in cui regnano l’individualismo, il narcisismo, la brama di successo e l’invidia per i traguardi altrui, i sentimenti come la consapevolezza delle emozioni altrui, l’empatia, si affievoliscono sempre di più. Si parla di Shadenfreude, per indicare la sensazione di piacere che scaturisce dagli insuccessi altrui o dal confronto con qualcuno considerato inferiore. Non è forse una sensazione sempre più comune al giorno d’oggi?
Non ci si può però fermare ad attribuire la causa di un’aggressività crescente al solo contesto in cui si vive. Grazie alle moderne tecniche di ricerca, le neuroscienze hanno potuto evidenziare come vi siano fattori biologici che aumentano il rischio di compiere atti violenti. Varie ricerche hanno cercato di individuare un background genetico che potesse influenzare lo sviluppo di comportamenti aggressivi. Uno studio finlandese ha preso in considerazione 794 detenuti con condotta antisociale e ha portato avanti un’analisi genomica e statistica. È risultato esistere un legame tra l’espressione di uno specifico gene (genotipo MAOA a bassa attività) e l’attuazione di azioni violente. Questo non significa che chiunque abbia un’alterazione diventi una persona violenta. È infatti necessario che vi siano anche determinate variabili contestuali come, ad esempio, l’abuso di alcool o abusi durante l’infanzia che concorrono poi ad un’alterazione dei processi che sono governati da quegli specifici geni
Da queste evidenze emerge come il concetto di aggressività sia complesso, multidimensionale ed implichi l’interazione di variabili contestuali e biologiche. Tale tema non può essere analizzato da un unico punto di vista e non può considerare un’unica causa. Quello che va sottolineato è che la violenza è reale, tangibile e quotidiana. Il male è la notte dell’uomo e quello che l’individuo ha sempre cercato di fare è costruire una morale trasversale a principi laici e religiosi per poter arginare questa parte oscura. Raggiungere obiettivi tramite l’aggressività è relativamente semplice, mentre il bene è un atto di profonda coscienza che implica estrema consapevolezza del sé e dell’altro. Forse l’empatia, principio del bene, è fin troppo dissonante con una modernità così superficiale come quella attuale.
Bibliografia
Arendt (1964). La banalità del male. Milano. Feltrinelli
Bogerts (2021), Where does violence come from? A Multidimensional Approach to Its Causes and Manifestations. Cham, Switzerland. Springer
Freud (1986). Al di là del principio di piacere. Bollati Bolinghieri.
Lagioia (2020). La città dei vivi. Torino. Einaudi.
Lorenz (1969). L’aggressività. Il Saggiatore. Milano.
Copyright Text Image: Il Post
Comments