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Writer's pictureKoinè Journal

Perchè ha vinto (di nuovo) Donald Trump?


di Tommaso Di Ruzza e Stefano Ambrosino.


Gli Stati Uniti d’America sono andati alle urne soltanto 6 giorni fa, eppure il rimbombo siderale dei risultati dell’appuntamento elettorale più importante del pianeta continua ad essere forte ogni giorno che passa.


A spuntarla, in una elezione presidenziale appassionatissima e incerta fino all’ultimo momento, è stato l’ex Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, ora rieletto per un secondo mandato di governo alla Casa Bianca, che lo vedrà come inquilino per i prossimi 4 anni. La grande sconfitta invece, non è soltanto la candidata democratica Kamala Harris, ma l’intera area democratico-progressista americana troppo attenta a dare la priorità ai temi civili piuttosto che a quelli socio-economici.


Ma perché ha vinto Donald Trump? E soprattutto in che cosa è riuscito l’ex presidente, ora presidente eletto, in cui invece la controparte democratica ha clamorosamente e nettamente fallito?


La politica di Trump

Per rispondere a queste domande cruciali, è necessario fare una breve e chiarissima premessa che ci permetterà di comprendere perché le elezioni americane hanno avuto l’epilogo che tutti conosciamo.


È assolutamente importante comprendere infatti che il popolo americano presenta delle caratteristiche umane e psicosociali che per certi aspetti divergono considerevolmente da quelle della stragrande maggioranza dei popoli europei. Seppur eredi dei padri pellegrini di origine inglese, infatti, il popolo americano ha sviluppato un approccio particolare e soggettivo alla gestione della pluralità comunitaria e della società. Essa infatti, basata sui principi di lavoro ed opportunità, si è col tempo evoluta verso una concezione che mettesse al primo posto il concetto di “centralità comunitaria”, con tutto quello che questo ne determina. Tutto questo ha prodotto, in particolare dalla fine dell’800, una concezione nazionale basata sull’assunto che lo stile di vita americano non fosse in alcun modo negoziabile o anche solo lontanamente aperto a revisioni di qualche tipo. Ecco dove ha stravinto Donald Trump; il quale peraltro, oltre a vincere la presidenza conquistando tutti i 7 Swing States, ha anche permesso al partito Repubblicano di ottenere la maggioranza in senato e alla camera dei rappresentanti, oltre ad ottenere la maggioranza dei voti su scala nazionale.

 

Trump è riuscito ad intercettare e a farsi portatore (a parole, non dimentichiamoci che al suo fianco aveva l'uomo più ricco del mondo, Elon Musk) di tutte le istanze della classe media lavoratrice americana, non soltanto coinvolgendo i cittadini nel processo politico-decisionale, ma mostrandosi anche attento uditore delle loro richieste. Ha parlato e saputo parlare a quella “pancia” che si è sentita messa da parte (a ragione o torto) negli ultimi anni, riuscendo a stabilire con essa un rapporto diretto e franco, fatto di parole d’ordine e slogan roboanti, che hanno in qualche modo aizzato lo spirito americano. Una narrazione contro la quale Kamala Harris (a cui non si possono addossare tutte le colpe) e il Partito Democratico (molto più responsabile) non hanno saputo trovare alcun tipo di contromisura.


Completamente scettico e anzi nemico dichiarato dell’ideologia woke americana e dell’approccio che vede l’attribuzione ai diritti civili di netta priorità su quelli economico-sociali, Trump è riuscito dove invece la Harris e tutto l’universum cosiddetto democratico-progressista hanno fallito nettamente, ovvero a parlare (a modo suo) di temi che interessano l’elettore medio americano: lavoro, immigrazione ed economia. Diversamente dell’agenda democratica, infatti quella trumpiana è risultata fisiologicamente più appetibile e snella per il ceto medio statunitense, richiamando infatti temi concreti e dal significato specifico anche di natura banalmente quotidiana.


Tutti temi assolutamente prioritari e centrali nella vita dei cittadini americani, che Trump è riuscito a inserire all’interno di una narrazione elettorale convincente, e che invece Harris ha subordinato alle istanze sui diritti civili e su temi che poco interessano alla "pancia", come parità di genere ed ambientalismo.


È giusto a questo punto dire che forse le elezioni americane abbiano avuto in realtà un risultato se non ovvio e scontato, quantomeno coerente. Coerente con il vero DNA del popolo americano. Dovremmo in un certo senso smetterla noi europei di tentare di europeizzare gli Stati Uniti e gli americani. In primis perché applichiamo ad un impero una logica che è quella di stati che invece perseguono pace e aumento della qualità della vita, e poi perché le dinamiche regionali e gli interessi geopolitici di questi due mondi sono radicalmente diversi e talvolta tutt’altro che coincidenti.


La psicologia nella politica

Proprio su questo tema si concentrano molte delle domande che hanno fatto da sfondo a questo post elezioni: "Ma allora, dopo tutto quello che si è scritto e che si è detto, come hanno potuto gli americani votare Trump ancora una volta?" Cosa ha spinto milioni di americani a sostenere una figura che, in campagna elettorale, non ha fatto che attaccare con violenza chiunque provasse a mettersi contro di lui, qualsiasi gruppo sociale, qualsiasi minoranza? Come hanno fatto gli ispanici a votare per un partito che ha portato sul palco un comico che ha definito Puerto Rico "un'isola di spazzatura"? E come hanno fatto le donne a votare per un uomo che intende limitare i loro diritti, a cominciare dal diritto all'aborto? Perché gli afroamericani non hanno avuto lo stesso sentimento identitario che, invece, avevano dimostrato nel sostenere Barack Obama? In questi giorni, qualsiasi opinionista politico si è posto queste domande, cercando di dare una risposta che spieghi un comportamento che, da una prospettiva europea, appare difficile da comprendere.


Queste domande, però, possono essere sintetizzate in un quesito più generale: cosa ci porta, da un punto di vista psicologico, a votare per un candidato piuttosto che per un altro?


Ebbene, quando ci spingiamo in questo tipo di analisi, i fattori da considerare sono innumerevoli. La prima considerazione da fare è che risulta impossibile parlare di politica senza parlare di emozioni, positive o negative che esse siano. Per sua stessa natura la politica è confronto e conflitto tra le parti, ed è impossibile pensare ad un discorso persuasivo di un leader che non si rivolga, oltre che alla mente, al cuore dei cittadini. È per questo che ogni fenomeno politico include sentimenti ed emozioni, e sarebbe riduttivo non considerarne il ruolo. Inoltre, è stato più volte dimostrato che suscitare un’emozione negli elettori può essere uno strumento più persuasivo rispetto all’uso di argomentazioni e ragionamenti logici. Un altro elemento fondamentale da considerare è che l’elettore medio non necessariamente comprende, ad esempio, le dinamiche economiche in corso; non è necessariamente a conoscenza delle politiche migratorie o dei corretti numeri ed effetti di tali flussi; non comprende le dinamiche del mercato del lavoro, della crescita economica, del perché dell’inflazione. E non comprende tali fenomeni o perché non possiede gli strumenti teorici necessari, o perché non è abbastanza motivato per andare in fondo a tali questioni. E quindi, non potendo elaborare risposte efficaci tramite processi cognitivi complessi, gli individui ricorrono alle cosiddette euristiche, ovvero scorciatoie cognitive che ci permettono di semplificare una questione altrimenti complessa e di giungere velocemente ad una decisione.

Ed è sostanzialmente per questo che i discorsi politici sono sempre più veloci, diretti, facilmente comprensibili. Nella dialettica populista non si cerca di spiegare le cause di un determinato problema sociale, ma si giunge a conclusioni affrettate, trovando per ogni questione un nemico responsabile di tale problema, un capro espiatorio. E The Donald insegna al mondo intero come farlo.


La retorica trumpiana, fin dal 2016, seguendo tali logiche, fa leva sulle emozioni primordiali del suo elettorato, soprattutto sulla paura e sulla rabbia.


E cosa fa così paura agli americani (ma in realtà tutti gli esseri umani)? Quali sono le paure che spingono il comportamento elettorale di un individuo? La paura di perdere il proprio status sociale, i propri privilegi, la propria posizione sociale, il proprio benessere. Paura che la propria nazione possa perdere i propri principi morali, a favore dell’avanzata di gruppi considerati come immorali, come gli appartenenti alla comunità LGBTIQ+, ad esempio. Paura che la propria nazione possa smarrire le proprie tradizioni, possa perdere la propria identità culturale, per colpa delle ondate migratorie, ad esempio. Ma anche paura di perdere la propria stabilità economica, per colpa di chi compie scelte economiche considerate scellerate. Oppure, tra chi non si sente un privilegiato, paura di non poter raggiungere uno status quo più elevato, di non poter più sperare e rincorrere il cosiddetto American Dream.


Ma la paura da sola non basta a spiegare il comportamento elettorale, è necessario anche considerare il ruolo della rabbia. Questa infatti è la fiamma che mobilità gli individui. Chi è determinato a sostenere determinati leader populisti lo fa perché mosso da un profondo risentimento e senso di ingiustizia sociale. E questo senso di ingiustizia, se è palesemente vero tra i bianchi o tra i gruppi privilegiati (e lo abbiamo visto nel 2016 come nel 2020), oggi è anche vero nei diversi gruppi di minoranza. Questo perché, in termini di identità sociale, quando sono chiamati a dover eleggere il presidente americano l'identità maggiormente saliente è quella di americano, e non di persona di colore, donna, latino o arabo che sia. In altre parole, quando gli elettori americani sono stati chiamati a scegliere il proprio leader, anche le persone appartenenti a minoranze etniche si sono identificate con il gruppo “americani”, piuttosto che identificarsi con gruppi specifici come “persone ispaniche”, “persone di colore” o “donne”.


E Trump, a differenza di Harris, ha parlato direttamente agli americani, facendo leva sugli interessi e sui valori di questo gruppo sociale più ampio. Ha saputo connettersi con le preoccupazioni comuni degli americani e ha cercato di risolvere i loro problemi, parlando al loro cuore. Inoltre, ha accentuato la divisione tra "noi" (gli americani) e “loro" (i gruppi considerati outgroup, cioè estranei o nemici), creando una fortissima polarizzazione con i diversi gruppi di minoranza, ad esempio prendendosela con gli immigrati. Dunque, quando gli americani, indipendentemente dalla loro origine etnica, hanno dovuto scegliere chi votare hanno trovato in Trump il leader maggiormente prototipico del gruppo “persone americane”, ossia il rappresentante perfetto dell’”americano medio”. Ne ha saputo incarnare meglio i valori, ha saputo identificare i problemi delle persone comuni, ha saputo comprenderne e cavalcarne le paure. Ha offerto soluzioni semplici, dirette, efficaci. Ha trovato, per ogni problema, un “colpevole” con cui prendersela, dando così ai suoi sostenitori qualcuno su cui scaricare le proprie frustrazioni. 





Image Copyright: EPA/Eric Lesser

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