di Luca Simone.
Fin da quando si è iniziato a parlare, ormai mesi fa, di un programma di aiuti europei per affrontare la catastrofe economica del Covid-19, sui mezzi di informazione è circolata con sempre maggiore insistenza l’idea di un “nuovo Piano Marshall”. La pandemia oltre ai suoi tragici effetti in termini di mortalità, ha creato un danno catastrofico alle economie di tutto il mondo, comprese quelle dei paesi dell’Unione. La Banca Mondiale sostiene che ci troviamo di fronte alla peggiore recessione economica dal 1870, superiore quindi anche alla crisi della Borsa di Wall Street del 1929. Si prevede un calo del 90% del Pil mondiale e, se nel 2019 il commercio globale era cresciuto di 1,1 punti percentuali, per il 2020 si è stimato un calo che supera l’11%. La situazione già di per sé molto complessa dell’economia europea è stata ulteriormente compromessa dalla sfida pandemica. Ma perché si è iniziato ad accostare il Recovery Fund al Piano Marshall? E soprattutto, è opportuno farlo?
Alla fine della Seconda Guerra mondiale, il conflitto più catastrofico della storia dell’umanità, l’Europa era il continente in assoluto più colpito, perché era quello su cui si erano combattute alcune delle battaglie più importanti e decisive. Edifici in rovina, economie devastate dalla produzione bellica, industrie sventrate dai bombardamenti alleati e non, oltre a milioni di profughi e disoccupati. Questo scenario già di suo molto grave e complesso veniva ulteriormente complicato dall’emergere delle prime frizioni in seno alla grande alleanza che aveva sconfitto l’Asse. Iniziavano infatti a porsi le basi della Guerra Fredda. Il governo americano sotto la presidenza Truman, era preoccupato che un disagio così diffuso spianasse la strada alle sinistre, e in particolare ai partiti comunisti, che storicamente riuscivano a fare breccia con maggiore facilità nei tessuti sociali in difficoltà, come stava accadendo ai paesi dell’Europa orientale, e come era accaduto alla Russia zarista nel 1917. Così l’allora Segretario di Stato George Marshall, in un discorso ad Harvard nel 1947 annunciò l’attuazione di un colossale piano di aiuti che sarebbero stati riversati sul vecchio continente per aiutarne la ricostruzione, e scacciare così anche il “pericolo rosso”. L’amministrazione americana decise di fondare il piano sul Dollar Gap, ovvero una richiesta di importazioni dagli USA superiore al livello delle esportazioni, a tutto vantaggio dell’economia americana. Soltanto il 20% del totale dei fondi erogati sarebbe stato sotto forma di prestiti, la restante parte sarebbe arrivata come contributo a fondo perduto. Il totale dei fondi fu di quasi 13 miliardi, (si stima che al cambio del 2018 la cifra sia di 140 miliardi di dollari), cioè nemmeno la totalità di quelli che riceverà l’Italia dall’UE.
Il piano attuale invece, chiamato in modo semplicistico Recovery Fund, e presentato come “Next Generation EU”, prevede uno stanziamento di 750 miliardi di euro di debito comune europeo finanziato tramite l’emissione di titoli sul mercato dalla stessa Commissione Europea. Il cosiddetto Recovery Fund, in realtà RRF (Recovery and Resilience Facility), rappresenta solo una parte di questo piano più ampio. A tali fondi vanno infatti aggiunti quelli del Budget Europeo, o MFF (Multiannual Financial Framework), un gruzzolo di 1100 miliardi, messo insieme ogni 7 anni dall’insieme degli stati, e il cui budget è approvato dal Parlamento Europeo e dai ministri delle finanze di ogni Stato membro. Soltanto l’Italia riceverebbe circa 81 miliardi in sussidi e 127 in prestiti (si pensi che il reddito di cittadinanza è costato in due anni circa 9 miliardi). Il tasso di interesse di questi ultimi è a saldo negativo, perciò si stima che il nostro paese guadagnerebbe qualche decina di miliardi sulla cifra iniziale pur dovendo impegnarsi a restituirla. Per quanto riguarda i sussidi invece, non si tratta come è spesso erroneamente detto di “regali”, ma di sovvenzioni, che l’Europa deve in qualche modo recuperare prima o poi e, si stima che probabilmente ciò avverrà aumentando la contribuzione dei singoli stati per evitare che il bilancio dell’Unione vada in perdita.
Non si tratta perciò di un dono benevolo come sostiene chi paragona questa misura al piano Marshall, ma di fondi da utilizzare con cautela e giudizio, perché il loro obiettivo dichiarato è quello della ricostruzione di un’economia europea più forte e più pronta in futuro ad affrontare sfide economiche e sociali, come quelle che la pandemia di Covid-19 ha dettato.
Il Commissario Johannes Hahn, il 10 novembre 2020, il giorno dell’approvazione del Piano ha dichiarato:
"L'accordo di oggi consentirà di rafforzare i programmi specifici nell'ambito del bilancio a lungo termine per il periodo 2021-2027 (compresi Orizzonte Europa, Erasmus+, EU4Health). Nel complesso, il bilancio a lungo termine dell'UE insieme a NextGenerationEU ammonterà a oltre 1800 miliardi di €. Svolgerà un ruolo essenziale nel sostenere la ripresa e garantire che i beneficiari tradizionali dei fondi dell'UE ricevano mezzi sufficienti per proseguire il loro lavoro in questi tempi molto difficili per tutti".
La differenza tra le due misure non è però soltanto storica e materiale, ma anche metodologica. Per quanto riguarda il Piano Marshall, ogni stato era obbligato a presentare un piano di investimento da presentare all’Organizzazione per la Cooperazione Economica Europea (OECE), che si impegnava ad inviarlo a Washington per la definitiva approvazione. Anche l’UE, ha deciso che, data la mole di fondi stanziata, è necessario che ogni stato presenti entro e non oltre la fine di aprile 2021 un piano dettagliato di investimenti, che tenga conto dei rigidi parametri imposti dall’Unione. Non un solo euro deve essere sprecato. La paura che serpeggia a Bruxelles è quella che stati inefficienti come l’Italia sprechino questa opportunità epocale spendendo male i fondi, come già fatto in passato con quelli del Budget Europeo, non impegnandosi in una seria ricostruzione economica che possa garantire un futuro all’UE. Per quanto riguarda infatti il periodo 2014-2020, secondo Will Media, l’Italia è stata in grado di presentare un piano di investimenti serio solo per il 60% circa dei fondi ottenuti, e che per lungaggini burocratiche e instabilità politica sia riuscita ad investirne a malapena il 30%. La cronica instabilità politica non depone poi certo a favore. Se nel 1948 la classe politica poteva vantare al suo interno degli elementi di indubitabile spessore morale e professionale come Palmiro Togliatti e Alcide De Gasperi, solo per citare i più importanti, ad oggi la triste pochezza dell’attuale classe dirigente può essere un freno non indifferente. Un problema questo, che non risparmia nessun paese europeo, sintomo di una spinta centrifuga che rischia di far collassare l’intero assetto dell’Unione. Sono servite estenuanti trattative per convincere sia i paesi frugali che quelli del gruppo di Visegrád ad accettare, costringendo i diplomatici “unionisti” a sorvolare per il momento su questioni fondamentali quali il rispetto dei diritti civili e il problema dell’immigrazione.
La rigidità di Bruxelles nell’esigere dei precisi parametri di spesa regolarmente rendicontati per evitare qualsiasi spreco, rappresenta uno dei maggiori problemi dell’RFF. Così come il Mes, il Recovery Fund non può essere speso in maniera totalmente autonoma dagli Stati destinatari, ma deve rispettare rigidamente le regole anti-spreco imposte dall’UE. Molti paesi caratterizzati da sistemi eccessivamente burocratici ed inefficienti hanno perciò mostrato delle perplessità nell’accettare l’offerta. In questa loro indecisione ha pesato sicuramente, e non poco, la sfiducia accumulata verso l’Unione in questi anni, per la sua incapacità di affrontare determinate questioni come l’immigrazione o la crisi economica del 2008. Indecisioni che hanno aperto profonde spaccature, immediatamente colmate da partiti politici di ispirazione nazionalista, sovranista e soprattutto antieuropeista. La Lega in Italia, il Front National in Francia, Alternative für Deutschland in Germania e il FVD in Olanda, solo per citare i più famosi, sono i principali portabandiera dell’attacco all’UE. La poca chiarezza del piano stilato dalla Commissione per recuperare l’investimento ha dunque sollevato non poche critiche verso Bruxelles, rischiando di far naufragare il piano. Allo stesso modo il “freno a mano” fatto approvare dai paesi frugali per rinviare l’approvazione dei piani nazionali, in caso di incompletezza di questi, introduce il rischio materiale di un rinvio eccessivo per l’erogazione dei fondi.
L’UE è perciò per l’ennesima volta nella sua breve storia di fronte ad un bivio, ma questa volta potrebbe dover affrontare la sfida per la sua stessa sopravvivenza. Se nel 1945 le distruzioni e le lacerazioni di un conflitto terrificante rappresentavano una sfida da superare e vincere uniti, oggi il problema non è certo di minore portata. Se il Piano Marshall sia stato fondamentale per la ripresa economica è tutt’ora argomento dibattuto da molti storici economici. Sicuramente contribuì a cristallizzare i due blocchi che si sarebbero affrontati nella neonata Guerra Fredda, poi protrattasi fino al 1991. L’aiuto realmente fornito dai sussidi americani potrebbe essere stato più psicologico che effettivamente materiale, ma la storiografia di poco successiva ha per decenni sorvolato su questo punto per eccessivo spirito di riconoscenza verso lo zio Sam. Oggi, il 15 marzo 2021, la giovane - storicamente parlando - UE, ha di fronte a sé un cammino tortuoso che se affrontato nel modo corretto, può però immensamente rafforzare le sue capacità economiche, stabilizzando dunque anche le numerose controversie politiche che la attraversano tra paesi del nord e del sud. Il Covid-19 si è dimostrato un avversario bipartisan, che ha colpito senza pietà ogni singolo membro. Non si tratta più di affrontare l’immigrazione o la crisi economica, avversari che si sono fatti sentire enormemente di più al sud, e sugli Stati al confine dell’Europa. La Germania, regina de facto dell’Europa non può permettersi passi falsi. La Merkel ha intenzione di lasciare in eredità al suo successore uno Stato forte a guida riconosciuta dell’Unione. La sua economia è troppo strettamente legata al destino di quest’ultima e questo la Cancelliera lo sa bene. Non si possono fare passi falsi. La Germania non può permetterseli, l’Europa non può permetterseli. Il mondo non può permetterseli.
(1) Steil, Ben. (2018) Il Piano Marshall, alle origini della Guerra Fredda. Roma: Donzelli editore.
(2) Fauri, Francesca. (2010) Il Piano Marshall e l’Italia. Bologna: il Mulino.
Ottima analisi Luca! Bravo!!!
Ottimo lavoro!
Complimenti per la chiarezza. Purtroppo anche sulla scarsa levatura dei nostri attuali rappresentanti politici.
Molto Esaustivo , bene, continua così.
Bellissimo articolo! Chiaro anche per chi, come me, non si intende di economia.