di Riccardo Sollini.
Nel riflettere su femminismo e violenza di genere non è facile riuscire a riassumere un pensiero su un tema così vasto, e soprattutto il rischio di parlarne in modo scontato è dietro l’angolo.
Nella riflessione ho ripreso un concetto espresso da Rita Segato, antropologa femminista argentina, che sostiene che quando si parla di violenza di genere e in particolare di femminismo ci si concentra sempre sul concetto di lotta tra donna e uomini o tra uomini e donne, in realtà, dal suo punto di vista il tema vero su cui stare è quello di precarietà in cui tutti noi ci troviamo a vivere, a fronte di una società orientata e guidata da un capitalismo predatorio.
Trovo molto vera questa riflessione, perché se proviamo ad ampliare la visione su questo tema ci accorgiamo di come il concetto di violenza di genere sia una violazione dei diritti umani fondamentali compiuta ai danni di persone in base alla loro appartenenza di genere, ossia alle caratteristiche sociali che donne e uomini hanno su base culturale, religiosa, etnica, fisica e sociale. Questo significa che è una violenza che si perpetra verso persone ritenute diverse, o per dirla come Bauman, in downgrade rispetto al resto della popolazione. Da qui chi viene definito (a priori) fragile assume un ruolo di diverso e inadatto alla nostra società, e quando iniziamo a considerare qualcuno inferiore, in automatico si attivano tutta una serie di atteggiamenti di potere e di vessazione psicologica e nell’estremo fisico.
Viviamo una società precaria, in cui il futuro ci appare a cortoraggio e con contorni sempre più negativi, trovandoci a vivere in un contesto sociale ed economico che poco ci rassicura e ci permette di immaginare un futuro differente. L’abitudine alla violenza, alla chiusura egoistica sul mantenimento del nostro benessere, trasforma il nostro vivere quotidiano in una sorta di guerra perenne, in cui l’altro appare un rivale e in cui, nell’incapacità crescente di relazionarsi, siamo portati ad imporre il nostro potere.
La precarietà sociale ed economica è sempre più precarietà nelle relazioni, spesso filtrate da mezzi tecnologici, che se hanno reso il nostro mondo più piccolo e aperto possibilità nuove, hanno anche costruito il nostro sistema relazionale più veloce e poco adatto a comprendere l’altro, trasformandoci in sistemi unipersonali egoistici.
Il problema non è solo la violenza di genere verso il mondo femminile, che giustamente ci indigna e verso cui siamo obbligati a muoverci TUTT*, ma la questione diventa sempre complessa e pesante, perché la logica è quella di costringerci in chiusure tra chi rappresenta uno status accettabile e chi no.
La risposta che vediamo è quella di ricerca di categorizzazione crescente, per cui tendiamo a introdurre la costruzione di campi di appartenenza che porta ad accendere attenzione, sulla base di movimenti ideali e politici, ma la categorizzazione preclude una divisione di considerazione, e non si scende mai al problema centrale che è quello della non cura della fragilità.
La precarietà che viviamo porta ad insicurezza, e questa ci porta a costruire e implementare modalità aggressive di relazione e possessive. In questo la risposta del sistema dei servizi sulle donne vittime di violenza è strutturata, la macchina si attiva e interviene in maniera puntuale, ma come tutti i servizi è frazionato, parcellizzato e soprattutto si riferisce al fenomeno quando questo è conclamato. Manca un prima e manca un dopo, entrambi fondamentali.
Il prima è legato alla costruzione di una società che rinsegni spazi di confronto e di relazione reali, non mediati, ma di discussione e di confronto, che faccia riscoprire il senso della relazione profonda tra le persone. Un percorso difficile che trova uno scontro con un sistema società impostato per creare separazione, e in cui la fame di confronto di spiegazioni e approfondimento viene lasciato alla rete, o a messaggi veloci che mal si intrecciano con la complessità del vivere. Il secondo rispetto alla possibilità di ritrovare spazi di vita per chi, per tantissime motivazioni entra nel circuito dei servizi di “cura”, inteso nel più ampio spazio del termine.
Di fatto se guardo alle storie incontrate in questi anni, esistono diverse fasi e momenti, il sentirsi accolto, il ritrovare un senso alla propria vita, il sentire ricrescere le proprie competenze, il permettersi di sognare, per poi trovare gli spazi e le forze di riproporsi nella società, dove si ritrovano dinamiche e modalità esattamente uguali a quanto si è entrati in struttura. In cui ci si scontra con la poca affidabilità dettata dalla propria condizione, una casa in affitto per una donna sola con bambini è difficilissima da trovare, la possibilità di lavorare per una donna senza relazioni sociali di assistenza ai propri figli diventa complesso. Tutta questa fase, che in realtà rappresenta la possibilità di presa in carico della propria vita, trova situazioni di chiusura e di non prospettiva che riportano ad un proprio vissuto di profonda solitudine e precarietà.
C’è necessità di costruire comunità, in cui lo spazio di attenzione avviene nel cambiamento culturale di attenzione al debole e al discriminati, dove il coraggio di prendere posizione con coerenza rispetto ad atteggiamenti di vessazione di violenza psicologica, permetta di spegnere possibili comportamenti di violenza fisica. C’è necessità di trovare spazi di crescita di una società solidale, anche attraverso le possibilità di incontro, riaprire spazi di discussione per i ragazzi in cui costruire possibilità di interazione reale e con contatto umano.
In alternativa ci troveremo sempre più chiusi nel rincorrere cause e comportamenti, che a volte rappresentano più un necessario nutrimento del proprio ego, continuando a costruire nemici verso cui combattere, quando siamo noi stessi nella posizione di doverci domandare cosa cambiare nel mio quotidiano affinché la mia fragilità possa diventare strumento per aiutare chi è più debole, o apparentemente lo è.
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