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Writer's pictureKoinè Journal

Si può educare alla complessità? Cosa insegna Morin


di Andrea Di Carlo.


Vaccinisti, anti-vaccinisti, scienziati, anti-scienziati e saltimbanchi vari affollano quotidianamente i programmi televisivi, twittano e nelle loro dirette su Facebook sembrano novelli Cicerone. Questo mercato ha ridotto la complessità, la capacità di parlare in modo chiaro senza buttarla in caciara nel mero avanspettacolo. Sia chiaro: quello che segue non vuole essere la solita tirata borghesuccia da “competente” contro coloro che, volenti o nolenti, non sanno abbastanza, non possono informarsi oppure preferiscono non informarsi. Tutte posizioni legittime, sia chiaro, ma l’eccessiva semplificazione e la mancanza di approfondimento non dovrebbero permettere di vincere le elezioni (ma tant’è). Di fronte al caos quotidiano esiste la soluzione di uno dei più importanti pensatori francesi contemporanei, Edgar Morin. Grazie alle sue 102 primavere e un’acribia filosofica invidiabile, egli ha posto l’attenzione sull’importanza del pensiero complesso. Edgar Nahoum nasce nel 1921 a Parigi. Ebreo sefardita, fa parte della Resistenza francese e durante questo periodo assume il nome da battaglia Morin, che preferirà al cognome e manterrà. Comunista eterodosso, viene ben presto espulso dal PCF, pur simpatizzando e sostenendo la causa del Maggio ’68. Autore prolifico, il nome di Morin è indissolubilmente legato alla nozione di complessità.


Morin e la complessità

Il filosofo si fa portavoce di una riforma della conoscenza. Si dirà: non è il primo (e non sarà nemmeno l’ultimo), ma il suo contributo è così importante che non sarebbe giusto ridurlo a una semplice tappa di questo cammino incompiuto. L’autore postula la presenza di due tipi di conoscenza: quella umanistica, fondata sul libro pensiero e sulla discussione, e quella scientifica, la quale (pur avendo prodotto importanti risultati) riduce la vita a numeri. Se una volta gli umanisti erano anche scienziati e viceversa, adesso esiste una cesura e un’eccessiva specializzazione. Col dominio neoliberista dell’utile, tutto ciò che non produce risultato è inutile e quindi siamo arrivati a dove siamo adesso. Morin, tuttavia, vuole che tutti abbiano “una testa ben fatta”. Il pensatore è dell’avviso che la “frammentazione e la compartimentazione delle conoscenze in discipline non comunicanti rendono inadatti a percepire e concepire i problemi fondamentali e globali. L’iperspecializzazione spezza il tessuto complesso della realtà; il primato del quantificabile occulta le realtà affettive degli esseri umani” (Morin 2012: 101). Non parliamo più tra di noi, perché siamo troppo specializzati. Amaramente, potremmo dire che tutta la nostra conoscenza fa curriculum senza produrre alcun risultato perché sterile. Abbiamo bisogno di una testa ben fatta, di una testa in cui non esistiamo più a compartimenti stagni, ma riusciamo ancora a parlare tra di noi. Una testa ben fatta può esistere soltanto se sappiamo “contestualizzare, globalizzare, multidimensionalizzare […]” (Morin 2012: 103). Nel momento in cui riusciamo a collegare tutto, a far coesistere le materie umanistiche con quelle scientifiche solo a quel punto avremmo realizzato le nostre competenze epistemiche. A questo punto avremmo compiuto la nostra educazione alla complessità.


La complessità e la geopolitica

Premessa: le considerazioni di questo paragrafo non si svolgeranno in maniera partigiana. Non mi ergo a moralista e dire chi ha ragione o ha torto tra Putin e Zelensky. Fatta questa precisazione, non si può parlare del conflitto in Ucraina senza utilizzare le preziose osservazioni di Morin. Iniziamo parlando della nozione di policrisi. Morin e Kern (1993) sostengono che la policrisi consiste in tutte le diverse problematiche che assillano la terra ma che, tutte insieme, mettono in crisi il nostro stile di vita. La transizione ecologica e le sue mille difficoltà, il cambiamento climatico, le molte guerre, etc. possono essere risolte soltanto se studiate secondo la prospettiva della complessità. Tutti insieme ci troviamo ad affrontare le molte crisi che noi stessi abbiamo causato e che, allo stesso tempo, sono purtroppo ridotte molto spesso a mera propaganda per qualche voto in più.


Economia e Palestina: cosa può dire Morin

Nelle ultime settimane l’argomento divisivo non è più la guerra in Ucraina ma è l’introduzione delle nuove regole economiche volute dall’Unione europea. Va da sé che una questione economica di questo tipo è più che complicata. La prima domanda che dobbiamo rivolgerci è: abbiamo bisogno davvero di queste regole? La risposta è no. Il patto di stabilità richiede il pareggio di bilancio in nome delle regole del mercato. Dice Morin, tuttavia, che è necessario andare oltre il dogma della globalizzazione. È proprio la globalizzazione che “non fa altro che alimentare la propria crisi. Il suo dinamismo suscita molteplici e differenti crisi su scala mondiale” (Morin 2012: 20). La mancanza di regolarizzazione dei mercati, il famoso “non c’è alternativa” di thatcheriana memoria, hanno prodotto gli effetti nefasti del neoliberismo. L’Unione europea, pur avendo vissuto la crisi del 2008, la crisi del Covid e quella ucraina non riesce a uscire dai dogmi economici. Non intendo scrivere considerazione euroscettiche, ma le conseguenze di un ragionamento a compartimenti stagni. Tutti i paesi non hanno gli stessi problemi economici (non tutti sono infatti indebitati fino al collo come l’Italia) e non tutti i paesi dovrebbero adottare le stesse politiche monetarie in quanto i contesti sono diversi. Si dice spesso che c’è bisogno di un’Europa a due velocità e da un punto di vista della complessità questa è una soluzione assennata. Esisterebbero due Europe ma più importante sarebbe capire perché si potrebbe arrivare a un simile risultato. Tutto ciò è causato dalla necessità di espandere l’Europa (e i mercati) senza conoscere il contesto. Le diseguaglianze sarebbero ancora più pronunciate. Oltre all’economia, un’altra questione spinosa per la burocrazia europea è il recente scontro tra Hamas e Israele. I giornali, i governi e gli opinionisti a ogni latitudine processano Hamas e assolvono Israele, quasi come se fosse la campanella del cane di Pavlov. Se si ragionasse veramente al di fuori delle proprie simpatie e se si tentasse veramente di calmare le cose, allora si dovrebbe avere l’umiltà di ammettere che la questione è più complessa di quello che sembra. Le diplomazie dovrebbero soppesare i rischi e i vantaggi di un’operazione di pacificazione e non ragionare secondo schemi precostituiti.


Conclusione: viviamo in eterne policrisi

Il pensiero della complessità di Morin è l’unico che è veramente in grado di dar conto degli sviluppi planetari degli ultimi 40 anni. Educare alla complessità, ad avere una testa “ben fatta” dovrebbe essere vitale per tutti; sarebbe veramente l’unico modo per superare e vincere le policrisi che tormentano il mondo intero e a ridurre la presenza di saltimbanchi e di certi politici da avanspettacolo che avvelenano il dibattito pubblico. Morin, a 102 anni, ci ha consegnato delle ricette importanti per cambiare indirizzo, ma siamo veramente in grado di raccogliere la sfida e soprattutto lo vogliamo? Voglio essere ottimista e dico di sì.








Bibliografia

-Morin, Edgar (2012) La via. Per l’avvenire dell’umanità. Milano: Raffaello Cortina.

-Morin, Edgar, Kern, Anne Brigitte (1993) Terre-Patrie. Paris: Seuil.





Image Copyright: Osservatorio Globalizzazione

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