di Davide Cocetti.
«Football is based on open competitions and sporting merit; it cannot be any other way». Così tuona il primo, durissimo comunicato dell’UEFA contro la Superlega, rilasciato prima ancora che di Superlega si iniziasse a parlare. Da allora, si sono susseguite 48 ore di frenesia totale in merito al nuovo progetto dell’élite calcistica europea, una settimana abbondante di retorica sui “valori del vero calcio” e infine il silenzio. Due settimane dopo di quella Superlega non sembra rimasto nulla, se non un vago ricordo di un titanico fallimento.
1. Cos’è la Superlega e come funziona
Il primo punto per comprendere le polemiche che si sono addensate intorno alla Superlega è delinearne le caratteristiche e soprattutto le specificità. In cosa questo nuovo progetto differirebbe da quelli già esistenti ed esistiti in passato, tanto da provocare una levata di scudi generale in difesa del “vero calcio”? La risposta sta nella frase del comunicato UEFA che apre questo articolo: la Superlega infrange la libera competizione e il merito sportivo. Lo fa proponendo un modello praticamente opposto, ovvero un torneo chiuso a inviti e partecipazione garantita per i club fondatori: Arsenal, Atletico Madrid, Barcellona, Chelsea, Inter, Juventus, Liverpool, Manchester City, Manchester United, Milan, Real Madrid e Tottenham, più altri tre potenziali membri “fissi”, a cui aggiungere altri cinque club designati stagione per stagione. Il progetto, per quanto mai definito in maniera così chiara, è in cantiere da molti anni. Già nel 2009 Arsène Wenger, allora allenatore dell’Arsenal, profetizzava uno sviluppo in tal senso del calcio europeo. Dal 2016 a oggi, i contatti tra i top club europei si sono intensificati fino ad arrivare al punto di non ritorno, ovvero la proposta di pochi giorni fa.
Da cosa deriva questa esigenza delle big, che negli anni si è fatta sempre più pressante? I motivi sono molteplici, ma riconducono quasi sempre al nocciolo della questione: i soldi. Chi ha sottoscritto il patto di fondazione della Superlega non ha dubbi sul fatto che il calcio sia un prodotto di assoluto valore, ma confezionato, gestito e venduto molto male ad oggi. La soluzione sarebbe dunque una transizione verso il “modello americano”: accesso di diritto per i club più tifati, spettacolo garantito grazie a continui scontri tra formazioni di alto livello. Gli introiti così accresciuti permetterebbero ai top club di risanare le proprie casse societarie, già colpite da gravi perdite e ulteriormente danneggiate dagli effetti disastrosi della pandemia. Inoltre, il sistema chiuso permetterebbe ai club di minimizzare il “rischio di impresa”. Non ci sarebbe più il pericolo di rimanere esclusi dall’attuale sistema di competizioni europee (e dai ricavi conseguenti) in caso di pessime prestazioni sportive.
2. La risposta delle istituzioni calcistiche
La presa di posizione delle istituzioni che gestiscono e regolamentano il mondo del calcio non si è fatta attendere. Prima ancora dell’ufficialità della nascita del progetto Superlega, la UEFA e le federazioni affiliate si sono affrettate a sconfessarlo. Poche ore dopo è arrivata anche la risposta della FIFA, allineata alle altre associazioni (seppur con toni più morbidi). Per quanto riguarda le istituzioni transnazionali, l’opposizione alla Superlega appare fin troppo ovvia. FIFA e soprattutto UEFA si sono viste scavalcate e tagliate fuori nei processi decisionali. L’attacco dei top club non è stato diretto solo alla loro autorità, ma anche al loro operato. Florentino Perez, patron del Real Madrid e principale fautore della Superlega, ha accusato la UEFA e soprattutto il suo presidente Aleksandr Ceferin di poca trasparenza e di immobilismo. La Superlega è stata proposta come alternativa più ricca e funzionale rispetto alla Champions League gestita dalla UEFA, con grave danno per quest’ultima.
Si può facilmente comprendere anche la contrarietà delle federazioni dei singoli Paesi, nonostante il comunicato fondante della Superlega sancisca la volontà di non intralciare in alcun modo lo svolgimento dei campionati nazionali. Per i Paesi che non accolgono nei loro tornei alcun membro fondatore della Superlega, il pericolo più impellente è quello di un ulteriore ampliamento del divario già esistente con i campionati più ricchi. Le federazioni di Italia, Inghilterra e Spagna temono invece l’effetto negativo sulla competitività interna: i lauti incassi derivanti dai “premi-partecipazione” alla Superlega impedirebbero alle piccole di avvicinarsi anche solo lontanamente alla potenza economica e sportiva delle big.
3. La politica scende in campo
Ciò che più colpisce della vicenda Superlega, però, è la discesa in campo dei vari fronti politici nazionali e internazionali e, soprattutto, la loro compattezza nel dire no alla nuova competizione. Soffermandoci sull’Italia, i principi della libera competizione e del merito sportivo sono stati invocati da tutti i leader politici interpellati. L’unico scarto tra le diverse posizioni è rappresentato dai termini in cui esse si sono espresse. Enrico Letta e Antonio Tajani, rispettivamente appartenenti al Partito Democratico e a Forza Italia, movimenti che guardano con favore all’Unione Europea, hanno auspicato una mediazione delle istituzioni continentali. Giorgia Meloni, leader del partito sovranista Fratelli d’Italia, ha invece accusato la Superlega di essere lo specchio di una società che «scavalca la rappresentanza dal basso per imporre dall’alto un’oligarchia». A proposito di modalità comunicative, il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha preso una scelta ben precisa: affidare le sue perplessità in merito al nuovo progetto all’account Twitter verificato di Palazzo Chigi.
A livello internazionale, la situazione non è particolarmente diversa. Come auspicato da Letta e Tajani, diverse figure dell’Unione Europea hanno preso posizione contro il nuovo progetto. Il presidente del Parlamento Europeo David Sassoli ha esposto la necessità di «difendere il modello europeo di sport». Margaritis Schoinas, membro di spicco della Commissione von der Leyen, ha rimarcato posizioni pressoché identiche. Chi non ha alcun interesse nel difendere un “calcio europeo”, ma ha mostrato più impegno di tutti nel combattere il progetto della Superlega è il premier scissionista del Regno Unito, Boris Johnson. Il primo ministro britannico, supportato da tutto l’arco politico del suo Paese, ha agito in difesa dell’immagine della Premier League e ha cavalcato il sentimento popolare dei tifosi britannici. Non a caso, i club inglesi sono stati i primi a tirarsi indietro dalla nuova competizione.
In generale, la volontà di assecondare una fetta cospicua di appassionati di calcio decisamente contrari alla Superlega sembra essere il fattore che accomuna la stragrande maggioranza degli interventi politici. Interventi che, come abbiamo visto, non aggiungono nulla alla retorica dei valori sportivi e del calcio della gente, ma hanno lo scopo di cavalcare l’unico trend dell’ultimo anno capace di sopravanzare addirittura il Covid per 48 ore.
4. La meritocrazia è davvero il punto?
Nell’incessante retorica sui valori del calcio, accade addirittura che il già citato presidente dell’UEFA Ceferin si complimenti con Nasser Al-Khelaifi per il rispetto dimostrato nei confronti dell’etica sportiva. Un elogio paradossale, considerando il curriculum dell’imprenditore qatariota. Anche volendosi limitare all’ambito puramente sportivo, Al-Khelaifi gestisce il Paris Saint-Germain, uno dei club più responsabili di aver drogato il calciomercato con cifre assurde. Approfittando della connivenza dell’UEFA, che mai ha fatto valere il suo severo regolamento in materia di immissioni di capitali, il PSG ha praticamente ucciso la concorrenza in Francia e ha inflazionato i trasferimenti di tutto il mondo calcistico. Ma perché Al-Khelaifi ha rinunciato all’enorme liquidità messa sul banco dalla Superlega, pur essendo stato invitato nel progetto? La risposta, anche in questo caso, è molto semplice. Al-Khelaifi è ministro senza portafoglio del Qatar, paese che si prepara a ospitare i Mondiali del 2022. Le ombre sull’organizzazione dell’evento sono già moltissime. Un’inchiesta del “The Guardian” ha posto il focus sulle centinaia (se non migliaia) di lavoratori migranti morti durante la costruzione degli impianti necessari. Altrettanto torbida è stata l’assegnazione della competizione: il “Times” ha rilasciato documenti che proverebbero l’enorme esborso delle istituzioni qatariote per boicottare i possibili Paesi rivali. In estrema sintesi: Al-Khelaifi, ben consapevole di avere per le mani un Mondiale su cui le polemiche già abbondano, vuole tutelare il proprio investimento, rimanendo quanto più possibile nelle grazie delle istituzioni calcistiche internazionali. A ciò si aggiunge anche l’accordo milionario tra la UEFA e beIN Media Group, network riconducibile direttamente ad Al-Khelaifi, per la trasmissione delle competizioni europee in decine di paesi. L’etica sportiva, in queste logiche politiche ed economiche, trova ben poco spazio.
La stessa UEFA, negli stessi giorni in cui è esploso il caso Superlega, ha presentato il suo progetto di riforma della Champions League. Un disegno abbastanza caotico, con un particolare che balza subito all’occhio. Il nuovo regolamento, probabilmente in vigore a partire dal 2024, includerebbe anche due squadre non qualificate per meriti sportivi. Queste sarebbero selezionate tra le escluse in base al loro coefficiente UEFA, che tiene conto delle prestazioni degli ultimi anni. Per quanto definito in maniera ben più sottile, il fine è lo stesso della Superlega: eliminare il “rischio di impresa”, permettendo a un big club che ha vissuto un’annata storta di non rinunciare nemmeno per un anno ai preziosi incassi derivanti dalle competizioni internazionali. Nulla di sorprendente: il calcio europeo ormai da anni si muove in questa direzione, garantendo lauti introiti a chi partecipa e ancor più a chi fissa uno standard medio-alto, superando regolarmente la fase a gironi. Le squadre escluse devono accontentarsi delle briciole. In questa morsa, che negli anni struttura una gerarchia ben precisa tra i campionati e i singoli club, rimane strangolata la competizione aperta. Per dimostrare ciò basta consultare un qualsiasi almanacco e constatare che i nomi dei vincitori, tanto dei singoli campionati quanto delle competizioni internazionali, sono ormai sempre gli stessi.
Presentato questo quadro piuttosto brutale, ci si potrebbe domandare perché mai milioni di appassionati si siano indignati, risentiti e preoccupati di fronte alla nascita della Superlega.
Dal punto di vista di chi scrive, in mezzo a tanto parlare di meritocrazia e di valori costituenti del calcio, si è persa di vista una distinzione fondamentale. La Superlega non nega la possibilità di vincere a qualunque squadra, non più di quanto già faccia il sistema attuale. Non viene messa in discussione quella meritocrazia che già sa tanto di oligarchia, dal momento che nel sistema attuale il migliore è quasi sempre il più ricco (o che, a parità di ricchezza, investe meglio i suoi soldi). Ciò che la Superlega mette davvero in crisi è l’aleatorietà del calcio. Il fatto che, con buona pace della meritocrazia, nel football non sempre vinca il migliore. Il sociologo Christian Bromberger ha notato come questo elemento sia una specificità di questo sport, e soprattutto come sia uno degli elementi fondanti del suo successo.
Tagliando fuori dalla Superlega i piccoli club e soprattutto i piccoli campionati, i top club hanno provato a escludere Davide, lanciando una competizione tra soli Golia. Se in altri contesti e in altri sport questo modello ha funzionato, il calcio risulterebbe profondamente snaturato da uno sviluppo simile e perderebbe gran parte della sua attrattiva.
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