di Michele Dicuonzo.
L’ergastolo ostativo è un istituto giuridico introdotto appositamente per contrastare reati di particolare gravità, specialmente di stampo mafioso, e preclude al condannato l’accesso ad un percorso di rinserimento sociale, finalità, invece, che l’ordinamento deve perseguire nel corso dell’esecuzione della pena. L’unica eccezione è data nei “soli casi in cui tali detenuti ed internati collaborino con la giustizia a norma dell’art. 58 ter ord. pen.” I dubbi, espressi da più parti, muovono dall’assunto che il regime ostativo delineato dall’art. 4 bis ord. pen. contrasti con valori e principi fondamentali contenuti nella Carta costituzionale, in particolar modo con il principio rieducativo della pena ex art. 27 co.3 Cost e il principio di uguaglianza ex art. 3 Cost.
Inoltre, secondo i commentatori la disciplina in esame sarebbe in conflitto anche con l’art. 3 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo, nella parte in cui afferma che nessuno può essere sottoposto “a pene o trattamenti inumani o degradanti.”
La riforma dell’istituto è rientrata anche nel programma politico del nuovo Governo. Infatti, più di recente è stata adottata la Legge 30 dicembre 2022. La novella, pur mantenendo intatte le ragioni di politica criminale giustificatrici dell’istituto, ha apportato, almeno secondo le intenzioni del legislatore, significative modifiche all’ergastolo ostativo.
Le origini storiche dell’ergastolo e la normativa previgente
Come ogni istituto giuridico, anche l’introduzione dell’ergastolo ostativo è sintomatico del periodo storico in cui è venuto alla luce. Nel 1992 lo Stato si trovava nel pieno della drammatica stagione stragista e l’attentato di Capaci aveva scosso non solo la Sicilia, ma l’Italia intera, rivelando la natura sanguinaria e brutale di Cosa Nostra.
La soluzione autoritaria da parte dello Stato per superare questo periodo di grandi sconvolgimenti venne elaborata nel contesto della cd. “legislazione d’emergenza”. In particolare, furono due diverse istanze ad emergere nel discorso politico: da un lato, l’istituzione di un regime detentivo più rigido per i condannati per reati di mafia, terrorismo ed eversione, tale da garantire un efficace deterrente alla commissione di nuovi reati mediante la minaccia della sanzione; dall’altro, l’esigenza di uno strumento che accelerasse il corso delle indagini e superasse l’omertà dei condannati.
Da qui la configurazione dell’ergastolo ostativo, formula coniata dalla dottrina per qualificare il regime detentivo a cui sono assoggettati i condannati alla pena dell’ergastolo per uno dei reati di cui all’art. 4 bis ord. penit. Nel dettaglio, il comma 1 della norma in esame delinea una presunzione assoluta di pericolosità sociale che trova applicazione nell’ipotesi in cui i soggetti indicati in precedenza abbiano deciso di non collaborare con la giustizia.
Proprio quest’ultimo elemento costituisce il nocciolo duro della disciplina: infatti, nell’ottica del legislatore, solo l’esternazione di uno spirito collaborativo ex art. 58 ter ord. pen. può giustificare l’esistenza di un reale ravvedimento da parte del condannato e costituire la prova di un’effettiva dissociazione dal contesto criminale in cui operava. Tale presunzione insuperabile ha degli effetti pratici assai rilevanti, in quanto ostacola l’accesso ai benefici penitenziari e agli istituti di progressione trattamentale disciplinati dall’ordinamento, ad eccezione della liberazione anticipata. Il rifiuto di collaborare, quindi, viene strettamente equiparato ad una manifestazione di volontà da parte dell’ergastolano di non intraprendere alcun percorso risocializzante, condannandolo così a scontare una pena imperitura. Inoltre, l’elemento della collaborazione emerge anche nelle riflessioni della giurisprudenza della Corte di Cassazione, specialmente con riguardo ai fenomeni associativi di stampo mafioso: è orientamento consolidato che anche il protratto stato detentivo dell’associato non determini automaticamente la cessazione dell’affiliazione. Infatti, la struttura associativa contempla il rischio che i propri aderenti trascorrano periodi di detenzione, vincolo che non preclude la riassunzione di un ruolo attivo una volta scontata la pena. In considerazione di ciò, la collaborazione con la giustizia è considerato un dato fondamentale per verificare la permanenza della partecipazione al sodalizio. Per tali ragioni, l’ergastolo ostativo è comunemente indicato con l’espressione “fine pena mai”.
Per comprendere al meglio la rigidità e gravosità del regime ostativo occorre operare un raffronto con il cd. ergastolo comune. Il combinato disposto degli istituti costituisce - nella riflessione della dottrina e della giurisprudenza - il sistema del cd. “doppio binario”. Ai sensi dell’art. 22 c.p., la pena dell’ergastolo è connotata dall’elemento della perpetuità, intesa come privazione assoluta della libertà personale. Tuttavia, la norma subisce un contemperamento in ulteriori disposizioni codicistiche che consentono all’ergastolano di accedere a numerosi benefici penitenziari dopo aver espiato un certo quantum di pena. Tra questi vi rientrano: la libertà condizionale, i permessi premio, il lavoro esterno, la semilibertà e la liberazione anticipata. L’elemento che accomuna questi istituti, all’apparenza eterogenei tra di loro, è dato dall’ammettere il condannato all’ergastolo in un regime di “esecuzione progressiva”, in grado di garantire un bilanciamento costituzionalmente apprezzabile tra la finalità rieducativa della pena e il cd. carcere a vita. Infatti, in questo modo, l’ordinamento consente al reo di maturare un trattamento penitenziario progressivamente più favorevole ed un maggiore contatto con il mondo esterno, sul presupposto che egli abbia perfezionato un’idea di reinserimento sociale.
L’intervento della Corte europea dei Diritti dell’Uomo: il caso Viola
Come sottolineato in apertura, la disciplina dell'ergastolo ostativo è stata soggetta al vaglio dei giudici della Corte di Strasburgo. Nella sentenza Viola c. Italia del 2019, il ricorrente, già condannato all’ergastolo per associazione mafiosa ex art. 416 bis c.p. e soggetto al regime detentivo ex art. 41 bis c.p., a seguito dell’ennesimo rifiuto della Corte di Cassazione circa l’accesso alla libertà condizionale propose ricorso individuale alla Corte EDU, lamentando l’incompatibilità convenzionale dell’art 4 bis ord. pen. rispetto all’idea di risocializzazione contenuta nell’art. 3 CEDU.
In particolare, il Viola contestava la ratio della presunzione inconfutabile contenuta nella norma, la quale addebita uno status di pericolosità sociale al detenuto basandosi unicamente sul dato oggettivo della tipologia di reato ascritto e sulla sua mancata collaborazione. Di contro, il Governo italiano nelle sue osservazioni affermava che il nesso causale intercorrente tra la collaborazione con le autorità e l'accesso ai benefici premiali si giustifica sulla base dell'estrema gravità dei reati in questione. Infatti, l'elemento mafioso è caratterizzato da un legame stabile destinato a rafforzarsi col tempo; per questo motivo è necessario che l'esito positivo di un percorso di rieducazione in carcere venga dimostrato tramite la collaborazione con le autorità.
Dal canto suo, la Corte, accogliendo il ricorso, ha condannato l’Italia per violazione del principio di umanità della pena ex art. 3 CEDU. I giudici di Strasburgo, da un lato, hanno giustificato il regime ostativo sulla base della gravità della cornice di reati in cui si inserisce; dall'altro, essi hanno sottolineato come la lotta alla mafia non posso giustificare deroghe alle norme convenzionali. Inoltre, La Corte ha mosso una critica alla norma italiana che equipara la pericolosità sociale alla mancata collaborazione: quest'ultima può dipendere anche da un novero di situazioni svincolate dalla volontà del detenuto di mantenere legami con l'associazione criminale. Come sottolineato dal ricorrente, il suo diniego può dipendere dalla necessità di evitare che sia lui che i suoi affetti più cari possano subire ritorsioni da parte dei suoi ex associati. Per questo motivo, la mancata collaborazione non sempre è da considerare come espressione di una scelta pienamente libera e dettata dalla volontà di mantenere legami associativi. Peraltro, la Corte ha rifiutato l’ulteriore automatismo che vede equiparare la “dissociazione” al sicuro ripudio dei “valori criminali”, in quanto la scelta di collaborare potrebbe essere stata dettata da ragioni di comodo e con l’unica finalità di accedere ai vantaggi detentivi.
Sulla scorta di quanto affermato, si osservava che la “dissociazione” dall’ambiente mafioso come condizione di accesso ai benefici premiali e l’intento risocializzante non devono dipendere esclusivamente da una condotta collaborativa, ma possono esprimersi anche in maniera diversa, come, a titolo esemplificativo, il mantenimento durante il decorso della pena di un contegno irreprensibile o la mancanza di sanzioni disciplinari. Il complesso di questi fattori è già indice di una evoluzione della personalità dell’interessato. In ottemperanza alle considerazioni fin qui illustrate, la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per violazione dell’art 3 CEDU, invitandola, allo stesso tempo, ad attuare, preferibilmente per via legislativa, una riforma dell’ergastolo ostativo che garantisca la possibilità di un riesame della pena.
Il regime ostativo e il vaglio della Corte Costituzionale
Le pronunce della Corte costituzionale rispecchiano un’evoluzione interpretativa di notevole interesse, sintomatica della progressiva acquisizione di una maggiore sensibilità nei riguardi delle condizioni umanitarie dei condannati.
Nella sentenza n. 135/2003 la Corte ha avuto modo di pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’art 4 bis ord. pen. in relazione alla possibilità di concedere al detenuto l’accesso alla libertà condizionale. In questa occasione, i giudici hanno caldeggiato un orientamento alquanto discutibile: la disciplina oggetto di censura, pur subordinando l’ammissione al beneficio alla collaborazione con la giustizia, non precluderebbe in modo assoluto o definitivo la libertà condizionale, in quanto l’accesso a questa misura è frutto di una scelta libera del condannato. Questo paradigma si fonda su una pura e semplice valutazione empirica, priva di fondamento razionale: la decisione di non fornire il proprio decisivo apporto alla giustizia non è sussumibile – in maniera assoluta - alla mancanza di progressi verso il reinserimento sociale. Un ragionamento in questi termini non può che essere bollato come incompatibile con il principio costituzionale della rieducazione.
Tuttavia, il fragile orientamento sotteso alla pronuncia è stato di recente oggetto di overruling costituzionale. L’indubbio merito è da riconoscersi alla sentenza n. 253 del 2019 con la quale la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 1 dell’art 4 bis ord. pen., nella parte in cui esclude gli ergastolani ostativi dalla fruizione dei permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia. In particolare, la pronuncia ha introdotto una sottotrama al sistema del cd. doppio binario, in quanto essa rifiuta l’idea di far dipendere l’accesso al beneficio unicamente dall’intento collaborativo, ritenendo che questo possa derivare anche da altri elementi probatori tali da escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo di un loro ripristino. In tale modo, la Corte ha modificato l’originaria presunzione di pericolosità da “assoluta” in “relativa”, superabile fornendo anche elementi ulteriori di dissociazione dal contesto criminale. Tuttavia, è importante rimarcare che questa decisione, nonostante il decisivo approdo a cui è giunta, ha un’efficacia parziale e limitata: essa spiega la sua applicazione esclusivamente alla concessione di permessi premio e, allo stesso tempo, conserva la validità della disciplina previgente per le altre forme di benefici.
L’ultimo intervento del Giudice delle leggi in materia di ergastolo ostativo coincide con l’ordinanza n.97 del 2021. Utilizzando la stessa modalità operativa del celebre “Caso Cappato”, la Corte ha rinviato all’anno successivo la decisione incostituzionalità dell’art. 4 bis ord. pen. rispetto agli artt. 3, 27 co.3 e 117 Cost., invocando, allo stesso tempo, in ottemperanza al principio di leale collaborazione istituzionale, l’intervento legislatore in una materia così delicata, al fine di garantire la sua conformità ai principi costituzionali. Nello specifico, la questione di legittimità rimessa alla Consulta dalla Corte di cassazione aveva ad oggetto la compatibilità costituzionale della norma in esame con l’accesso al beneficio della libertà condizionata, ritenuta il principale beneficio a cui un ergastolano possa ambire. La condizionale è l’unica misura in grado di convertire “il fine pena mai” in “fine della pena”.
Evitando di pronunciarsi, ha eluso il rischio che una sentenza puramente “demolitoria” operasse una riforma solo parziale della norma, creando disuguaglianze ed incoerenze. Infatti, se la Corte avesse accolto immediatamente la questione, il condannato sarebbe stato immesso nella facoltà di accedere alla libertà condizionale, ma gli sarebbe stato inibito l’accesso alle altre misure alternative prodromiche al recupero della libertà. Invece, con la tecnica del rinvio ha lasciato terreno fertile per un più ampio processo di positivizzazione, volto a coinvolgere ogni forma di beneficio e progressione trattamentale. Ad ogni modo, la Corte non si è sottratta all’enunciazione di criteri e parametri rivolti a guidare il legislatore nella redazione della novella. In particolare, rifacendosi alle guarentigie già enunciate dalle Alte Corti nella sentenza del 2019 e nel caso Viola, la Consulta ribadisce che la collaborazione non deve costituire l’unico diaframma tra l’ergastolano ostativo e l’ergastolano comune; è necessario che l’accesso ai benefici non sia subordinato ad uno scambio tra informazioni utili e la possibilità di accedere ad un miglior percorso di trattamento penitenziario, in quanto questa decisione potrebbe portare ad una tragica scelta tra la propria libertà e la sicurezza dei propri cari.
In altri termini, la collaborazione, intesa come strumento di rottura con l’ambiente malavitoso, pur mantenendo il proprio valore positivo, non è compatibile con il dettato costituzionale se risulta l’unica strada possibile per accedere alla libertà condizionale. Di contro, secondo alcuni commentatori potrebbe generarsi il rischio che la collaborazione perda il suo valore originario di pentimento morale e di revisione critica del passato, assumendo, invece, le forme della delazione.
La novella legislativa: la legge n.199/2022
Il monito della Corte costituzionale non è rimasto inascoltato. Di recente il Parlamento ha approvato, in sede di conversione, il decreto-legge n.162/2022 in materia di “divieto di concessioni di benefici penitenziari nei confronti dei detenuti o internati che non collaborano con la giustizia”. In linea con quanto fin qui analizzato, si rende necessario verificare la congruità del risultato legislativo rispetto ai criteri e ai principi affermati nell’ordinanza di rinvio. Le innovazioni introdotte dalla novella si inquadrano nella logica di un superamento della presunzione assoluta di pericolosità sociale e delle restrizioni probatorie previgenti, prevedendo, invece, nuovi oneri probatori, diversi dalla collaborazione al fine di beneficiare di un regime detentivo non ostativo.
Innanzitutto, la legge ha riscritto il comma 1 bis dell’art. 4 bis ord. pen., delineando una distinzione tra due fasce di reati cd. ostativi. La prima fascia include i “reati associativi” – principalmente delitti di mafia e terrorismo – mentre alla seconda fascia sono sussumibili i “reati non associativi” – principalmente reati gravi contro la PA. Il fattore di differenziazione è dato dagli oneri di allegazione che gravano in capo ai richiedenti, in assenza di collaborazione.
I condannati per i reati associativi possono accedere ai benefici penitenziari esterni purché forniscano la prova di aver adempiuto alle obbligazioni civili e agli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna, o l’assoluta impossibilità di tale adempimento. Inoltre, il giudice è tenuto ad accertare la sussistenza di iniziative dell’interessato a favore delle vittime, sia nelle forme risarcitorie che in quelle della giustizia riparativa. Infine, è richiesta anche l’allegazione di “elementi che consentano di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva o con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché il rispristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi”. La nuova formula precisa anche che gli elementi specifici di cui si chiede l’allegazione siano diversi dalla regolare condotta carceraria, dalla partecipazione del detenuto al percorso rieducativo e dalla semplice dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione a cui è affiliato. Quest’ultimo passaggio fissa un onere della prova in negativo, fondata sul presupposto che i legami e la logica associativa siano perduranti; per superare tale presunzione relativa è necessario fornire elementi ulteriori rispetto al buon contegno che ci si aspetterebbe da un detenuto.
Sul punto gli studiosi hanno sollevato le prime perplessità. In primo luogo, risulta alquanto difficile per il detenuto acquisire prove che non concernono ciò che avviene all’interno delle mura del carcere. In secondo luogo, ancora più arduo è comprendere come il condannato possa fornire la prova in negativo dell’insussistenza del pericolo di un ripristino dei contatti con il sodalizio: l’obbligo esplicativo, stando ad un’interpretazione testuale, consisterebbe nel dimostrare un fatto – il pericolo – naturalisticamente inesistente.
In considerazione di ciò, la prova in capo al richiedente sarebbe a tal punto complicata e gravosa che alcuni commentatori non hanno tardato a riconoscervi i caratteri di una vera probatio diabolica.
Invece, per i condannati per i reati non associativi, data l’assenza del legame con l’organizzazione criminosa, l’onere è limitato all’allegazione di elementi specifici che consentano di escludere l’attualità di collegamenti con il contesto nel quale il reato è stato commesso.
Da ultimo, la legge in esame consente al detenuto non collaborante di indicare i motivi sottesi al rifiuto. Questo è non solo una garanzia importante per il richiedente, ma è anche un significativo ausilio per il giudice di sorveglianza, in quanto, qualora il primo intenda fornire le ragioni giustificatrici della mancata collaborazione, esse dovranno essere valutate congiuntamente agli altri elementi sovra esaminati. In questo modo il magistrato potrebbe concedere l'accesso ai benefici penitenziari anche al detenuto non cooperante che abbia prestato valide giustificazioni, come la necessità di salvare i propri familiari.
Conclusioni
Dall’esame fin qui condotto risulta arduo esprimere un giudizio di conformità del nuovo modello di ergastolo ostativo rispetto ai principi costituzionali e convenzionali. Nonostante la nuova linea legislativa si ispiri a logiche prettamente garantiste, i dubbi circa la lealtà del legislatore al dogma della perpetuità permangono. Infatti, anche il rivisitato art. 4 bis, anteponendo la possibilità di una risocializzazione ad un dovere probatorio così intricato da renderlo impossibile, si dimostra ancorato ad una presunzione, ormai così diffusa nella collettività, di irrecuperabilità del mafioso. Questa teoria nasce dall’indubbia solidità del vincolo di sangue che unisce l’affiliato all’organizzazione mafiosa; ciò, tuttavia, non deve giustificare una valutazione aprioristica fondata unicamente sulla funzione neutralizzante della pena. Vivere in uno Stato di diritto regolato dai supremi ideali costituzionali significa credere che nessuna persona sia irrecuperabile.
La rigida scelta che si impone al condannato muove dall’assunto che il carcere possa costituire un valido persuasore alla collaborazione con la giustizia. In realtà, è proprio la previsione di una legislazione premiale ad incentivare la collaborazione, non la paura di una reclusione a vita. Come ammoniva Alessandro Margara “è […] un nodo critico fondamentale pensare che il carcere come il luogo dove si incapacita un uomo (per pericoloso che possa essere, negandogli che possa mantenere relazioni di vita) e supporre, poi, che altri uomini possano ritrovare in esso occasioni di riabilitazione.”
Allo stesso modo, è indubbio che il fenomeno mafioso abbia conosciuto una diffusione capillare in Italia più che in altri Stati, ma ciò non giustifica un inasprimento della risposta sanzionatoria dello Stato o un appannamento delle garanzie nella lotta alla criminalità: il rispetto della dignità umana e dei diritti inviolabili della persona costituiscono le colonne d’Ercole oltre le quali uno stato democratico non può spingersi.
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