di Tommaso Di Ruzza.
Storicamente la democrazia più grande ed influente del mondo ha sempre impiegato almeno un intero anno a prepararsi per le sue elezioni presidenziali.
L’ormai emblematico e conosciuto in tutto il globo processo di elezione del presidente degli Stati Uniti d’America, infatti, impegna l’informazione politica mondiale già a partire dall’anno precedente alle elezioni, da sempre fissate alla prima settimana di novembre.
Ma è proprio negli ultimi mesi che precedono l’election day, che gli animi politici e non del gigante oltreoceano, iniziano ad emergere in tutta la loro forza e veemenza, di fatto tracciando la traiettoria di quello che è il mondo occidentale.
A partire dalla stagione estiva, infatti, la dimensione elettorale diventa di gran lunga la questione più dibattuta e centrale nella vita quotidiana dei 330 milioni di cittadini statunitensi.
Prende vita, dunque, l’attivismo politico sostanziale e concretamente agito; le forze politiche e della cittadinanza si attivano in tutti i settori della società a stelle e strisce, e non vi è giorno nel quale gli ormai soltanto due candidati presidenziali, definitivamente selezionati dalle votazioni primarie dei due partiti egemoni della scena politica americana, non oppongano ai cittadini due modi diversi e talvolta opposti di concepire il futuro dell’America.
Ripercorrere gli ultimi mesi di campagna e di eventi della politica americana significa perciò cercare di comprendere dove è orientato il popolo americano; come esso si caratterizza nel presente più recente e quale messaggio sta cercando di comunicare a chi esercita il potere esecutivo ed al resto del mondo.
Partiamo dall’origine.
Ricordiamo infatti che le elezioni presidenziali americane, vedono come protagonisti l’attuale vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris e l’ex Presidente Donald Trump, entrambi espressione del modello politico statunitense bipartito nei due storici partiti politici di massa americani, quello democratico e quello Repubblicano.
I due candidati sono stati scelti dai partiti in seguito alle elezioni primarie svoltesi negli ultimi 10 mesi, e sono stati ufficialmente nominati tali, con il loro ticket presidenziale, nelle convention nazionali tenutesi rispettivamente a luglio per i repubblicani e ad agosto per i democratici.
I due sfidanti verranno giudicati dai circa 140 milioni di americani aventi diritto al voto il 5 novembre, giorno in cui dovranno riuscire a conquistare i 270 voti dei grandi elettori necessari a vincere le elezioni. Per questo motivo entrambi dovranno riuscire a "conquistare" il maggior numero possibile di stati americani, mettendo in campo una strategia vincente tutta basata sulla conquista dei cosiddetti swing states, ovvero gli stati con variabile orientamento politico nel tempo. Ma ora soffermiamoci più da vicino sui due candidati allo studio ovale.
KAMALA HARRIS
La vicepresidente degli Stati Uniti d’America, nonché ex procuratrice californiana, rappresenta ed incarna a pennello l’attuale identità socio-politica del partito democratico americano del XXI secolo.
Figlia di immigrati, indiana sua madre e giamaicano suo padre, studia legge e costruisce il suo profilo di donna di colore underdog che da vera self made woman riesce ad arrivare ai livelli massimi della politica e della società, pur partendo da condizioni svantaggiate e comuni a molti americani che credono nel cosiddetto “sogno americano”.
Harris quindi, che dopo aver servito la patria e la giustizia tra i banchi dei tribunali ora aspira allo studio ovale, è il tipico prototipo di figura politica che il partito democratico promuove per la presidenza degli stati Uniti da almeno 70 anni.
Impegnata in particolare nelle lotte per i diritti civili, primaria battaglia di facciata e acchiappavoti democratica, la Harris secondo gran parte dell’opinione pubblica americana, anche democratica, non possiederebbe grandi capacità amministrative, nè tantomeno comunicative. Ragione per cui la si percepisce sideralmente lontana, per intrinseca credibilità, da altri storici candidati alle elezioni presidenziali con le sue stesse caratteristiche, come ad esempio Barack Obama e sua moglie Michelle.
Kamala Harris, inoltre, inizialmente non candidata alla presidenza, ma nominata tale soltanto dopo la forzatissima rinuncia del presidente Joe Biden alla corsa presidenziale, rappresenta di fatto l’unico profilo con reali possibilità di vittoria rimasto al partito democratico dopo 4 anni di gestione disastrosa del potere.
La vicepresidente risulta essere dunque una conseguenza della forte miopia politica di un Biden immancabilmente tramontante. Un cambio di guardia poi quello che è avvenuto, che oltre ad avere pochissimi precedenti storici, è stato anche obbligato dalla cruda tattica politica.
Ma Kamala Harris non è soltanto una candidata. Del resto, come tutti i leader nell’analisi geopolitica, è espressione di un orientamento collettivo figlio dei tempi attuali, che la vede interpretare sempre più spesso il ruolo di difensora della democrazia e delle libertà, custode della tolleranza sociale e del quieto vivere civile, in opposizione ad un avversario burbero e sgradevole, in odore di tirannia.
Questa sua profonda convinzione, finora brillantemente propinata sia alle masse di cittadini americani che del resto del mondo, le è valsa, come accade ormai da almeno 30 anni, il completo supporto della grandissima parte del settore benestante americano, talvolta anche d’élite, identificabile con l’America dei circoli Hollywoodiani e dei grandi conglomerati finanziari.
DONALD TRUMP
Con il magnate newyorkese, nonché ex presidente degli Stati Uniti Donald J. Trump, andiamo a dare uno sguardo invece a tutta un’altra America. Un’america che sempre molto più spesso ultimamente viene definita dalla geopolitologia “America profonda”.
Quell’america il cui stile di vita non appare lontanamente negoziabile neanche nel 2024. Una fetta di cittadini, peraltro davvero molto nutrita, che si identifica sì con l’America imprenditoriale e benestante, ma anche sempre di più con la classe media, la quale negli Stati Uniti e nei paesi anglosassoni in generale, sembrerebbe ancora resistere alle spinte mondial-liberiste che in Europa da almeno vent’anni debellano questo strato sociale.
Una volta riconosciute nel partito democratico, infatti, da Kennedy in poi le classi medie hanno effettuato una netta inversione di rotta verso il partito Repubblicano, non tanto per un cambiamento di linea di quest’ultimo, che col tempo si è soltanto adeguato al sopraggiungere di un nuovo tipo di elettorato, quanto più a causa di un profondo cambiamento di pelle del partito democratico, un tempo il partito del cittadino medio, ora pura illusione ottica.
Donald Trump, dunque, dopo quattro vivacissimi anni alla Casa Bianca, che lo hanno visto anche affrontare due inchieste per Impeachment, tenta la rielezione, autolegittimandosi come ultima chance per l’America, ultima possibilità di eliminare quelli che lui definisce “radicali di sinistra”. Tutto questo accade peraltro con l’aiuto dell’uomo più ricco del mondo, l’imprenditore visionario Elon Musk, tra i primi finanziatori dell’ex presidente, nonchè possibile componente del prossimo gabinetto governativo.
Il suo seguito è talvolta eccessivamente indottrinato, e da tenere di conto c’è senza dubbio anche la forte considerazione dell’elemento religioso tra le fila di chi lo vota come anche nella stessa dialettica che Trump utilizza. Basti pensare alla legittimazione da Dio che viene decantata quotidianamente su Trump, successiva agli scampati due attentati alla sua vita, di cui il primo il più simbolico ed importante.
Difensore delle violenze antidemocratiche di Capitol Hill e ispiratore di molti movimenti conservatori e cospirazionisti, Trump supporta battaglie come la lotta instancabile all’immigrazione clandestina al confine col Messico, spesso con soluzioni drastiche come la costruzione del muro di contenimento. Ma troviamo anche la lotta al diritto di aborto, la lotta al dilagare delle droghe, come per il Fentanyl recentemente, il sostegno ad un modello di gestione della sicurezza interna col pugno di ferro, e sopra ogni cosa poi, l’idea di un’America di conservazione. Un’America sempre meno impegnata in conflitti dall’altra parte del mondo, meno imperialista (forse) e più chiusa nei propri confini; un’America apparentemente più attenta allo stile di vita piuttosto che alla gloria imperiale.
COSA ACCADRÀ?
L’attuale situazione di parità tra i due candidati alla Casa Bianca, che vede una sorta di spartizione degli Swing States, ci porta sempre di più verso un’elezione combattuta fino all’ultimo istante. Bisogna tornare infatti ad Al Gore e Bush jr. per ritrovare un equilibrio così serrato. Assisteremo dunque ad una storica elezione presidenziale, questo è certo, ma allo stesso tempo è certo anche che a vincere non sarà soltanto un candidato, ma tanto più una vera e propria visione del mondo, della vita civile e della collettività.
I leader sono d’altronde soltanto la copertina di un libro sconfinato che si chiama Popolo.
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