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Historia et Fabula. Cos'è la storia?

Writer: Koinè JournalKoinè Journal

di Cosimo Bettoni.


La natura ha concesso agli uomini organi per mezzo dei quali essi possono procurarsi notizie e informazioni su quanto li circonda, l’udito e la vista; di essi la vista è secondo Eraclito di gran lunga più sicura...Timeo preferì, per procurarsi le informazioni necessarie, la via più piacevole e meno sicura, poiché rinunciò completamente a vedere...Mentre egli apparentemente si è procurato grande esperienza e ha investigato con cura i documenti---nessuno degli storiografi di fama è in realtà più ignaro e negligente di lui in parecchi campi...

 

Le parole presenti in questa severissima condanna – di liceale memoria per qualcuno – vengono pronunciate dallo storico greco Polibio di Megalopoli (206-124 a.C.) all’interno del XII libro delle sue Storie, pervenuto a noi solo frammentariamente.

 

Una delle sezioni più corpose di questo libro è dedicata alla critica che Polibio muove ad un meno noto storico greco, Timeo di Tauromenio (350-260 a.C. circa), autore di un’opera – perduta – sull’occidente greco intitolata Sikelikà. A detta di Polibio, la colpa di Timeo sarebbe stata quella di aver realizzato un resoconto storico basato esclusivamente sull’indagine documentaria, e non sulla visione in prima persona dei grandi avvenimenti politici, ai quali, invece, lo storico di Megalopoli aveva assistito.

 

Non ci si addentrerà ulteriormente all’interno del complesso tema del dibattito storiografico di età ellenistica; mi piacerebbe, piuttosto, portare l’attenzione su un altro aspetto che emerge dal passo polibiano, ossia quello legato alle modalità e ai fini dell’attività storiografica.

 

La riflessione sul senso della storia e sul suo compito è antica tanto quanto la disciplina stessa; d’altronde lo stesso Erodoto (484-425 a.C. circa), il padre della storia, aveva cominciato le sue Storie indicando nella salvaguardia della memoria delle grandi imprese compiute dagli uomini l’obiettivo della sua ἱστορίης ἀπόδεξις (esposizione storica).

 

Questo dibattito non è, però, limitato esclusivamente al mondo di quelli che potrebbero impropriamente definire come storiografi di professione, ma riguarda anche altre tipologie di letterati del mondo antico. Facendo nuovamente appello a qualche possibile ricordo liceale, si potrebbe citare anche la famosa condanna che il poeta romano Catullo (84-54 a.C.) espresse sui perduti Annales dell’odiato avversario Volusio (I secolo a.C.), liquidati come cacata charta.

 

Risulta chiaro che il tema non si riduce semplicemente al dibattito sulla maggiore affidabilità di un autore rispetto all’altro. La prospettiva da adottare sembra piuttosto dover essere quella di un’indagine epistemologica che analizzi cosa si sia inteso con la parola storia nel corso di differenti epoche. È evidente, infatti, che a questa parola non possa essere assegnato un significato univoco e valido in egual modo a seconda del periodo in cui fu usata, ma piuttosto uno polivalente.

 

Per chiarire meglio la questione, vale la pena richiamarsi ad un fondamentale contributo di Anthony Grafton di qualche anno fa, intitolato What was History? (2007). Il resoconto presentato da Grafton, datato tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo, mette in scena la contrapposizione tra l’erudito olandese Jakob Perizonius (1651-1715) ed il teologo ginevrino Jean Le Clerc (1657-1736).

 

Iniquitas Clerici in Curtium


Non si pecca di superbia nell’affermare che i nomi di Perizonius e Le Clerc rappresentino dei buchi neri per un pubblico generalista. Entrambi fanno effettivamente parte di quella categoria di personaggi arcinoti per lo specialista, ma del quale il lettore occasionale può senza dubbio fare tranquillamente a meno.

 

L’origine del confronto tra i due ha origine nel 1697, quando Le Clerc pubblicò l’Ars critica, testo in due volumi dedicato all’interpretazione delle fonti e alla loro critica. Particolarmente severo era stato il giudizio che Le Clerc aveva mosso allo storico romano Curzio Rufo (I-II o III-IV secolo), autore di un’opera dedicata alle imprese di Alessandro Magno intitolata proprio Historiae Alexandri Magni. Sebbene Curzio avesse goduto di un certo successo all’inizio dell’era moderna (Grafton, 2007: 5), per Le Clerc egli non era degno di alcuna lode in quanto eccessivamente propenso ad inserire nel suo lavoro dei resoconti inerenti a fatti del tutto privi di credibilità. Ulteriore motivo di biasimo era per lui l’eccessivo ricorso che lo storico romano faceva ai discorsi diretti, dei quali egli non avrebbe mai potuto avere una testimonianza diretta.

 

È facile avvertire nelle parole di Le Clerc la stessa foga con cui Polibio aveva attaccato Timeo; tuttavia, a differenza di quest’ultimo, Curzio Rufo poté contare su un difensore del proprio operato, ossia l’olandese Perizonius. Costui, infatti, dedicò un intero lavoro, intitolato Quintus Curtius Rufus Vindicatus (1703), al tentativo di sconfessare i motivi di biasimo presentati da Le Clerc. La colpa del teologo ginevrino era quella di non aver tenuto conto del contesto culturale in cui Curzio aveva scritto la propria opera. Gli exempla di virtù e il ricorso ai discorsi erano, infatti, per gli storici antichi degli elementi imprescindibili della narrazione storica. Appellarsi alle parole dei viri illustres era un modo per suscitare nel lettore un sentimento di emulazione; si sperava sostanzialmente che, attraverso la lettura delle gesta dei grandi e delle loro parole, anche i lettori fossero ispirati alla virtù.

Seppur comprensibile, l’accusa di Le Clerc appare molto sterile una volta compreso l’elevato grado di modernità che contraddistingue la riflessione storicista di Perizonius, senza dubbio molto più vicina alla sensibilità contemporanea.

 

Il nodo cruciale intorno a questo confronto è, però, un altro. Per comprenderlo, è necessario chiarire i concetti di historia e fabula, noti agli studiosi dell’età moderna, ma meno familiari ai lettori contemporanei.

 

All’interno della Res publica litterarum europea della prima modernità, il termine historia veniva utilizzato per indicare un prodotto letterario in grado di presentare il reale andamento delle vicende umane. Con fabula si intendeva, invece, l’ambito a cui andavano ascritti tutti quegli elementi di cui non si poteva avere una testimonianza oggettiva, ossia quegli exempla di virtù e i discorsi fatti pronunciare a personaggi del passato (Bietenholz, 1994: 2).

 

Distinguere all’interno di un’opera del passato queste due categorie è qualcosa di fondamentale per gli studiosi della prima età moderna, che a partire dalla metà del XVI secolo cominciarono a sentire l’esigenza di distinguere tra autori che potevano essere ritenuti credibili e autori che, al contrario, non lo potevano essere.

Questo tipo di analisi delle fonti antiche cominciò ad essere svolto nel Cinquecento, e coinvolse la maggior parte degli storici antichi, e in particolar modo gli storici della Chiesa, sia romani, che greci, che bizantini (Wallraff, 1998: pp. 223-260). Una particolare attenzione giustificata dalla poderosa attività di ricerca compiuta nel mondo protestante e cattolico per realizzare delle compilazioni storiche di parte. Risultato finale di quest’attività sarebbe stata la realizzazione di due fondamentali lavori: le Centurie di Magdeburgo (1559-1574), realizzate da studiosi luterani, e gli Annales ecclesiastici (1588-1607) del cardinale Cesare Baronio (1538-1607).

 

Come Baronio e i centuriatori, moltissimi altri studiosi moderni cercarono di distinguere gli elementi della fabula da quelli dell’historia all’interno di importanti resoconti come quelli di Eusebio di Cesarea (260-399), o di Sozomeno (400-450 circa) e del ben più tardo Niceforo Callisto Xanthopoulos (1274-1328).

 

Si lasci ora da parte questo excursus riguardante la critica delle fonti nel pieno Cinquecento e si torni al confronto tra Perizonius e Le Clerc. Questo non introduceva solo due metodi di analisi del contenuto delle fonti antiche, ma anche due differenti modalità di intendere il ruolo della storia. Compito di quest’ultima, nella visione scientifica di Le Clerc, era di far emergere la verità – concetto da intendersi anche nell’accezione di plausibilità –, mentre in quella più storicista di Perizonius, essa si faceva carico di trasportare con sé anche lo zeitgeist di un’epoca.

 

Per quanto distanti, entrambe le posizioni condividevano in realtà un obiettivo comune: quello di difendere la storia da un nemico molto più pericoloso, ossia quel pirronismo che con il suo approccio scettico aveva messo in crisi l’idea stessa che la storia potesse arrivare a qualche sorta di evidenza nel racconto del passato (Momigliano, 1987: 17).

 

Valeat tandem Pyrrhonismus!: artes historicae e il ruolo dell’antiquaria


Pur essendo fautori di approcci differenti alle fonti storiche antiche, Perizonius e Le Clerc condividevano la comune preoccupazione nei confronti del pensiero scettico, e in particolare del pirronismo* storico che nel corso del Seicento aveva travolto dapprima la religione e la metafisica, e che in un secondo momento mise in discussione anche il concetto stesso di verità storica (Hazard, 2019: 79).

Il pirronismo professato da teologi come François La Mothe Le Vayer (1588-1672) o da filosofi come Pierre Bayle (1647-1706) metteva radicalmente in crisi l’idea che gli storici potessero arrivare a conoscere il passato con chiarezza. Questa ‘’crociata’’ non fu condotta dai soli pirronisti. Al dibattito critico sulla storia si aggiunsero, infatti, anche gli intellettuali cartesiani, i seguaci di Nicolas Malebranche (1638-1715) e i giansenisti (Hazard, 2019: 80).

 

All’esame dei pirronisti non sfuggirono neppure le fonti dell’antichità, delle quali furono evidenziati tutti i limiti e le contraddizioni. Fu per questo motivo, dunque, che Le Clerc e Perizonius arrivarono a dibattere. Proponendo due approcci differenti alla stessa fonte – Quirzio Rufo – i due stavano rivendicando la supremazia della propria modalità di concepire cosa fosse l’ars historica. La vittoria sul pirronismo passava per Le Clerc da un vaglio attentissimo delle fonti, che dovevano essere selezionate sulla base del criterio della credibilità; per Perizonius, invece, attraverso un approccio agli autori antichi e alle loro opere che tenesse conto anche della loro distanza temporale e culturale.

A salvare entrambe le artes historicae dalle derive più radicali del pirronismo fu il ricorso alla tanto bistrattata antiquaria (Momigliano, 1987: 22-33) che offrì agli storici strumenti differenti dalle fonti letterarie, la cui credibilità, agli occhi di Le Vayer e degli altri, era irrimediabilmente compromessa a causa dell’impossibilità di distinguere il vero dal falso.

 

L’antiquaria – da intendere qui anche come erudizione – fornì agli storici nuovi strumenti per produrre delle ricostruzioni attendibili del passato. La nascita della paleografia e della diplomatica con il De re diplomatica (1681) di Jean Mabillon (1632-1707) rappresentarono, per esempio, due nuovi straordinari strumenti per certificare la bontà – dal punto di vista scientifico – di un’opera di storiografia. Un altro celebre caso fu quello di Edward Gibbon (1737-1794), che si servì ampiamente di fonti numismatiche ed epigrafiche per la stesura della sua immensa opera sulla caduta di Roma, Decline and Fall of the Roman Empire (1776-1788).

 

Nella storia e nella vita esistono le categorie


Una volta scongiurata la minaccia pirronista, la storia ha proseguito il proprio cammino nei secoli continuando a riflettere su sé stessa, cosa che ha portato a continui cambiamenti e allargamenti della prospettiva d’indagine degli studiosi. Tuttavia, nonostante gli sforzi compiuti sino ad ora, non sembra di essere ancora lontani dal rispondere alla domanda su cosa la storia effettivamente sia. Attraverso la ricostruzione del dibattito tra Le Clerc e Perizonius si è cercato di rendere evidente come, persino nel momento di massima tensione per la disciplina, siano continuate ad esistere differenti modalità di concepire la ricostruzione storica.

 

Vale forse la pena cercare di porsi la domanda in maniera diversa: quante storie si sono susseguite nel corso delle varie epoche? Richiamandosi nuovamente al saggio di Grafton, vale forse la pena esaminare il tema dalla prospettiva di chi ha compreso che sono esistite e continuano ad esistere delle artes historicae, ossia diverse modalità di condurre l’attività di ricerca. Questi metodi possono esistere parallelamente, e spesso anche essere in contrasto tra di loro; l’idea di pragmatike istoria di Polibio voleva volontariamente contrapporsi alle modalità di lavoro degli storici come Timeo, che scrivevano sulla base dell’analisi delle fonti a loro disposizione.

 

Come visto, sono le necessità, così come i gusti e sensibilità differenti di epoca in epoca, a favorire il passaggio da un paradigma storiografico ad un altro. Per più di un millennio gli uomini hanno preferito l’approccio scientifico di Tucidide (460-404 a.C. circa) a quello etnografico di Erodoto, che ha invece cominciato ad essere preso a modello a partire dalla rivoluzione del canone storiografico causato dagli storici dell’Annales all’inizio del Novecento.

 

Così come non è univoca la vicenda del genere umano, allo stesso modo non può esserlo la narrazione storica. Una volta chiarito ciò, risulta altrettanto evidente che il codice scientifico di cui la tribù degli storici (Viazzo, 2000: 15) si è dotata non possa essere messo in discussione. Linguaggio specifico e pretesa di scientificità continueranno a far parte di quelle categorie imprescindibili che il mondo occidentale ha trasmesso al resto del mondo (Chakrabarty, 2000).

 

 

*Il termine fa riferimento al pensatore greco Pirrone (360/365-275), fondatore della filosofia dello scetticismo.

 

 

 


Bibliografia

-Bietenholz Peter G. (1994), Historia and Fabula. Myths and Legends in Historical Thought from Antiquity to the Modern Age, Leiden, Brill.

-Catullo (1982), I canti, Milano, BUR-Rizzoli.

-Chakrabarty Dipesh (2000), Provincializing Europe. Postcolonial Thought and Historical Difference - New Edition, Princeton, Princeton University Press.

-Cicerone (1994), Dell’oratore, Milano, BUR-Rizzoli.

-Di Fiore Laura e Meriggi Marco (2011), World history. Le nuove rotte della storia, Roma, Laterza.

-Erodoto (1984), Storie. Libri I-II, Milano, BUR-Rizzoli.

-Grafton Anthony, The Identities of History in Early Modern Europe: Prelude to a Study of the Artes Historicae, in Pomata Gianna e Siriasi Nancy G. (2005), Empiricism and Erudition in Early Modern Europe, Cambridge, The MIT Press, pp. 41-74.

-Grafton Anthony (2007), What was History? The Art of History in Early Modern Europe, Cambridge, Cambridge University Press.

-Hazard Paul (2019), La crisi della coscienza europea, Torino, UTET.

-Wallraff Martin (1998), Die Rezeption der Spätantiken Kirchengeschichtswerke im 16. Jahrhundert, in Grane Leif, Schindler Alfred e Wriedt Markus (a cura di), Auctoritas Patrum II. Neue Beiträge zur Rezeption der Kirchenväter im 15. und 16. Jahrhundert, Mainz, Verlag Philipp von Zarber.

-Le Clerc Jean (1730), Joannis Clerici Ars Critica, in qua ad Studia Linguarum Latinae, Graecae, et Hebraicae Via munitur...Volumen Secundum, Amsteldaemi, apud Janssonio-Waesbergios.

-Marcocci Giuseppe (2016), Indios, cinesi, falsari. Le storie del mondo nel Rinascimento, Roma, Laterza.

-Momigliano Arnaldo (1987), Storia antica e antiquaria, Bologna, Il Mulino.

-Perizonius (1703), Jacobi Perizonii Quintus Curtius Rufus, Restiturus in integrum, & Vindicatus, Lugduni in Batavis, apud Henricum Teering.

-Polibio (2003), Storie (libri XII-XVII). Vol.5, Milano, BUR-Rizzoli.

-Quinto Curzio Rufo (2005), Storie di Alessandro Magno, Milano, BUR-Rizzoli.

-Viazzo Pier Paolo (2000), Introduzione all’antropologia storica, Roma, Laterza.

 
 
 

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