Ripensare Helsinki cinquant'anni dopo
- Koinè Journal
- Apr 5
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di Davide Cocetti.
In queste settimane il tema della sicurezza europea è riemerso con forza, dividendo l’opinione pubblica secondo linee che non sempre seguono i binari canonici della politica nostrana. Un dibattito a tratti caotico, in cui destra e sinistra finiscono per confondersi ancor più di quanto già non accadesse su altri temi, ma da cui emerge una prospettiva condivisa, seppur per motivazioni pressoché antipodali: il bisogno di un’Europa diversa.
Tra chi chiede un’Unione più forte e chi ne esige lo smantellamento – o quantomeno un forte ridimensionamento a favore dei singoli Stati nazionali – l’unica evidenza che sembra mettere d’accordo tutti è l’inadeguatezza dei meccanismi comunitari in essere. Difficile dare torto a queste voci: le numerose fratture interne all’UE rendono spesso lento e macchinoso, se non sterile, il processo di decision making dei suoi organi e la svolta nella politica estera statunitense imposta da Trump sembra colpire proprio il fianco scoperto della Comunità.
Di fronte a questa impasse, chi scrive si rifiuta di credere che la soluzione stia nell’ognuno per sé. Difficilmente i singoli Paesi, e in particolare il nostro, si rivelerebbero in grado di tutelare i propri interessi specifici nella grande arena globale. Ciononostante, non possiamo nemmeno cullarci nell’idea che l’ambizioso piano ReArm Europe portato avanti da Ursula von der Leyen sia di per sé sufficiente a dare fondamenta più solide all’Unione. Se il tema di una difesa comune può essere condivisibile e meritevole di approfondimento, non sarà con le armi che si farà l’Europa, né esse possono bastare per il raggiungimento di una pace reale e duratura.
La Storia ci ha insegnato che il mantra della deterrenza mediante gli armamenti, tornato in voga in questi giorni, ha sempre avuto un’efficacia limitata. E allora è ancora alla Storia che ci possiamo e ci dobbiamo rivolgere, se vogliamo riflettere sulla direzione in cui l’Europa si deve muovere per garantire i suoi interessi, il suo rafforzamento e in ultima istanza la sua stessa esistenza. Vale dunque la pena proporre alcune riflessioni ex post sugli accordi di Helsinki, dei quali ricade proprio quest’anno il cinquantesimo anniversario.
«Helsinki 1975» potrà dire poco a chi non ha vissuto quelle settimane, o a chi non avuto modo di ripercorrerle a posteriori attraverso i suoi studi. Si tratta infatti di uno snodo della storia recente del nostro continente a cui non sempre viene attribuito il giusto peso, ma sulla cui reale rilevanza si ritrovano concordi pressoché tutti gli storici di professione. Soprattutto, non costituisce un episodio estemporaneo nella grande narrazione della Guerra fredda, ma al contrario rappresenta un punto di arrivo per processi e mediazioni durate anni, se non decenni.
Basti pensare che la Conferenza sulla sicurezza e sulla cooperazione in Europa (CSCE), il grande consesso entro cui l’Europa occidentale e il blocco socialista orientale discussero su quali basi dovesse svilupparsi la distensione nelle relazioni internazionali, richiese ventidue mesi di lavori ininterrotti – trentuno, calcolando anche i colloqui preparatori. Chi più di tutti aveva spinto per arrivare a questo forum era stata, per diversi motivi, l’Unione Sovietica post stalinista. Il Cremlino era infatti interessato non solo a limitare la corsa agli armamenti, ma anche e soprattutto a intensificare le relazioni commerciali con l’Occidente, a vedere riconosciuto lo status quo nel Continente – e con ciò la sua egemonia sull’Europa orientale – e a cristallizzare la divisione tra le due Germanie. Gli Stati occidentali, per quanto affatto contrari a sviluppare e intensificare i contatti oltre la Cortina di ferro, avevano guardato a lungo con sospetto le proposte sovietiche. Per questa ragione, lungo tutti gli anni Cinquanta e la prima metà degli anni Sessanta, un lento e graduale miglioramento nelle relazioni tra Est e Ovest era stato possibile solo grazie allo sviluppo di accordi bilaterali tra i singoli Stati.
Cosa determinò dunque quel mutamento di approccio che portò alla CSCE e agli accordi di Helsinki? La risposta non può essere univoca, ma sicuramente ebbero un enorme peso il dinamismo di diversi protagonisti europei occidentali a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta e il coraggio di adottare posizioni non pienamente allineate a quelle di Washington e della NATO. Non che gli USA non guardassero con interesse alla distensione; al contrario, un tale concetto vide in Richard Nixon, eletto alla presidenza proprio nel 1969, il suo primo promotore. Tuttavia, a fronte di uno scetticismo di fondo americano, l’idea di rispondere agli appelli del Patto di Varsavia e valutare la fattibilità di una conferenza paneuropea aveva comprensibilmente trovato terreno più fertile in Europa occidentale.
La Casa Bianca in ogni caso poteva accettare questo sviluppo, forte del fatto che fossero gli stessi Paesi europei a richiedere la garanzia della partecipazione statunitense a un simile tavolo di trattative. In realtà, però, questa parziale comunanza di intenti tra USA e Stati europei occidentali celava obiettivi profondamente divergenti: la distensione intesa da Washington sembrava più un mezzo per garantire il mantenimento dell’ordine bipolare mondiale, mentre in Europa si faceva sempre più largo l’idea della distensione come tappa necessaria per approfondire le interconnessioni nel continente e superare la contrapposizione imposta dalla Guerra fredda.
Il protagonismo europeo di questa fase trovò forse il suo esponente più illustre nel cancelliere tedesco occidentale Willy Brandt e nella sua Ostpolitik, una linea riassumibile – in maniera forse fin troppo sintetica – nella normalizzazione dei rapporti tra Repubblica federale tedesca e blocco socialista, con particolare attenzione alle relazioni alle due Germanie. Ma non si potrebbe cogliere lo spirito di Helsinki senza fare riferimento alle motivazioni che indussero, tra gli altri, Italia e Francia a investire molte energie nella preparazione della CSCE. Essi videro nella Conferenza l’opportunità di scongiurare un potenziale accordo bilaterale tra Mosca e Washington, che avrebbe relegato l’Europa a un ruolo marginale. Helsinki offriva la grande occasione di vedere la Comunità europea, fresca di ampliamento a nove membri nel 1973, finalmente riconosciuta dagli Stati socialisti e attrice di primissimo piano in un negoziato così importante.
Non si trattò di una partecipazione meramente simbolica. La grande coesione e collaborazione che accompagnò le frequenti riunioni e contatti tra i Nove rese possibile la formulazione di una posizione netta e granitica riguardo al “terzo tema” – al fianco della sicurezza nel continente e dell’intensificazione delle relazioni commerciali tra Est e Ovest – presentato durante la CSCE: i diritti umani. Nonostante la titubanza sovietica, tale questione fu inserita nel punto VII dell’Atto finale: il «Rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali inclusa la libertà di pensiero, coscienza, religione o credo». Un’indicazione a cui, non essendo gli accordi giuridicamente vincolanti, non sempre i Paesi socialisti si attennero, ma che contribuì a plasmare una comune identità europea, a incoraggiare l’espressione del dissenso nel blocco orientale e a riportare al centro del dibattito una tematica così delicata.
Non è questa la sede per descrivere nel dettaglio i lunghi negoziati e le finezze diplomatiche che accompagnarono i colloqui della CSCE e la redazione degli accordi di Helsinki. Né lo è per affrontare i successivi sviluppi della Conferenza, che, in seguito alla caduta dei regimi socialisti, nel 1995 è diventata un’Organizzazione permanente (OSCE) dalle sorti alterne. Questi temi richiederebbero articoli dedicati, se non addirittura intere monografie. Le riflessioni che questo articolo vuole proporre, ben lungi da avere la presunzione di offrire risposte nette a questioni fin troppo complesse, si articolano fondamentalmente in due direzioni.
La prima è quella dell’integrazione europea, un processo che non necessariamente deve svilupparsi in maniera antitetica rispetto agli interessi dei singoli Stati membri della Comunità, ma al contrario può esserne il garante più affidabile. Una rinnovata coesione europea rappresenterebbe la migliore tutela di fronte alle strategie e alle manovre delle altre potenze mondiali, ma richiederebbe un atteggiamento più propositivo rispetto all’antieuropeismo militante o alla passiva accettazione dello status quo. Per ora tale scenario rimane solamente un periodo ipotetico, fatto salvo per poche lodevoli eccezioni.
Ciò ci rimanda anche al secondo punto su cui interrogarci in maniera critica. L’organizzazione della CSCE e la redazione dell’Atto finale non sarebbero state possibili senza la predisposizione di tutte le parti in causa a imbastire un tavolo di trattative e raggiungere un accordo su diverse questioni ritenute prioritarie. Un processo, questo, in cui i partecipanti, ognuno portatore dei suoi interessi particolari e di quelli della comunità di appartenenza, accettarono di rivedere le proprie posizioni e raggiungere compromessi, in base a una gerarchia di priorità al cui apice si trovava la distensione. Un traguardo da avvicinare stimolando ogni contatto possibile, non limitando la discussione al tema degli armamenti ma servendosi di ogni canale possibile. Perché la distensione – o, per usare un termine che ci auspichiamo di poter presto utilizzare per il nostro presente, la pace – non si può raggiungere senza che tutti i contendenti la mettano al primo posto tra i loro obiettivi.
Senza esagerare la portata degli accordi di Helsinki, che, del resto, non riuscirono a prevenire la recrudescenza dei contrasti tra i due blocchi nei primi anni Ottanta, essi riuscirono ad aprire diversi canali di dialogo e di confronto tra Est e Ovest; canali che non si sarebbero mai più richiusi.
Bibliografia
Conferenza sulla sicurezza e sulla cooperazione in Europa – Atto finale, Helsinki, 1975, https://www.osce.org/helsinki-final-act.
Kansikas S., Socialist countries face the European Community: Soviet-bloc controversies over East-West trade, Francoforte, Peter Lang, 2014.
Romano A., From Détente in Europe to European Détente: How the West Shaped the Helsinki CSCE, Bruxelles, P.I.E. Peter Lang, 2009.
Varsori A., Storia internazionale. Dal 1919 a oggi, Bologna, Il Mulino, 2015.
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