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Writer's pictureKoinè Journal

Cosa ti rende crudele? Zimbardo e l'esperimento di Stanford


di Riccardo Cuppoletti.


L'esperimento di Stanford

Il nostro studio sulla vita della prigione, dunque, iniziò con un gruppo di studenti maschi, in salute, intelligenti ed appartenenti al ceto medio”. Eppure non bastò loro la perfetta salute e l’evidente intelligenza ad evitare le azioni drammatiche svolte.


Era il 1971. Philip Zimbardo, docente dell’università di Stanford, e alcuni suoi collaboratori, reclutarono 24 studenti (di questi, 18 presero parte all’esperimento) al fine di condurre uno studio piuttosto articolato per indagare su come il potere di un determinato contesto potesse influenzare il comportamento di singoli individui.

L’idea era quella di far trascorrere due settimane a questi soggetti in un setting preparato per avere le sembianze di un vero e proprio carcere, suddividendo i partecipanti in due gruppi: metà prigionieri e l’altra metà guardie carcerarie.


Ai partecipanti furono consegnati dei completi da guardia o da prigioniero, oltre che un numero identificativo per ognuno di questi ultimi, e vennero fissate delle regole che i prigionieri avrebbero dovuto rispettare. In caso di contravvenzione, sarebbero state impartite delle punizioni dalle guardie, con l’unico limite di non arrivare alla violenza fisica.


Bastò qualche giorno affinché le guardie iniziassero a tenere atteggiamenti sempre più autoritari e ad infliggere punizioni sempre più umilianti, fino alla decisione di Zimbardo di concludere anticipatamente l’esperimento (dopo soli sei giorni) in seguito al peggioramento delle condizioni psicologiche dei partecipanti che furono assegnati alla condizione di carceramento.


Nel debriefing le guardie carcerarie si sorpresero della propria crudeltà e dell’incapacità di fermare i colleghi più aguzzini, affermando di aver fatto solo quello che era stato loro richiesto nello svolgere l’esperimento e scusandosi con quelli che in effetti erano studenti come loro. I prigionieri in quel contesto furono deumanizzati, umiliati… persino il professor Zimbardo interruppe con colpevole ritardo l’esperimento. Il motivo? Spiegò che, facendo egli stesso parte dei partecipanti dell’esperimento come direttore della prigione, si immedesimò tanto nel ruolo da non riuscire a valutare in maniera obiettiva la situazione, finché una collega lo riportò coi piedi per terra.


La lettura dei documenti scritti dallo psicologo riporta alla mente eventi risalenti ai decenni precedenti: il collegamento con i crimini di guerra dei gerarchi nazisti coinvolti nell’olocausto e le loro motivazioni, discusse in tribunale, è immediato. Gente perfettamente in grado di intendere e di volere che fu soggetto di azioni fuori da ogni logica nei confronti di un gruppo deumanizzato, a cui non era attribuita alcuna dignità ma solo, come in questo caso, un numero identificativo. E se è vero, come concluse Hannah Arendt, che la capacità di compiere il male è in ognuno di noi, cosa ci induce ad attuarlo?


Cosa era successo?

L’esperimento di Zimbardo è rimasto uno dei più suggestivi e ricordati dalla comunità scientifica per quanto discusso a livello etico e sul piano della validità, oltre che ovviamente per i risultati shockanti: come è possibile che un gruppo di ragazzi comuni, studenti, in salute abbia commesso tali atti?

Per cercare una risposta si può partire da un’altra domanda più semplice: ruberesti mai qualcosa se avessi la sicurezza di non essere scoperto?


Rispondendo con un pizzico di onestà intellettuale, si potrebbe affermare che sarebbe difficile mantenere la schiena dritta se ci venisse offerta un’occasione del genere.

Seppure si tenda a considerare la propria persona come abbastanza morale da non commettere un furto, in questo caso il contesto creato dalle condizioni di anonimato e impunibilità giocano un ruolo fondamentale e, sebbene questo scenario possa sembrare molto artefatto e distante dalla realtà delle cose, nella vita quotidiana esistono meccaniche diverse per ottenere la stessa percezione di immunità.

C’è una teoria nata negli anni ‘70 molto accreditata in psicologia sociale che ci aiuta a spiegare questo evento così come i suoi tristi precedenti ben più noti: la teoria dell’identità sociale di Tajfel e Turner.


L’identità sociale è una componente del sé, inteso come soggetto distinto, il quale per definirsi si riferisce ad un gruppo a cui appartiene (ingroup) condividendone norme e valori e favorendolo rispetto ad un gruppo esterno (outgroup).

Un ampliamento di questo concetto si ha da parte degli stessi autori con la teoria della categorizzazione del sé, secondo la quale un soggetto che si identifica come appartenente ad un gruppo si percepirà, attraverso un processo noto come “depersonalizzazione”, non più un individuo con la propria soggettività e la propria morale, ma come un elemento intercambiabile con ogni componente del suo ingroup poiché ognuno condividerà il medesimo insieme di norme, valori e qualità salienti.


In maniera dipendente dal contesto, vi sarà una sola categoria sociale che l’individuo riterrà saliente e valida per la definizione del suo sé: se uno studente di medicina a Roma si trova in un gruppo di persone composto da studenti di varie facoltà, la categoria saliente sarà quella di essere appunto uno “studente di medicina”, contrapposta a quelle di “studente di psicologia” o giurisprudenza... Ma se ipotizziamo una situazione in cui questo studente di Roma si dovesse trovare a discutere con degli studenti di medicina, per esempio, di Milano su quale delle due città sia la migliore, allora l’essere studente di medicina sarebbe messo in secondo piano dalla salienza della categoria “studente di Roma” opposta a quella di “studente di Milano” e difenderebbe a spada tratta la sua città universitaria.


Partendo da questi elementi la lettura appare abbastanza chiara; i partecipanti hanno sentito legittimato il proprio comportamento sia per la salienza della categoria “guardia carceraria” piuttosto che quella di “studente”, sia per le norme condivise di punizione da infliggere ai carcerati che non rispettavano le regole. Inoltre, visto che gli ordini erano impartiti da quella che veniva accettata come autorità, per gli studenti che sotto sotto qualche interrogativo etico se lo stavano ponendo, è stato ancor più difficile rompere il consenso, l’uniformità di pensiero. Era infatti preferibile, vista la situazione, non condannare l’operato delle altre guardie e addirittura comportarsi in maniera analoga, creando un processo di influenza sociale negativo e distruttivo. Un circolo vizioso che neppure Zimbardo era riuscito a prevedere e al quale, anzi, prese parte identificandosi troppo nel ruolo artefatto, percependo quindi le guardie come più vicine al suo ingroup piuttosto che i carcerati.


Questi eventi portarono il docente a teorizzare quello che fu chiamato “effetto Lucifero”, ovvero la possibilità che il contesto disinibisca una persona a tal punto da farne emergere il lato più “cattivo”, dal quale prese poi anche nome la pellicola pubblicata nel 2015 e ispirata proprio all’esperimento di Stanford.


L'identità sociale nella violenza delle forze dell'ordine

Non si pensi che questi meccanismi siano a noi estrani o possano essere esclusivi di situazioni artefatte tipiche delle condizioni sperimentali. Lo dimostrano perfettamente i recenti fatti di cronaca che narrano degli scontri tra polizia e manifestanti, come quelli di venerdì 23 febbraio, quando degli studenti a Pisa hanno cercato di raggiungere piazza Santissima Annunziata e sono stati fermati proprio dalle forze dell’ordine

.  A simili eventi fanno da sfondo gli stessi meccanismi psicologici di identificazione e appartenenza ad un gruppo, con conseguente condivisione di norme e valori.


La dinamica osservata nell’ultimo mese in queste repressioni violente viene definita come “polarizzazione”: in un gruppo in cui sono condivisi determinati valori, questi assumeranno una connotazione sempre più forte e marcata a tal punto da far considerare accettabili, se non lodevoli, tali comportamenti estremizzati nella direzione dell’ideologia del gruppo, con una forte probabilità di un’imitazione ancor più esasperata.

In sostanza, eventi come quelli di Roma e Torino hanno creato dei precedenti piuttosto importanti per favorire un’escalation proseguita con i fatti di Pisa, Firenze e infine Bologna; una mancata condanna da parte delle istituzioni in occasione degli scontri precedenti ha portato gli agenti in antisommossa a percepire come legittimato un atteggiamento violento, visto come unico deterrente dell’ordine che devono preservare. Condanna arrivata in seguito alle vicissitudini delle città toscane da parte del presidente Mattarella, il quale ha definito “un fallimento” le manganellate a danno degli studenti.


Inoltre, proprio per il processo di categorizzazione del sé dei singoli agenti con la categoria di appartenenza, ogni componente si percepisce come intercambiabile con chiunque altro del suo ingroup. Tutto ciò ha anche lati negativi come una distorsione del concetto di responsabilità, in quanto le proprie azioni verranno percepite come imputabili ad un gruppo, piuttosto che ad un individuo.

Non persone contro persone. Non polizia contro studenti. Non bestie o un gruppo di fanatici contro estremisti politici. Nemmeno genitori che potrebbero avere figli della stessa età dei ragazzi che stavano picchiando o addirittura essere tra i manifestanti: la salienza in questi scontri pende tutta dalla parte della percezione di essere forze armate addette al mantenimento dell’ordine con ogni mezzo considerato lecito, opposto ad un outgroup ostile, i cui componenti agiscono per infrangerlo.


Al di là degli interventi delle istituzioni, sicuramente necessari ma non sufficienti, sarebbe importante far percepire ad ogni agente che la responsabilità dei gesti compiuti ricade sul singolo e non sarà diluita in un intreccio creato dal tessuto della propria categoria sociale, dispersa in un anonimato che difficilmente faciliterà il corso della giustizia. Insomma, è necessario evitare il meccanismo di depersonalizzazione.

Le prime idee sono già state prese in considerazione e si sta già valutando l’introduzione dei tanto discussi numeri identificativi: un ottimo deterrente, ma non sufficiente, per ricordare che, per quanto possiamo essere influenzati dal gruppo, dal silenzio delle istituzioni e dal contesto in cui le azioni hanno luogo, le decisioni prese sono in ultima analisi un processo individuale al quale bisogna rispondere come soggetti senzienti.

 





Bibliografia:

-Haslam, S.A., Psicologia delle organizzazioni; Maggioli S.p.A., 2015; revisione italiana a cura di Michela Cortini e Stefano Pagliaro;

-Zimbardo P. et al., A simulation study of the psychology of imprisonment, 1971; academia.edu

-Barbato F., Un esperimento sociale passato alla storia: lo studio carcerario di Stanford dal 1970 ad oggi, 2020, univda.unitesi.cineca.it





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