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Writer's pictureKoinè Journal

Serve una riforma della democrazia?


di Federica Oneda.


Se dal 1948 in poi la tematica di fondo che seguiva il dibattito politico, il lavoro parlamentare e i programmi dei partiti era l’attuazione della Costituzione appena redatta, perché i nuovi istituti, i valori e i principi costituzionali necessitavano di essere implementati attraverso leggi, durante la prima metà degli anni ’80 abbiamo assistito ad un cambio di paradigma nel modo di guardare la Costituzione. Il centro del dibattito non era più l’attuazione della Costituzione, ma la sua riforma.


Emerse infatti nel nostro paese in quegli anni il tema della riforma costituzionale e istituzionale, tema che fino a quel momento era stato avanzato solamente da alcuni intellettuali o politologi, ma mai preso in considerazione dai partiti. Il tema della riforma costituzionale emerse con la formazione del governo Spadolini quando si formarono due comitati di studio, uno alla Camera e uno al Senato, che nell’aprile del 1983 votarono due mozioni identiche in cui si sosteneva che il logoramento di alcune istituzioni e il non funzionamento di altre rappresentavano un costo elevato per lo sviluppo sociale e civile. Si convergeva quindi sul dover affrontare i problemi della riforma elettorale, l’esigenza della diversificazione tra i due rami del Parlamento, la revisione del bicameralismo perfetto, il numero dei componenti delle due camere e altre questioni come quelle relative alla stabilità del governo.                              


Il lavoro venne ripreso a partire dal giugno del 1983 con il governo Craxi con la formazione di una Commissione bicamerale presieduta da Bozzi, formata da 41 membri, che doveva affrontare un progetto di riforma istituzionale. All’interno della Commissione Bozzi non si arriverà mai ad un’intesa e per questo fu un’esperienza che non passerà alla storia. Nonostante questo i partiti ebbero però l’occasione di sviluppare idee più approfondite in tema di riforma costituzionale e confrontarsi su esse.                                              


Il fallimento dei lavori della Commissione rese evidente l’estrema difficoltà nel rivedere la Costituzione. Si affermava così quello che Gustavo Zagrebelsky definiva “il paradosso della riforma costituzionale”; si lavora per una riforma del sistema perché il sistema decisionale non funziona, ma proprio perché il sistema decisionale non funziona non si riesce a riformare il sistema istituzionale.

                                                                      

Durante la legislatura 92-94 venne formata una Commissione bicamerale presieduta da Ciriaco de Mita (DC) e Nilde Iotti (PDS) che riprese i lavori iniziati dalla commissione Bozzi. Emerse in questa sede la prospettiva di una modifica profonda del Titolo V (la parte della Costituzione che disciplina le competenze tra Stato e autonomie locali) verrà ripreso dopo la vittoria dell’Ulivo all’interno di una nuova Commissione bicamerale presieduta da Massimo D’Alema (DS). Lo spirito che accompagnava i lavori di quella riforma, nonostante le divisioni partitiche, era di una ricerca di intesa tra le varie forze, l’idea che una riforma della Costituzione doveva essere attuata con una convergenza ampia di posizioni.


Si instaurò quindi a tale scopo un dialogo con l’opposizione, tra il leder Massimo D’Alema e Silvio Berlusconi (FI). Quando sembrava però che si fosse raggiunto un accordo su un progetto condiviso dalle forze politiche, i lavori si interruppero quando il cdx si rifiutò improvvisamente di portare avanti un dialogo con la maggioranza allora al governo. Il csx decise tuttavia di portare comunque avanti il progetto di riforma della seconda parte della Costituzione arrivando ad attuare infatti nel 2001 la riforma del Titolo V.


Quello che emerse fu un atteggiamento schizofrenico, da una parte si voleva perseguire l’obiettivo di una riforma condivisa, ma quando questo non fu più possibile si proseguì comunque. Nonostante la riforma che era stata attuata riprendesse principi e valori su cui si era trovato un accordo tra i partiti durante i lavori in Commissione, non ci si è resi conto che in questo modo si stava dando vita ad un precedente insidioso: la riforma della Costituzione poteva essere attuata con la sola volontà della maggioranza. Precedente importante che verrà infatti utilizzato dal governo Berlusconi nel 2005 con la riforma approvata solo dalla maggioranza di cdx il 16 novembre 2005 sull’introduzione del Senato federale, la riforma della Corte costituzionale e il rafforzamento della figura del premier. Riforma poi bloccata tramite referendum.   


Il 18 giungo di quest’anno il Senato ha approvato con 109 voti favorevoli il disegno di legge di riforma costituzionale sul cosiddetto “premierato”, che contiene l’introduzione in Costituzione dell’elezione diretta del presidente del Consiglio. Proposta fortemente voluta dal cdx e in particolare modo da Giorgia Meloni. La leader di Fratelli d’Italia ha fatto del premierato il punto centrale del suo programma politico, raccontandolo come unico modo per “garantire il diritto dei cittadini di scegliere da chi farsi governare, e mettere fine alla stagione dei governi tecnici, dei ribaltoni, alla stagione delle maggioranze arcobaleno”. È evidente che il cdx sostenga l’elezione diretta del capo di governo non come soluzione individuata per risolvere i problemi della democrazia di oggi, ma come un modo per accentrare ancora di più il potere nelle mani di pochi, per proseguire il percorso verso riforme di stampo autoritario e illiberale eliminando qualsiasi tipo di contrappeso democratico. Ciononostante è interessante soffermarsi a riflettere sul metodo di riforma di un sistema, che in questo caso vedrà necessariamente un (lungo) percorso di approvazione che non si proporrà di avere come obiettivo quello di un accordo quanto più condiviso possibile, ma verrà approvato a colpi di maggioranza, come i precedenti storici, in discontinuità con lo spirito costituzionale e democratico del nostro paese che necessita di riforme quanto più condivise possibili per essere legittimato.                                      


L’idea che sia possibile modificare la Costituzione se si hanno i voti di una maggioranza parlamentare invece che attraverso il lavoro tra le forze politiche che porti ad una riforma condivisa è il risultato di errori passati e di una deriva anti- democratica. Il fatto che la maggioranza di governo già parli di referendum “confermativo” è un chiaro segnale di quanto la percezione sia di non riuscire a raggiungere la maggioranza condivisa dei 2 /3 ma solo la maggioranza assoluta. E’ quindi evidente che fin dalla sua prima presentazione, quella del premiariato, non sia una riforma che si propone di ricercare un compresso parlamentare per il raggiungimento dei 2 / 3 ma si limiti ad essere portata avanti a colpi di maggioranza. La crisi dell’attuale sistema democratico è un problema evidente che però necessita, per essere risolto, di più democrazia e non solo della democrazia della maggioranza.                                          


La vera domanda in questo panorama politico diventa quindi; cosa dovrebbe fare il centro-sinistra? Come abbiamo detto in precedenza, il tema della riforma costituzionale non è nuovo nel dibattito politico italiano, nonostante le forze politiche siano profondamente cambiate nel corso del tempo. All’inizio degli anni ’80 ogni partito aveva un disegno di riforma costituzionale e istituzionale. Nei lavori della commissione Bozzi il Partito comunista proponeva il monocameralismo per velocizzare i tempi di riforma e per indebolire le pressioni dei gruppi di interesse e proponeva un sistema elettorale proporzionale a livello uninominale abolendo le preferenze. La Democrazia cristiana proponeva di mantenere l’impianto bicamerale, ma differenziare le competenze tra le due Camere, reintroducendo un premio di maggioranza a livello elettorale per consentire la formazione di coalizioni elettorali predeterminate. Il Partito socialista accettava l’idea di una differenziazione di ruoli tra le due camere proposta dalla DC arrivando però a proporre l’elezione diretta del Capo di Stato, e cosi via.                                                   


Viene da sé che alla luce del dibattito attuale ciò che manca ai partiti del centro- sinistra di oggi è (tra le tante cose) una visione di riforma democratica. I partiti di opposizione oggi sono totalmente silenti, non hanno il coraggio di criticare il sistema e ciò che si limitano a fare è opporsi tiepidamente al premieriato, unica alternativa che però oggi viene raccontata ai cittadini e alle cittadine per risollevare un sistema al collasso. La sinistra manca di incisività nel mettere in discussione il sistema esistente, a differenza della destra che si pone come alternativa radicale e propone cambiamenti significativi, aumentando la fiducia nei loro confronti da parte dei cittadini che cercano risposte forti ai loro problemi. Il centro-sinistra oggi dovrebbe ritornare ad elaborare un pensiero di riforma del sistema, per garantire più democrazia di quella di oggi opponendosi seriamente alla non-soluzione offerta dal centro-destra. È evidente che oggi non sia più sufficiente parlare di riforme settoriali per rispondere a problemi complessi, ma serve un’analisi e un progetto di riforma della struttura, per rispondere ai problemi della democrazia di oggi che vedono una crisi di rappresentanza dei partiti, una democrazia fatta di decreti, un astensionismo ai livelli più alti della storia, una legge elettorale che allontana sempre di più dal voto.                                                   


Il centro-sinistra dovrebbe ripartire dalle tematiche sollevate dai comitati civici, attualmente impegnati nella raccolta firme di quattro referendum e di due proposte di legge di iniziativa popolare. Centrale è la riforma dell’attuale legge elettorale, con l'obiettivo di ampliare le possibilità di scelta per i cittadini sui parlamentari e di favorire la formazione di maggioranze più rappresentative. Altrettanto importanti sono le proposte di legge che mirano a garantire una maggiore democraticità e trasparenza interna ai partiti e a valorizzare il ruolo delle formazioni sociali e della cittadinanza attiva. 


Insomma, il centro-sinistra dovrebbe ripensare anche e sopratutto alle regole del gioco democratico, alle procedure, all’impianto istituzionale e al processo decisionale per non continuare ad applicare schemi vecchi a problemi nuovi. Qualsiasi prospettiva di un’alternativa democratica al governo Meloni oggi non può non fondarsi anche su un’alternativa di democrazia.





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