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  • Writer's pictureKoinè Journal

Il diritto all'aborto: una storia molto italiana


di Alessia di Lorenzo



Questo quanto riportato nella cosiddetta Carta dei Principi redatta dai Pro Vita & Famiglia in previsione delle elezioni dello scorso 25 settembre. Il testo è stato presentato il sedici settembre e non poteva che comprendere la partecipazione degli esponenti di Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia. Stando alle dichiarazioni di Giorgia Meloni, sarebbe in progetto un fondo per sostenere le donne incinte con difficoltà economiche. Questo progetto è già realtà in Piemonte che, recentemente, ha stanziato 400 mila euro per il fondo Vita Nascente indirizzato alle associazioni Pro Vita. Lo scopo è quello di offrire altre chance a quelle donne che vedono nell’aborto l’unica soluzione possibile. E’ stato comunicato che la regione “pagherà alle famiglie vulnerabili e alle donne in difficoltà economica tutto ciò che serve per non dover rinunciare alla gravidanza che desiderano”. La leader di Fratelli d’ Italia ci tiene a ribadire, inoltre, che questo modus operandi sarebbe mirato ad “aggiungere un diritto” e non a sottrarlo. Nel frattempo, in Italia, il problema dell’interruzione volontaria della gravidanza è reale: 31 strutture sanitarie contano il 100% di obiettori di coscienza, 50 con una percentuale superiore al 90% ed in più di 80 strutture il tasso di obiezione di coscienza è superiore all’80%. Nello scenario europeo, Katarina Barley, vicepresidente del Parlamento Ue, dichiara che Giorgia Meloni sarà un primo Ministro vicino al modello politico di Viktor Orban e Donald Trump. La premier francese Elisabeth Borne ha ribadito, subito dopo le elezioni del 25 settembre, che la Francia sarà attenta al rispetto dei diritti umani e dell’aborto in Italia. Ma la Meloni vuole rassicurare tutti con le seguenti dichiarazioni “Non voglio abolire la 194, non voglio modificarla, ma applicarla integralmente anche nella parte che riguarda la prevenzione.” Una delle questioni più ostiche è che ciò avverrà, come riportato, nel rispetto e nella tutela della legge 194 che dal 1978 simboleggia un importante traguardo raggiunto dalla società femminile.


Nel dibattito pubblico, in Italia, si lamenta da sempre una mancata tutela di questo diritto che periodicamente viene messo duramente in discussione. E’ lecito chiedersi perché ciò avvenga. Per rispondere a questa domanda può essere utile interrogare la storia sociale e l’iter che ha portato all’emanazione della legge del 22 maggio 1978.


Storia sociale di un diritto mancato

Prima dell’entrata in vigore della legge 194/1978 l’interruzione volontaria della gravidanza in Italia era regolata dal Codice Rocco di epoca fascista, risalente al 1930. Gli articoli 545 e segg. del Codice Penale considerano l’aborto un vero e proprio reato contro lo Stato, in cui la pena di reclusione varia, a seconda dai casi, dai cinque ai dieci anni. In una società in cui il corpo della donna era considerato lo strumento necessario all’incremento demografico nazionale, l’interruzione di gravidanza era accreditata come reato contro lo Stato, la stirpe e la razza. Si comincerà a parlare nuovamente di aborto nel secondo dopoguerra, che ha portato con sé gli orrori delle violenze subite durante il Secondo conflitto mondiale; tra queste, ricorrenti erano gli stupri.


Gli anni ’50 e ’60 trovano un clima culturale fertile per un nuovo discorso sull’aborto. I giornalisti, per primi, hanno documentato le innumerevoli morti di donne che sono state costrette a praticare nell’illegalità l’interruzione di gravidanza. Per la prima volta si metteva in luce la portata di questo fenomeno. Quello di questi anni è stato, però, un timido interesse. Le cause di queste morti, che ammontavano a circa un milione in un anno, erano attribuite, infatti, ad altre circostanze.


La prima volta in cui se ne parlò apertamente, in Italia, fu grazie all’inchiesta di Noi Donne nel numero del febbraio 1961. La coraggiosa indagine ha messo in luce l’entità di un problema sociale nascosto, relegato alla realtà clandestina. Si testimoniava che su cento gravidanze la metà venissero interrotte mediante pratiche abortive che causavano la morte delle donne incinte. Questi sono anni che sdoganano argomenti tradizionalmente considerati tabù. Non a caso esce nel 1965, in Italia, Comizi d’amore di Pier Paolo Pasolini; per la prima volta viene affrontato liberamente il tema della sessualità e alle riflessioni sul corpo. Dal punto di vista internazionale, invece, grandi dibattiti sono emersi sia negli Stati Uniti che in Francia. A Parigi, nello specifico, ha fatto scalpore l’autodenuncia di Simone de Beauvoir e di altre femministe. Tali avvenimenti hanno stimolato la riflessione ed il dibattito in Italia circa questi temi. Mentre l’Occidente attraversava un momento di grande trasformazione sociale, rituona da San Pietro l’enciclica Humanae Vitae del 1968 con cui Paolo VI ribadiva l’illeceità dell’aborto e della contraccezione. Nella campagna di liberalizzazione all’aborto in Italia, un ruolo rilevante è sicuramente attribuibile al Partito Radicale. Le voci più radicali cominciarono a sollevarsi e nel 1970, il Movimento di Liberazione della Donna si federa con i radicali. La prima grande manifestazione di piazza a favore dell’aborto fu il congresso che si è tenuto a Roma tra il 27 ed il 28 febbraio 1971.


Il 1973 è l’anno in cui il socialista Loris Fortuna – che ha portato avanti la campagna sulla legittimità del divorzio – presenta un disegno di legge sull’aborto. In questo clima, il PCI assunse una posizione attendista a causa delle dispute con la Dc in materia di divorzio e Concordato. Mentre in Parlamento qualche istanza riformista cominciava a muoversi, la Chiesa Cattolica è sempre rimasta nella sua rigida posizione antiabortista, considerando addirittura questa evoluzione del discorso sociale una “involuzione del costume collettivo”. Nel frattempo, a Milano nasceva il Cisa (Centro d’informazione sulla sterilizzazione e sull’aborto) su iniziativa delle radicali Emma Bonino e Adele Faccio. Quest’ultima si fece, inoltre, arrestare a Roma il 26 gennaio 1975 nel Teatro Adriano, mentre si svolgeva una conferenza internazionale sull’aborto. Nello stesso anno è stato indetto un referendum abrogativo, promosso da Mld (movimento per la liberazione della donna), il Partito Radicale e la rivista Abc. L’intento era quello di intervenire sulle norme penali dell’aborto e la petizione raggiunse presto una quota di 800.000 firma. La tensione culminò quando Carlo Casini, esponente di rilievo del movimento cattolico nazionale, fece arrestare per conto della Procura di Firenze i vertici del Partito Radicale. Ciò avvenne nel bel mezzo di un comizio fiorentino sull’aborto. L’evento ebbe così tanta risonanza che lo stesso Corriere della Sera pose la questione sul piano della libertà d’opinione.


Il 18 febbraio la Corte Costituzionale emise una sentenza con cui dichiarava illegittima una parte dell’articolo 546 del Codice Penale. E’ in questo contesto che viene affermato il principio secondo cui il diritto alla salute di chi è già persona e quello di chi lo deve ancora diventare, non sono equivalenti.

L’iter della legge cominciò nel 1976 e nell’aprile del 1978 un nuovo testo giunse alle camere. Quest’ultimo fu approvato dalla Camera con 308 voti favorevoli e 275 contrari, arrivato al Senato, venne discusso tra il 18 ed il 21 maggio 1978. La legge 194 porta, così, il titolo di Norme per la Tutela Sociale della maternità e sull’interruzione volontaria di gravidanza. La donna incinta per poter abortire deve rispettare il termine dei 90 giorni dall’inizio della gravidanza. La richiesta può essere inoltrata a delle strutture specifiche quali consultori pubblici, strutture socio-sanitarie abilitate dalla regione oppure al medico di fiducia della donna.


La legge della discordia: una questione morale

Già da allora, furono sollevate pesanti critiche circa l’articolo 9 che recita così:

“(…) L’obiezione di coscienza esonera il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza, e non dall’assistenza antecedente e conseguente all’intervento”.


La peculiarità è che, tradizionalmente, l’obiezione di coscienza fosse stata storicamente legata all’obiezione al servizio militare. Nel contesto storico-culturale in cui la legge è stata emanata era legittimo prevedere che fosse garantita la libertà di coscienza da parte del personale sanitario, appunto perché indirizzata ad una generazione di medici anziani avversi al cambiamento. Proprio per questo il problema in Italia sussiste ed è reale. Molte voci chiedono ancora oggi una modifica ed un miglioramento di tale legge. Nonostante ci sia un trend in calo degli aborti in Italia - fenomeno dovuto al crescente tasso di istruzione e di consapevolezza sull’uso della contraccezione – l’obiezione di coscienza è molto diffusa ed addirittura in aumento tra i ginecologi. Tra le regioni con più obiettori di coscienza si contano il Molise, la Sicilia e la Basilicata. La legge 194/1978 presenta una grave criticità, ossia quella di non garantire un numero minimo di medici non obiettori per struttura sanitaria. Il che rende la vita di molte donne complicata, se si valutano anche le gravidanze indesiderate frutto di un rapporto non voluto da entrambe le parti. L’aborto e l’obiezione di coscienza pongono un importante questione etica e morale perché riguardano, appunto, la decisione di mettere al mondo una vita oppure negarne la nascita. Lo spiega bene l’etimologia del termine aborto, composto di ab cioè “via da” e oriri “nascere”. Pensare l’aborto come “eliminabile” lo sottrae ad un importante discorso morale. Spesso, nel dibattito pubblico, l’aborto viene visto come il conflitto tra la madre e l’embrione. Le tesi antiabortiste mirano a mettere in luce, difatti, lo statuto morale dell’embrione umano, sottraendolo al capriccio femminile. In realtà bisognerebbe notare come la natura releghi esclusivamente al corpo della donna la decisione etica di interrompere la gravidanza che, proprio per l’impossibilità di terzi di intervenire direttamente sulla procreazione, viene tacciata di irrazionalità. Gli argomenti antiabortisti, ma gli stessi medici, enfatizzano lo statuto del feto come questione centrale, riducendo la donna a mero ospite passivo, un vero e proprio “contenitore fetale” (Reichlin 2007: 142). Così facendo, viene sminuito il ruolo della donna non solo nella procreazione, ma anche la sua libertà di scelta rispetto alla propria sessualità. Recenti studi femministi hanno insistito sul carattere relazionale del feto: quest’ultimo non può essere considerato indipendentemente dal corpo che lo ospita, ma deve essere riconosciuto dall’interno di tale rapporto, tra la donna ed il feto. Caterina Botti considera, in questa chiave, la “posizione speciale della donna” il cui rapporto con l’embrione è vissuto come una tensione interna. E’ proprio tale tensione che rende la scelta della donna una scelta moralmente responsabile. In quest’ottica, l’aborto non deve essere pensato come un’azione immorale, ma deve essere letto nel contesto relazionale tra la donna ed il suo feto, nonché alla luce del rapporto tra i partner. La madre, portatrice del suo vissuto, ha una peculiare responsabilità morale ed ogni gravidanza ha un vissuto a sé che dipende dalla storia personale della donna. L’aborto è, al contrario, una scelta carica di valore morale, di cui deve tener conto la donna nella sua situazione contingente e che deve essere universalmente valida per tutti. Intendere l’aborto come un’azione morale strettamente contingente alla donna e (nel caso in cui ci sia) al suo partner dovrebbe essere un importante spunto di riflessione per gli obiettori di coscienza.


Nel nostro Paese vige ancora una legge che non garantisce un numero minimo di medici non obiettori, almeno per regione. Nonostante la 194/1978 sia un importante baluardo per i diritti della società femminile, la clausola dell’obiezione di coscienza per come è stata pensata, mette in seria crisi la possibilità di interrompere volontariamente la gravidanza. E’ una legge che già alla fine degli anni ’70 era considerata lacunosa, ma rispecchiava comunque un primo passo in avanti della società. Il problema di oggi consiste, probabilmente, nel fatto che quello dell’aborto viene con troppa fatica riconosciuto come diritto. E’ evidente che l’interruzione volontaria di gravidanza ponga un importante questione morale anche per i medici. Se da un lato non si può costringere il personale sanitario ad essere fautore dell’aborto di una possibile vita nascente, dall’altro è necessario ripensare al ruolo della madre nella procreazione. Si deve riconoscere alla donna il ruolo di soggetto morale che, in quanto tale, agisce in base al proprio vissuto e alla propria condizione economica, sentimentale e personale. La fotografia attuale del nostro Paese rispecchia un’Italia ancorata a modelli conservatori che privano la donna della possibilità di emanciparsi. Il nostro è un problema culturale. Un reale cambiamento si raggiungerà quando una buona parte riconoscerà all’aborto la dignità di essere un diritto.





Bibliografia

-Mori, M. (1996), Aborto e morale, Milano: Il Saggiatore

-Reichlin M. (2007), Aborto, la morale contro il diritto, Roma: Carrocci


Sitografia


-Caterina Botti, Aborto e morale: lo scandalo della soggettività femminile https://www.academia.edu/42859301/Aborto_e_morale_lo_scandalo_della_soggettivit%C3%A0_femminile




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