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Writer's pictureKoinè Journal

Il tassello mancante del federatore: Centrodestra in esame


di Andrea Pipponzi.


È il 2018, quando in prossimità delle nuove elezioni amministrative il grande gioco dello scacchiere politico inizia a muoversi. Da alcuni anni, come avevano ben prefigurato i risultati delle elezioni amministrative del 24-25 febbraio 2013, il bipolarismo elettorale ha cessato di esistere, dissolto dalla perentoria scalata del Movimento 5 Stelle (25,1% alla Camera e 23,3% al Senato). Ed ancora nel 2018, come mostreranno nuovamente i numeri, la fiducia del popolo italiano per il partito di Grillo avrebbe raggiunto il massimo storico: 32,7%. La lotta a senso unico contro il Movimento – sceso in campo senza alcuna alleanza - costrinse sia il Centrodestra che il Centrosinistra a dover correre ai ripari. Da un lato il Partito Democratico, seppur oramai prossimo alla crisi, non molla la leadership di sinistra, mettendosi così a capo dell’ampio fronte dei riformatori. L’ala di destra, invece, con una Lega capitanata da Matteo Salvini in piena ascesa, unisce nuovamente le forze dando vita ad una coalizione che vede partecipi lo stesso partito che fu di Bossi, Forza Italia, Fratelli d’Italia e, successivamente, Noi con l’Italia – UDC. È questa la genesi di un parterre d’intese ed alleanze che, dopo tre anni, continua a battagliare – tra l’altro con discreti risultati - in tutte le piazze d’Italia. Resta però la profonda necessità di riuscire a trovare una guida, ma soprattutto una conciliazione di idee ed obiettivi che aiutino ad elaborare condivise visioni di governo. Sono problematiche, queste, che dopotutto la coalizione non ha mai risolto fino in fondo.


Governo, non-governo. Dal Conte I a Mario Draghi


In preparazione alle già citate elezioni del 2018 si pose subito una rilevante questione: a chi affidare la leadership del Centrodestra? Silvio Berlusconi, da sempre principale volto di tale frangia politica, zoppica nel tentativo di vedersi nuovamente affidato l’incarico di federatore. Su di lui pende difatti la gravosa condizione dell’incandidabilità, causa la condanna scaturita a seguito del processo sui diritti tv di Mediaset. La legge Severino imponeva infatti che in caso di condanna a due o più anni per reati compiuti intenzionalmente fosse prevista l'incandidabilità del condannato per i sei anni successivi alla sentenza e, in caso di senatore o deputato già eletto, la decadenza dalle cariche elettive a seguito di un veto positivo degli onorevoli della Camera di appartenenza. L’obbligata uscita dal ruolo di ‘one man show’ di Berlusconi aprì conseguentemente un dibattito interno fra partiti, il quale venne risolto optando per quella che potrebbe difficilmente essere definita una chiara e netta presa di posizione. I tre leader di spicco (Salvini, Meloni e Berlusconi) decisero infatti di rimettere alle urne la nomina del capo-coalizione, affidandosi, cioè, a quella che di lì a breve sarebbe stata l’espressione di preferenza del popolo italiano: in caso di vittoria della coalizione, sarebbe stato il partito con il maggior numero di voti ad esprimere il candidato Presidente del Consiglio. Una linea d’azione che sembrerebbe essere perfettamente coerente con quella seguita e rispettata sin dal 1994 per Silvio Berlusconi, al quale il ruolo di Presidente veniva riservato proprio grazie alla maggioranza dei voti ottenuti nelle urne, piuttosto che alla leadership di cui de facto poteva fregiarsi con i partiti alleati.


Come detto in precedenza, le elezioni del 2018 furono il palcoscenico dell’exploit pentastellato, nonostante – numericamente – fosse stato proprio il Centrodestra ad uscire vincitore dalla tornata elettorale conquistando il 37% dei voti. Ma la mancanza di una maggioranza assoluta costrinse i tre leader a dover cercare - nel tentativo di formare un governo - l'appoggio di altre forze politiche. Si diede così il via al grande valzer delle consultazioni tra partiti: lunghi, lunghissimi mesi che portarono infine il Governo Conte (nato dall’accordo tra M5S e Lega) a giurare al Quirinale il 1º giugno. Nella realtà dei fatti, però, Matteo Salvini personalizzò pesantemente il progetto di governo, tagliando fuori i suoi stessi alleati. Al momento della cerimonia il Carroccio è presente con cinque ministri (il proprio leader su tutti, quale ministro dell'interno e Vice-Presidente del Consiglio). Pochi giorni dopo Forza Italia avrebbe addirittura votato contro la fiducia e Fratelli d'Italia si sarebbe astenuta. Un quadro che presagiva una definitiva spaccatura nella coalizione, con una Lega più interessata a cavalcare l’onda del successo nel tentativo di radicare il partito tra l’elettorato. Eppure, nonostante la divisione nelle aule, la coalizione dichiarò pubblicamente di voler rimane riunita in vista delle successive elezioni europee del 26 maggio 2019, dalle quali uscì ancora una volta come il blocco politico vincente.


Le europee avevano però stravolto i rapporti di forza con i quali il governo era venuto formandosi l’anno precedente. La forte ascesa del Centrodestra, contestualmente all’inizio della vertiginosa discesa del M5S, inchiodò il Governo Conte I alle minacciose mire governative di Matteo Salvini. Così, l’8 agosto, la Lega decise di dichiarare conclusa l'esperienza legislativa con il M5S, annunciando di voler votare la sfiducia del Premier Conte per andare il prima possibile a nuove elezioni. Il tentativo di scacco matto si trasformò però in un clamoroso autogol. Il Movimento 5 Stelle, assieme ai partiti della coalizione di Centrosinistra, si accordarono per far nascere un nuovo governo con Conte nuovamente Premier, che vide ufficialmente la luce il 5 settembre 2019. Il Centrodestra in toto si chiamò fuori dal voto di fiducia, decidendo quindi di relegarsi all’opposizione.


L’esperienza fu però di breve corso, poiché il 13 gennaio 2021 Matteo Renzi e Italia Viva annunciarono il voto di sfiducia al Conte II, portando alle dimissioni del Premier ed aprendo alla successiva crisi di governo. Inizia qui, in groppa all’ennesimo scisma, la forte e, forse, incurabile ferita all’interno della coalizione. Al termine della crisi l’incarico di formare un governo viene rimesso dal Presidente della Repubblica nelle mani di Mario Draghi, ex Presidente della Banca centrale europea. Seppur una sostanziosa parte della politica italiana si auspichi un governo di unità nazionale, i fatti finiscono invece per essere profondamente diversi. E tra gli attori nefasti di questa rottura vi fu proprio uno dei partiti della coalizione: Fratelli d’Italia. È infatti duro scontro tra i leader di Centrodestra, tanto che ognuno decide di presentarsi singolarmente alle consultazioni col Premier incaricato Draghi. La spaccatura è forte all’interno dell’alleanza e le posizioni troppo distanti. Alla fine il nuovo governo ottiene l’appoggio di quasi tutti i partiti nazionali, fra cui Lega e Forza Italia, ma non quello di Fratelli d’Italia, fieramente schierato sul fronte del No. «Opposizione responsabile», dirà Giorgia Meloni; una decisione visibilmente più elettorale che ideologica, a seguito della quale, non a caso, ha preso piede la forte accelerazione di consensi che ha permesso a FdI di balzare - negli ultimi mesi - al primo posto nei sondaggi.


L’inizio della fine?


Per quanto le posizioni sul Governo Draghi non abbiano finito, almeno inizialmente, per inquinare i rapporti di collaborazione tra ‘governisti’ e ‘non-governisti’, appare innegabile quanto la scelta di FdI abbia rappresentato una sliding door potenzialmente decisiva nel creare un’inevitabile spaccatura. Oltre all’evidente (qualora si rimanesse fedeli al principio del leader scelto dalle urne) cambio di rotta dei consensi, con la leadership in mano a Giorgia Meloni, il Centrodestra si è trovato a non concordare più neanche sulle prospettive politiche. Vaccini, Green Pass, antifascismo… sono solo alcune delle posizioni sulle quali non è ammissibile una divisione se si ha l’obiettivo di governare unitariamente l’Italia. Un quadro, quello della coalizione, in cui troviamo FdI all’opposizione, il Carroccio che non sembra essere sempre propenso a dare piena fiducia al Presidente Draghi e FI, che invece resta convintamente in maggioranza. Diventa legittimo perciò iniziare a chiedersi quanto ci si senta ancora parte di un fronte comune. Un percorso in crisi che è finito per aggravarsi ulteriormente a seguito delle recenti elezioni comunali nelle maggiori città italiane, da cui la coalizione è uscita sorprendentemente ferita. Il Centrodestra ha perso con un clamoroso 5 a 0: per quanto appaia poco plausibile che la débâcle comunale possa essere il prospetto delle prossime elezioni politiche e dell’andamento nazionale di gradimento, il colpo non è stato di certo digerito, destando perciò non poche preoccupazioni. Una sconfitta che ha messo subito in allarme i vertici, spingendoli a richiedere un summit d’urgenza. Prima su tutti Giorgia Meloni, la quale ha dichiarato, al susseguirsi dei deludenti risultati dei ballottaggi, maggiore chiarezza e coesione agli alleati, convinta che la sconfitta elettorale sia frutto anche della crescente incertezza dell’elettorato che si trova davanti tre partiti con tre posizioni differenti.


Villa Grande e la resa dei conti


Il vertice di Villa Grande tra Silvio Berlusconi, Matteo Salvini e Giorgia Meloni non tarda ad arrivare. I tre leader del Centrodestra si sono visti per fare il punto dopo l’esito delle comunali. Due ore di pranzo che, agli occhi dei più, avrebbero sancito la pace: incontri settimanali tra i leader per concordare azioni parlamentari condivise, compattezza sull’elezione del prossimo Presidente della Repubblica, indisponibilità a cambiare la legge elettorale in senso proporzionale, rafforzando, al contrario, il maggioritario. Ma non si è fatto minimante cenno alla prospettiva della federazione, forse perché potrebbe anche essere vantaggioso evitare di legarsi sul lungo periodo. Più che pace, il comunicato è sembrato quindi essere una tregua a breve scadenza, fino a febbraio per la precisione, quando arriverà il momento di eleggere il Capo dello Stato. La coalizione - pallottoliere alla mano - pare abbia promesso a Berlusconi 450 dei mille voti disponibili, ai quali ne mancherebbero appena una trentina per garantire la nomina del Cavaliere. Alla fine il vertice chiesto da Giorgia Meloni si è quindi tenuto, ma la coalizione non ha purtroppo scelto cosa essere nei mesi, se non negli anni, a venire: non è stata decisa la linea da seguire, se quella del centro moderato e liberale, o quella della trazione sovranista. Avanti insieme così allora, cristallizzati nel presente e navigando a vista. Un’alleanza che sembra restare in piedi solo ed esclusivamente per il pallottoliere del Quirinale, che i due alleati di FI potrebbero muovere abilmente. E questo Silvio Berlusconi lo sa.


Quali sono, quindi, le prospettive del Centrodestra?


Quel vertice va, a ragione, ritenuto finzione e mistificazione dell’unità, fatto che non permetterà di durare a lungo. Non bastano gli incontri conviviali come quello di Villa Grande ed una parvenza di concordia tra le componenti della coalizione per nascondere le spaccature profonde. Bisognerebbe avere il coraggio di dire che, con tali premesse, l’alleanza non è distante dal giungere alla fine, forse anche per l’assenza di un federatore che abbia la volontà di ricercare ed affermare un’unità politica che sovrasti gli egoismi interni. Ma ancor di più, anziché un leader, il Centrodestra necessiterebbe di iniziare a lavorare per dar vita ad un progetto che somigli in qualche modo ad un partito unico - seppur solo formalmente -, animato anzitutto da un sentire comune più filosofico che propriamente ideologico. Forza Italia strizza l’occhio al centrismo, mentre la Lega, ritagliatasi il ruolo di ‘partito dell’indecisione’ compete con Fratelli d’Italia per riconquistare il primato sovranista: le amministrative hanno evidenziato quanto i tre soggetti non abbiano nulla in comune se non i rispettivi interessi elettorali. E, naturalmente, le decisioni su questioni nodali finiscono per trasformarsi in scelte quasi sempre contraddittorie. Una situazione, questa, fortemente dovuta all’affievolimento della figura di Berlusconi; eppure il ruolo imprescindibile del Cavaliere non è mai venuto meno. Le prese di posizione di Lega e FdI - non di rado accompagnate da pesanti dichiarazioni fuori luogo di Salvini e Meloni - oltre ad evidenziare le distanze con Forza Italia finiscono per imporre a Silvio Berlusconi ed i membri del partito un intervento d’emergenza atto a placare le turbolente acque. Quando l’ala sovranista muove scorbuticamente in una direzione, i centristi finiscono – con piena consapevolezza - per moderare e fare da pacieri, riconducendo nei ranghi le inadeguatezze e gli scivoloni degli alleati. Silvio Berlusconi non è di certo a guida della coalizione, eppure resta l'ideale pastore del gregge. Il pacificatore dei toni di cui la destra ha davvero bisogno. Questo sottace l’aspetto più importante: più che un federatore, per smettere di zoppicare gli alleati dovrebbero anzitutto trovare i propri punti in comune. Photo copyright: Quirinale

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