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  • Writer's pictureKoinè Journal

Koinè intervista: dialogo con la Prof.ssa Renata Pepicelli

Updated: Jan 8, 2022



di Lorenzo Ruffi.


Dopo essere stata al centro dei dibattiti internazionali per qualche settimana, la condizione della popolazione femminile afghana sotto il nuovo dominio dei Taliban pare essere passata decisamente in secondo piano. A tal proposito, Koinè ha deciso di gettare nuova luce su questo tema, decidendo di intervistare la Profess.sa Renata Pepicelli, docente di Islamistica e di Storia dei Paesi Islamici presso il Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa. Dopo aver completato i suoi studi in Scienze Politiche presso l’Università l’Orientale di Napoli, ha collaborato a diversi progetti di ricerca, nazionali ed internazionali, sia in Europa che in Nord Africa. Autrice di diverse opere, fra cui ricordiamo “Femminismo islamico: Corano, diritti, riforme”, pubblicato da Carocci nel 2010, e “Il velo nell’Islàm: storia, politica, estetica”, pubblicato dal medesimo editore nel 2012, Renata Pepicelli è un’importante studiosa dell’Islàm tout-court e di storia sociale del mondo arabo-islamico contemporaneo, con particolare attenzione alle questioni di genere.

Insieme alla Prof.ssa andremo ad analizzare la figura della donna all’interno del corpus coranico, cercando di decostruire la credenza diffusa che la vede totalmente subordinata alla figura dell’uomo\marito. Successivamente si discuterà della spinosa questione dell’obbligatorietà o meno del velo, ed infine andremo a parlare della figura femminile in Afghanistan, prima e dopo del ritorno a Kabul dei Talebani.


In Occidente è ormai diffuso il pensiero secondo cui la donna, all’interno della religione musulmana, è di fatto considerata inferiore rispetto alla controparte maschile. Essa è vista, dapprima, come proprietà dei padri di famiglia e, dopo il matrimonio, come oggetto personale del marito. Avvolte nei loro veli e relegate ad ambienti domestici, le donne musulmane appaiono, secondo questo racconto, come creature di rango inferiore, la cui esistenza è volta esclusivamente alla procreazione e alla servitù del marito. Ma quanto c’è di vero in questa narrazione?


Per capire il perché di questa narrazione bisogna innanzitutto specificare che il Corano, come ogni altro testo sacro, è stato interpretato in diversi modi nel corso del tempo.

Possiamo, tuttavia, affidarci all’esegesi di alcuni versetti coranici per rispondere a ciò. Nella quarta sura (le sure sono i capitoli del Corano), primo versetto, il Corano afferma che donne e uomini sono stati creati parimenti da una stessa anima. Questo versetto mostra come, almeno nell’atto della creazione, non vi fosse una gerarchia prestabilita, differentemente, ad esempio, dalla tradizione cristiana, in cui si raccontava che Eva sia nata da una costola di Adamo.

Ma ancora, in sura III, versetto 195, viene promessa la stessa ricompensa per uomini e donne in virtù delle loro buone azioni, mentre in sura IV vi è scritto che entrambi i sessi hanno diritto ad entrare in Paradiso.

Nel Corano compaiono, tuttavia, anche dei versetti che sono stati interpretati come una chiara prova della subordinazione ed inferiorità della donna rispetto all’uomo. Sempre nella sura IV, versetto 34, si dice che gli uomini sono preposti alle donne, perché scelti da Dio. Nuove esegesi smentiscono tale lettura, e affermano che questo versetto fa riferimento alle responsabilità che gli uomini hanno verso le donne in specifici momenti della vita femminile, ovvero quelli della gravidanza, parto, allattamento. Seconda questa interpretazione, gli uomini sono responsabili non in quanto giuridicamente e biologicamente superiori, ma in quanto sono tenuti ad occuparsi delle donne in questa fase dell’esistenza in cui esse sono già molto impegnate per la comunità. Ciò si iscrive nell’ottica di giustizia sociale che pervade un po’ tutto il corpus coranico, secondo cui ogni fedele deve prestare aiuto al prossimo per il bene comune della umma, la comunità islamica dei fedeli.


Il simbolo della presunta inferiorità delle donne musulmane è stato a lungo considerato il velo. Coprendo il loro volto, o in certi casi anche tutto il corpo, esse paiono defilarsi dal mondo esterno e dalla vita sociale, potendo girare a capo scoperto solo all’interno delle mura domestiche. Vi è poi la ferma convinzione che esso venga imposto dall’alto, da una gerarchia patriarcale che vede con ostilità ogni forma di emancipazione femminile. Cosa dice il Corano riguardo all’obbligatorietà o meno del velo? I processi di velamento e\o svelamento sono esclusivamente imposti dall’alto, o possono essere anche frutto di fenomeni endogeni all’interno della comunità femminile?


Prendendo sempre come riferimento il Corano, è bene andare ad analizzare due versetti riguardanti pratiche di copertura del corpo delle donne. Nella sura XXIV, versetto 31, si intima alle credenti di non mostrare le loro parti belle agli uomini al di fuori del nucleo familiare, e di coprire i seni con un velo. Per molti, questo velo (khimar) non deve solo coprire i seni, ma anche la testa, ma su questo non vi è una condivisione unanime all’interno della comunità musulmana; molte fedeli, infatti, sono convinte che non vi sia obbligo di coprire il capo per le donne, ma solo le parti intime.

Altro riferimento alla copertura del corpo lo troviamo in sura XXXIII, versetto 59, dove si chiede alle fedeli di coprirsi con un mantello (jilbab); anche qui non è indicato cosa coprire, ed il dibattito in seno alla umma resto aperto a varie interpretazioni.

Oggi l’indumento di copertura più diffuso è il velo che incornicia il volto, l’hijab. Tale parola è menzionata sette volte nel Corano, con l’accezione di separazione spaziale e visuale, ma non con l’accezione di velo. Vi è ancora un forte dibattito interpretativo su questo termine fra gli studiosi.

L’uso del velo ha vissuto fasi alterne nel corso della storia recente. Durante buona parte del Novecento è prevalso un processo di svelamento delle donne, incentivato dai contatti con gli europei durante la fase del colonialismo e dell’imperialismo, e promosso dagli stessi governi laici. Nella Turchia di Mustafa Kemal e nella Persia di Reza Shah Pahlavi si arrivò alla sua abolizione, non senza polemiche, specie in ambienti rurali.

Verso la fine gli anni settanta è invece iniziato un graduale ritorno del velo, nato, in buona parte spontaneamente, in seguito al rinnovato revival religioso nel mondo islamico, parallelo alla crescita, sul piano politico, dell’islamismo.


Durante la fine dell’Ottocento e gli inizi del XX secolo, periodo in cui gli Europei colonizzatori sono venuti maggiormente a contatto con le popolazioni musulmane che abitavano l’Impero Ottomano e non solo, uno dei principali motivi dell’azione coloniale era quello di “salvare” le donne musulmane dall’oppressione patriarcale e misogina che, secondo essi, caratterizzava la società locale. Il velo era visto dunque come elemento concreto di tale oppressione. Questa prassi, in realtà, è riscontrabile anche fra gli elementi cardine che sottostavano all’intervento americano nell’Autunno del 2001 in Afghanistan. Salvare le donne afghane dal regime brutale e retrogrado dei Talebani serviva a dipingere l’invasione come un’azione necessaria volta a far progredire e liberare l’intera società afghana. La liberazione del paese dal regime del Mullah Omar è davvero coincisa con una reale emancipazione femminile?


Sotto il regime dei Talebani le loro condizioni di vita erano terribili: le donne non avevano accesso ad alcun tipo di istruzione, vi era una rigida separazione dei sessi, né potevano lavorare. Tutto ciò ha facilitato la giustificazione dell’invasione americana in Afghanistan, non solo per sradicare le basi di Al-Qaeda, ma anche per liberare le donne dalla terribile tirannia dei Taliban. Tuttavia, reti di attiviste locali hanno denunciato il fatto che l’occupazione militare non ha aiutato ad emancipare le donne come promesso e propagandato.

Certamente va detto che nei centri urbani e nelle classi medio-alte le donne, durante la ventennale occupazione, sono potute tornare a studiare e a lavorare, seppur con diversi rischi, specialmente per le poche che riuscivano a ricoprire ruoli politici e pubblici importanti. Nelle campagne e nelle zone rurali, invece, tale processo di emancipazione ha trovato diversi ostacoli, impedendo la stessa mobilità sociale alle donne locali rispetto a quelle dei grandi centri.

RAWA, l’associazione rivoluzionaria delle donne afghane, criticava da tempo il governo afghano e la stessa occupazione americana, il cui stato di guerra nuoceva terribilmente alla popolazione locale.

I Talebani, tornati nuovamente al potere il 15 Agosto dopo il ritiro americano, avevano fatto una serie di promesse riguardo alla tutela dei diritti umani e delle donne. Essi, in realtà, sono subito venuti meno a tali promesse, chiudendo le scuole e le università femminili, e rimuovendo tutte le donne da ogni incarico pubblico. Ad oggi, solo nella provincia di Herat le scuole femminili sono state riaperte, dopo più di tre mesi dalla presa di Kabul.

Il ministero dedicato alle donne è stato prontamente sostituito da un dicastero relativo al “controllo delle virtù e della morale pubblica”.

Piccoli gruppi di donne sono scese coraggiosamente in piazza per protestare contro tali provvedimenti, ma la repressione era, ed è, all’ordine del giorno.


L’attivismo e le proteste di questi piccoli gruppi di donne afghane hanno caratterizzato le prime fasi del regime talebano, ma ora che i riflettori si sono spenti su questo contesto c’è il rischio che tale lotta venga dimenticata in Occidente. L’attivismo delle femministe afghane può facilitare la creazione di una rete di aiuti transnazionale che permetta di venire incontro a loro e a tutte le categorie a rischio sotto l’Emirato Islamico?


Purtroppo molte di queste voci sono state silenziate in primis dai Talebani stessi, e, complice il fatto che l’Afghanistan non è più al centro dei nostri riflettori come prima, anche la lotta di queste donne è passata in secondo piano.

Il compito più importante resta quello di mantenere vive le relazioni con le protagoniste sul luogo e con quelle della diaspora, con le associazioni più attive per la difesa dei diritti delle donne come RAWA, che operano sia in patria clandestinamente che all’estero, specie nei campi profughi in Pakistan. Non bisogna però concentrarci esclusivamente sull’ Afghanistan, perché ci sono moltissime altre donne che cercano di fuggire da contesti altrettanto pericolosi e repressivi.

Campagne di sostegno andrebbero estese anche a loro, e non solo su un contesto su cui si sono accesi temporaneamente i riflettori. Esse non devono essere fatte sulla cresta di un’onda emotiva, ma devono prevedere tempi lunghi d’azione. Non devono avere approccio salvifico, ma devono porsi in una posizione d’ascolto e capire le reali problematiche del contesto da cui si fugge. Il diritto alla fuga deve essere garantito a tutti gli esseri umani, non solo alle donne. Molti uomini rischiano la vita sotto il regime talebano, e molti sono padri, fratelli e mariti di queste donne, i cui legami andrebbero inevitabilmente spezzati senza piani d’aiuto anche per loro.

Quando parliamo di aiuti e vicinanza è necessario, dunque, ridiscutere le forme attraverso cui organizziamo tali forme di solidarietà, affinchè nessuno ne rimanga escluso o esclusa.





Copyright All Images: Corriere della Sera

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