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  • Writer's pictureKoinè Journal

L'8 marzo non è oggi. Riflessioni da un'altra prospettiva

Updated: May 17, 2022


di Koinè.


Questo giornale nasce per portare avanti battaglie come queste. Battaglie che nel 2022 non dovrebbero essere più combattute, ma di cui purtroppo c'è ancora un disperato bisogno. L'8 marzo è un simbolo, ma non può limitarsi ad un solo giorno.


Annachiara Ruzzetta


Devo essere sincera. Quando mi hanno chiesto di scrivere una riflessione, in quanto donna (she/her), sul significato dell’8 marzo, mi sono subito posta la questione della mia legittimità, e di cosa potessi effettivamente apportare che già non sia stato detto. Lungi dall’essere accusata di rinnegare anni e anni di lotte femministe, questa ricorrenza si è spesso trasformata in – passatemi il termine - uno “shitshow” di retorica. Per questo motivo, ho deciso subito di non voler essere la protagonista di questo articolo. Perché oggi, 8 marzo, non è una festa, nientemeno che la “mia” festa. È bensì un momento di riflessione sui traguardi raggiunti e su quelli da raggiungere; sui modelli disegnati dalla società patriarcale che minacciano i vari femminismi, da quellointersezionale a quello decoloniale, e sulle politiche che occorrono per farvi fronte. Da quando la ricorrenza è stata istituita un secolo fa ci sono stati, certamente, dei passi avanti. Tuttavia, quelli ancora da compiere sono tanti, troppi ed urgenti. Quindi, c’è ancora bisogno dell’8 marzo? . Ma c’è bisogno degli auguri e delle mimose? No. Al contrario, abbiamo un urgente bisogno di andare oltre i confini delineati da facili retoriche esclusorie che perpetuano differenze di genere, classe, etnia. Abbiamo bisogno di re-visionare la storia del femminismo occidentale, per capirne il vero compito in un mondo globalizzato, capitalistico e neoliberale, in cui lo sfruttamento delle classi subalterne non può più passare inosservato. Partendo dalla consapevolezza che le lotte femministe richiedono di affrontare lo Stato, il capitale e il patriarcato in una maniera intersezionale, Françoise Vergès, politologa e attivista, elabora la sua proposta di “femminismo decoloniale. I femminismi di politica decoloniale, secondo Vergès, sono quelli che contribuiscono alla lotta iniziata da secoli dalle donne subalterne, dagli indigeni autoctoni, dagli schiavi, dalla comunità LGBTQI+ e da tutti gli altri emarginati dalla società patriarcale, borghese, imperialista e capitalista per affermare il proprio diritto all'esistenza. Vergès vede nelle femministe decoloniali quelle donne, e non solo, che vanno al di là del concetto convenzionale di femminismo e che sono coscienti che tanto in Europa quanto in America del Sud, in Asia e in Africa si lotta contemporaneamente contro il neoliberalismo, contro il femminicidio, si rivendicano i diritti dei popoli autoctoni a stare sulla propria terra, ci si interessa per le questioni ambientali, allo sfruttamento, alla vulnerabilità di classe, alle questioni di genere, al razzismo. Ma, soprattutto, vedono come tutto questo si interseca e che la lotta delle donne, non è molto diversa da tutte quelle altre categorie stigmatizzate e sottomesse al patriarcato, al neocolonialismo, al consumismo, al capitalismo (storicamente connesso alla schiavitù) e al neoliberalismo. In quest‘ottica e nel contesto specifico latino-americano, Julieta Paredes, attivista femminista che si definisce comunitaria e aymara boliviana, conia il concetto di entronque patriarcal ( “innesto del patriarcato”) in cui fa riferimento all’incontro e alla fusione tra il sistema patriarcale precoloniale e quello occidentale. Fondatrice nel 1992, insieme alla sua compagna dell’epoca, María Galindo, e a Mónica Mendoza, del collettivo anarchico-femminista Mujeres Creando Comunidad, il movimento utilizza tuttora la creatività come principale strumento di lotta in un’ottica di continuo movimento e contestazione. Il lavoro di Paredes si incentra sul rapporto tra femminismo occidentale e comunitario, sul concetto stesso di comunità, la richiesta di rappresentanza, di visibilità e di voce delle donne indigene e una lucida consapevolezza dell’esistenza di sistemi di oppressione patriarcale anche prima della – devastante – colonizzazione. Paredes ha sempre sostenuto la necessità di mettere in pratica la decolonizzazione. Il colonialismo, a suo avviso, non è qualcosa da studiare, ma da riconoscere e decostruire con l’azione politica e sociale. Il femminismo comunitario di Paredes è, in sintesi, un percorso politico che recupera la lotta delle antenate, attualizzandola nella consapevolezza che la colonizzazione è ancora in atto e costruendo strumenti e spazi di lotta.


Essere femministe decoloniali significa, dunque, rilevare delle connessioni tra esperienze situate nei più diversi angoli del mondo e ri-scrivere le strutture in cui i nostri mondi sono pensati, immaginati, creati. Essere femministe decoloniali vuol dire lottare contro l’usura dei corpi della caring class che si spaccano la schiena e si intossicano con prodotti chimici per tenere pulito il nostro mondo bianco e borghese, un lavoro indispensabile per il funzionamento di qualunque società ma che, allo stesso tempo, deve rimanere invisibile. Essere femministe decoloniali dovrebbe essere un esercizio costante, di tutti e per tutti.


Io non ho la pretesa né di dare delle risposte definitive, né giudizi non richiesti che non mi pertengono, in quanto osservatrice esterna. Piuttosto, vorrei far sorgere delle domande e dei dubbi. Per questo motivo ho dedicato questo breve spazio a delle pensatrici che hanno speso la propria vita a cercare di decostruire il privilegio di altri. Le decolonial, c’est de voir comment la société demeure structurellement raciste, structurellement sexiste, parce que les deux vont très souvent ensemble - Françoise Vergès


Bibliografia consigliata


- Françoise Vergès (2019), Un féminisme décolonial, Paris, La Fabrique - Shulamith Firestone (1970), The Dialectic of Sex, New York, Willam Morrow and Company - Audre Lorde (1984) The Master's Tools Will Never Dismantle the Master's House, Penguin Books Limited

- Gayatri Spivak (1988), Can the Subaltern Speak?, in C.Nelson, L. Grossberg (eds.), Marxism and the Interpretation of Culture, Basingstoke, MacMillan



Purneet Kaur


“Da una donna nasciamo, da una donna siamo concepiti, dalla donna è la civiltà continuata. Quando la donna muore, la donna è cercata. È dalla donna che l'intero ordine sociale è mantenuto. Allora perché chiamarla cattiva? Da lei sono nati i Re”.

Vorrei riportare questa celebre frase di Guru Nanak Dev Ji, il guru fondatore della mia religione Sikh, che nel quindicesimo secolo iniziò una rivoluzione contro molte pratiche erronee, tra le quali la paradossale percezione della figura della donna in India.

Vorrei citare questa frase per spiegare che, nonostante l’India sia uno dei paesi con più seguaci religiosi al mondo, e nonostante le religioni indiane abbiano storicamente attribuito un ruolo molto importante alla donna, la società è paradossalmente lontana dal riconoscere alla donna il suo ruolo di "Devi".


Nonostante le donne fossero estremamente venerate nell’India antica e nell’induismo già dall’epoca vedica come forze creatrici dell’universo, in pratica erano considerate di gran lunga inferiori e soggette all’uomo. Con la progressiva diffusione della pratica della poligamia, del sati pratha, del sistema della dote e dell'infanticidio femminile, la donna perse il suo valore religioso, tanto che in assenza del figlio maschio incaricato all’accensione del rogo funerario dei genitori, l’anima dei genitori si sarebbe reincarnata infinitamente.


Anche nel 21esimo secolo, la posizione della donna non è diversa: seppur il Pantheon induista vanti una maggioranza di divinità femminili e la religione Sikh sia stata fondata come rivoluzione all’antiquata percezione della donna, le stesse donne Sikh oggi non possono leggere i testi sacri nel Tempio d’Oro, il principale sito religioso dei Sikh.


Anche se le donne si stiano lentamente emancipando ed occupando posizioni sempre più alte, non c’è un singolo Stato in India che possa vantarsi di offrire pari opportunità ad entrambi i sessi: basta guardare alle statistiche sull'occupazione, alla parità retributiva e alla rappresentanza politica di uomini e donne per vedere quanto i progressi in termini di uguaglianza di genere siano lontanamente uniformi, specialmente nelle zone più rurali.


Io stessa, ad esempio, sono la prima ragazza nel mio villaggio rurale del Punjab in India ad avere la possibilità di andare all’Università e a sognare un futuro da donna indipendente: mentre sono grata per queste opportunità, mi rendo conto di quanto io stata fortunata e riconosco quale bene prezioso sia l’educazione e quanto lavoro ancora sia richiesto nelle parti più rurali del mondo, dove le donne non sono nemmeno a conoscenza di quali siano i loro diritti.


In questa giornata internazionale della donna, mentre celebriamo le conquiste politiche, sociali ed economiche delle donne, il mio pensiero va ai milioni di donne che soffrono l’ingiustizia e l’ignoranza.

Il mio pensiero va alle mie zie, alle mie cugine, alle mie compaesane che ancora lottano per essere trattate con dignità, per le pari opportunità, per il loro diritto all’istruzione.

Il mio pensiero va a tutte quelle donne costrette a lavori domestici, alle bambine obbligate a sposarsi in età precoce, alle ragazze private dei loro diritti fondamentali.


Credo sia ora che le donne parlino per i loro diritti da sole, diventino indipendenti e capaci di combattere per loro stesse.



Cecilia Pugliese


Personalmente trovo alquanto complesso parlare di femminismo, uguaglianza in un momento storico in cui a molti pace e diritti sono stati negati perché a dominare è il terrore della guerra. Risulta difficile costruire pensieri che, sotto giudizio della propria coscienza, sembrano perdere spessore e priorità se confrontati con quanto succede nel nostro continente. È per me anche complesso parlarne senza cadere in qualcosa di banale, scontato, che non sia già stato letto. Sono stati scritti libri, girati film, serie tv su donne che hanno fatto la storia, raggiunto scoperte rivoluzionarie, donne che hanno cambiato il modo di pensare e di agire nel mondo. Molti autori hanno affrontato il tema della disparità di genere, analizzandolo da diversi punti di vista. Posta dunque di fronte al problema di capire cosa aggiungere all’immensa mole di riflessioni, ho deciso di lasciare questo spazio al racconto di due storie di attiviste che combattono per la loro terra e per un futuro che non debba scontare gli errori del passato. Sono donne che, lontano dalla luce dei riflettori, lottano per una quotidianità che sia rispettosamente rivolta al futuro, rischiando anche di perdere la propria libertà.

Disha Ravi,22 anni di origine indiane, combatte quotidianamente per il cambiamento climatico. Come tanti altri ragazzi ha iniziato a partecipare agli scioperi lanciati da Greta Thunberg, comprendendo l’estrema necessità di cambiare rotta nel rapporto uomo- ambiente per non pagare un prezzo troppo grande. A Bangalore vive in una zona che viene completamente sommersa quando le piogge si fanno troppo fitte e ultimamente tutto questo avviene con molta frequenza. Disha a febbraio è stata però arrestata perché, secondo le autorità, ha rilasciato su twitter un documento che spiegava agli agricoltori indiani come protestare efficacemente contro la liberalizzazione del commercio agricolo, alimentando volutamente le tensioni nel paese. Disha aveva semplicemente espresso il suo sostegno ai contadini, invitando la gente a firmare petizioni, condividere e partecipare alle manifestazioni di protesta.

Nonhle Mbuthuma, attivista sudafricana, combatte per difendere la terra dei suoi avi. Si batte da tempo contro una società mineraria che estrae titanio dai territori del popolo Amaniba. Quella terra che le era stata lasciata, dopo anni di combattimenti, per poter vivere in pace è nuovamente attaccata e prosciugata dal desiderio di ricchezza e dall’avidità. Nonhle, insieme ad altri rappresentanti del suo popolo, hanno creato l’Amadiba Crisis Committee, per poter difendere le proprie foreste, spiagge e per far sì che le loro voci vengano ascoltate. Il nome di Nonhle è finito in una lista nera, riceve continue minacce di morte ed è anche sopravvissuta ad un attentato. Nonostante tutto continua a difendere il terreno dei suoi nonni, per poterlo tramandare a generazioni future.

Personalmente ritengo che finché determinate questioni saranno circoscritte in tempi e spazi definiti i problemi continueranno a persistere. Finché non vi sarà una presa di coscienza comune del fatto che la disparità, i cambiamenti, le ingiustizie riguardano chiunque ogni giorno, tutte le parole e discorsi fatti non avranno raggiunto effettivamente il loro scopo: portare ad una effettiva trasformazione del pensiero.

Chimamanda Ngozi Adichie in uno dei suoi discorsi dice “La cultura non fa le persone. Sono le persone che fanno la cultura”. A seguire: “esiste un problema con il genere, così come com’è concepito oggi e dobbiamo risolverlo, dobbiamo fare meglio. Tutti noi, donne e uomini, dobbiamo fare meglio”.



Image Copyright: Eugene Gordon-The NY Historical Societyu / Getty Images











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