di Valeria Angeloni.
L’espressione “politicamente corretto” è ormai entrata nel vocabolario comune di moltissime persone per l’ampio uso che se ne fa. Tuttavia, tale dicitura è spesso utilizzata in modo improprio per fare riferimento a tutte le politiche – linguistiche e non – che mirano al raggiungimento di una società più inclusiva. In realtà la storia del “politicamente corretto” è tutt’altra.
La dicitura “politically correct” risale agli anni Settanta e nasce all’interno di movimenti femministi e di sinistra radicale negli Stati Uniti. Ruth Perry, docente di letteratura attiva negli ambienti femministi, sostiene che l’espressione “politicamente corretto” derivi da un’erronea interpretazione di un discorso di Mao del 1957, tradotto in inglese “On the Correct Handling of Contradictions Among the People”. È da questo discorso che si sarebbe risaliti all’aggettivo “correct”, utilizzato in tono ironico negli ambienti di sinistra statunitensi per deridere le opinioni moraliste dei compagni, nel tentativo di scongiurare il rischio di un’ “eccessiva ortodossia”. Perciò, il “politicamente corretto” nasce come una battuta goliardica tra compagni di sinistra e le sue caratteristiche non sono mai state definite. È dagli anni Novanta in poi che la dicitura esce dagli ambienti che l’hanno coniata e si espande, fino a divenire di pubblico dominio. A partire da questo momento, il “politically correct” viene impugnato dalla destra, che lo svuota del suo significato originale e lo attribuisce al piano politico della sinistra di controllare le università e le istituzioni culturali. Tuttavia, anche in questo caso, coloro che si scagliavano prontamente contro il politicamente corretto non sarebbero riusciti a darne una definizione: perché una definizione, di fatto, non esiste.
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Presto la critica della destra al fantomatico politicamente corretto ha coinvolto il linguaggio, quello che si dice e come lo si dice. Dagli anni Novanta in poi, l’espressione “politicamente corretto” è stata presa e svuotata del proprio significato originale e trasformata in un fantomatico nemico contro cui combattere per garantire la libertà di espressione. La figura di Trump incarna perfettamente quella dell’uomo di destra che si lascia andare a dichiarazioni fortemente discriminatorie, rivendicando di non aderire al “politically correct”, pur non sapendo di cosa si tratti.
In altri casi, le critiche al linguaggio politicamente corretto che sono sorte erano in linea con il significato e la storia del “politically correct”, cioè l’ipocrisia che si celava dietro le affermazioni fin troppo moraliste dei compagni. Ad esempio, Natalia Ginzburg in Non possiamo saperlo (1989) critica l’introduzione delle espressioni “non vedente” e “non udente” come esempio di linguaggio politicamente corretto. In questo caso, Ginzburg critica tali espressioni poiché esse rappresentano una misura “di facciata”, in contrasto con l’assenza di aiuti concreti da parte della società alle categorie sopra menzionate.
Entrambi i casi hanno tuttavia contribuito a creare dal nulla il binomio linguaggio-politicamente corretto, che dagli anni Novanta non ha più abbandonato l’opinione pubblica. Oggi, il politicamente corretto viene spesso tirato in ballo quando si parla di linguaggio inclusivo.
Cosa si intende per linguaggio inclusivo?
L’università del Queensland definisce il linguaggio inclusivo come un “linguaggio che promuova il rispetto e l’inclusione di tutte le persone. È un linguaggio privo di umiliazioni, insulti e discriminazioni sulla base dell’appartenenza ad una data categoria o di una particolare caratteristica”.
Affinché il linguaggio utilizzato possa essere definito “inclusivo”, esso deve soddisfare i requisiti sopra citati, prendendo in considerazione numerosi parametri: genere, nazionalità, classe sociale, età, e così via. Ad esempio, in un’ottica di inclusività è bene tenere conto della razzializzazione di certe etnie ed evitare di utilizzare parole ed espressioni che offendono l’intera categoria (i cosiddetti slur). Allo stesso modo, è indicato adoperare un linguaggio (il più possibile) neutro e libero da demarcazioni e stereotipi di genere.
Nel corso degli anni, le categorie storicamente marginalizzate hanno iniziato un processo di riappropriazione del lessico, al fine di rivendicare i propri diritti e reclamare la propria inclusione nella società. Ne è un esempio la parola inglese queer, il cui significato “strano, bizzarro” è stato associato dal 1922 alla malattia e all’omosessualità (solitamente maschile). Negli anni Novanta, la comunità LGBT si è riappropriata del termine, svuotandolo delle connotazioni negative del passato e rivendicandolo come un termine di “differenza positiva” (Spallaccia 2020).
Ma perché è così importante il linguaggio che usiamo?
Linguaggio e realtà potrebbero apparire due sfere completamente scollegate tra loro. Al contrario, la loro influenza reciproca si manifesta sotto molte forme. L’esempio più evidente dell’influenza della realtà sul linguaggio è quello dei proverbi. I proverbi possono essere definiti come “frasi generalmente diffuse che contengono perle di saggezza, verità generali ed opinioni tradizionali, espresse in modo metaforico, fisso e facilmente memorizzabile, che vengono tramandate di generazione in generazione” (Mieder in Gevorgyan 2009:215). Diversi studi condotti in contesti europei (Lomotey et al. 2020) ed extra-europei (Gyan et al. 2020) hanno dimostrato che l’esistenza di proverbi sessisti, come “la bellezza di una donna è un vanto per il marito” o “il successo per un uomo è quello di aver guadagnato più di quanto sua moglie riesca a spendere” derivi da una visione della società in termini gerarchici e dalla ricorrente oggettificazione e sessualizzazione della donna.
Il rapporto lingua-realtà è un rapporto reciproco. Infatti, allo stesso tempo il linguaggio e le sue strutture influenzano la realtà e la percezione del mondo dei suoi utilizzatori. Tale teoria è chiamata ipotesi della relatività linguistica, o ipotesi di Sapir-Whorf. Nel corso degli anni, sono stati condotti diversi studi a supporto dell’ipotesi, soffermandosi su aspetti linguistici di volta in volta differenti. Ad esempio, è stato dimostrato l’impatto che il genere grammaticale di una specifica lingua può avere sui parlanti della stessa. Uno studio ha sottoposto la parola “chiave” a parlanti spagnoli e tedeschi e ha chiesto loro di scrivere gli aggettivi che, nella loro concezione, descrivessero al meglio la parola proposta. Gli aggettivi scritti dai parlanti tedeschi sono “pesanti, dure, metalliche, utili”; invece, i parlanti spagnoli hanno risposto con “dorate, piccole, lucide, graziose”. La differenza tra i due insiemi di aggettivi proposti è parallela alla differenza grammaticale delle due lingue. Infatti, la parola chiave in tedesco è di genere maschile – il che spiega gli attributi tradizionalmente associati alla mascolinità, quali la durezza e la forza – mentre in spagnolo è femminile. Tale ricerca, come molte altre, ha suggerito l’influenza di una struttura linguistica – il genere grammaticale, in questo caso – sulla percezione del mondo dei suoi parlanti (Boroditsky 2003).
Non sono soltanto gli aspetti grammaticali di una lingua ad influenzare la realtà. Infatti, ciò avviene nel quotidiano molto più spesso di quanto pensiamo: senza rendercene conto, ciò che diciamo ha un effetto diretto sulla realtà. Tale concetto è stato teorizzato dal linguista J.L. Austin negli anni Cinquanta. Egli distingue tra enunciati constativi ed enunciati performativi: i primi sono tutti gli enunciati che constatano qualcosa e che possono essere giudicati come veri o falsi. La frase “Giovanni mangia una mela” è un esempio di atto constativo, in quanto essa si limita a descrivere una situazione, che può essere considerata vera o falsa. Al contrario, gli atti performativi non possono essere giudicati secondo i parametri del vero-falso, in quanto essi permettono di compiere l’atto nel momento stesso dell’enunciazione. L’esempio riportato da Austin è la frase “Battezzo questa nave Queen Elizabeth”: la frase ha un effetto nella realtà nel momento stesso in cui essa viene pronunciata, in quanto da quel momento la nave si chiamerà davvero Queen Elizabeth.
La dicotomia constativi-performativi viene successivamente abbandonata da Austin, che non riesce a stabilire una linea netta per differenziarli. In seguito, egli sviluppa la teoria degli atti linguistici, secondo la quale ogni enunciato ha tre forze: locutoria, illocutoria e perlocutoria. Mentre le prime due si riferiscono a fattori intra-linguistici, la terza ha un carattere specificatamente extra-linguistico. Essa corrisponde alle conseguenze che l’atto linguistico ha sull’ascoltatore e, più in generale, sulla realtà circostante la conversazione.
Pertanto, affermare che ogni atto linguistico ha una forza perlocutoria equivale a sostenere che tutto ciò che diciamo ha un effetto sul parlante e sulla realtà. è in ragione di ciò che linguaggio e realtà non possono essere considerati come sfere a sé stanti. Quindi, nella pratica, come si costruisce un linguaggio inclusivo?
L’italiano inclusivo
L’italiano può essere considerato una lingua inclusiva? Per come è utilizzato oggi, la risposta è no. L’italiano, infatti, è ancora denso di strutture e regole morfosintattiche e lessicali che sono fonti di discriminazioni (Sabatini 1987, Giusti 2022).
La specificità della lingua italiana è una conseguenza diretta della sua derivazione classica. Del greco e del latino rimangono il genere maschile e femminile, mentre il neutro è confluito nel sistema binario e ad esso si è adattato, scomparendo definitivamente (Giusti 2022). Al livello morfosintattico, l’italiano è una lingua dal genere morfologicamente marcato, cioè i due generi grammaticali devono essere segnalati in tutti i casi in articoli, pronomi, aggettivi, e così via. Tale sistema mal si accorda con le molteplici soggettività che non rientrano nel binarismo di genere, smentito in passato anche sul piano scientifico e biologico (Fausto-Sterling 1993, Bernini 2017). Per questo motivo, riuscire a raggiungere un livello di neutralità tale da rendere il linguaggio più inclusivo possibile richiede delle modifiche strutturali significative. Tra le possibili strategie vi sono l’uso dell’asterisco (*) o della x o della chiocciola (@) o dello schwa (ǝ) al posto delle desinenze che marcano il genere grammaticale. Tali proposte sono state fortemente criticate sia per questioni di leggibilità, soprattutto per persone con disturbi specifici dell’apprendimento o disabilità visive o uditive. In questo caso, non si è ancora trovata una soluzione che riesca a neutralizzare la lingua senza compromettere la leggibilità e la fruizione della stessa. Tuttavia, è bene sottolineare che la scelta individuale di comunicare in modo più inclusivo deve essere calcolata sulla base del contesto comunicativo, tenendo a mente l’obiettivo dei propri enunciati (forza illocutoria).
Da un punto di vista lessicale, l’esempio più evidente di strutture discriminatorie è nei nomi di mestiere, spesso declinati al maschile anche nel caso in cui a svolgere la professione sia una donna. Mentre alcune forme quali “maestra” o “infermiera” sono serenamente accettate e utilizzate senza pensarci troppo, altre quali “architetta” o “avvocata” sono spesso causa di diatribe e successivamente scartate in favore della loro forma al maschile. C’è chi considera più prestigiosa la forma maschile delle professioni, sottolineando una profonda asimmetria. Ed è per questo che molte direttrici d’orchestra vogliono essere chiamate “direttori” e che la prima presidente del consiglio donna della storia d’Italia preferisca essere chiamata “il presidente”. È bene che tali scelte individuali siano rispettate in toto, ma è importante sottolineare che esse sono la continuazione diretta di strutture che riflettono un passato particolare. Si tratta di un passato in cui le donne non erano solite svolgere mansioni che non si addicessero alla loro natura materna, come la maestra che si prende cura dei bambini e l’infermiera dei malati. Perciò, perpetuare tali asimmetrie oggi equivale a sottolineare che sì, le donne possono avere qualsiasi occupazione esse vogliano (per quanto concesso dal soffitto di cristallo) ma in fondo quello non è mai stato il loro posto. Un’analisi estremamente accurata di tale fenomeno è stata messa per iscritto negli anni Ottanta da Alma Sabatini, nelle sue Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana. La parola Raccomandazioni suggerisce già dal titolo l’intento di Sabatini, che non è quello di dettare legge sull’uso dell’italiano. Infatti, l’ottica adottata rifiuta il prescrittivismo limitandosi a fornire delle linee guida a chiunque voglia approfondire il funzionamento della lingua italiana per farne un uso più consapevole, ma non necessariamente inclusivo.
Oggi, il dibattito sull’inclusività della lingua è estremamente vivo, a livello nazionale quanto internazionale. L’adozione del femminile generico e sovraesteso da parte dell’Università di Trento ha suscitato non poco scalpore. La natura del gesto è chiaramente provocatoria e ha come scopo quello di sottolineare quanto il maschile generico e sovraesteso non sia altro che una convenzione. Infatti, rovesciando la regola il risultato sembra bizzarro e fuori luogo. Perciò, è bene ricordare che l’utilizzo del femminile come proposto dall’università di Trento non è la soluzione all’inclusività della lingua, ma può servire come incentivo per comprendere che nessuno dei due generi grammaticali può essere arbitrariamente scelto a sostituirne uno che non esiste, cioè il neutro.
La questione del linguaggio inclusivo ha motivo di esistere perché l’italiano è una lingua viva, mantenuta tale dai suoi parlanti. Adottare un’ottica esclusivamente prescrittiva e affermare che nessuna regola o struttura può essere cambiata è perciò fuori luogo. Un esempio evidente è l’ingresso costante nel vocabolario di parole prese in prestito da altre lingue. Tale fenomeno è conseguenza diretta della globalizzazione e, sebbene alcuni Stati abbiano politiche linguistiche più rigide al riguardo, è sempre più complesso bloccare questo flusso. È il caso del francese con la sua Académie Française, un organo istituzionale preposto al monitoraggio della lingua che tenta, mal riuscendo, di limitare i forestierismi. L’evoluzione dell’italiano, così come di ogni altra lingua viva, dipende dall’uso che la comunità linguistica ne fa. E se questo uso dovesse cambiare nel corso del tempo in risposta ai cambiamenti sociali la lingua cambierà con esso.
Bibliografia, sitografia
-Bernini L. (2017). Le Teorie Queer: un’introduzione. Milano; Udine: Mimesis
-Boroditsky L., L.A. Schmidt and P. Webb (2003). 4. “Sex Syntax and Semantics”. In Gentner, D. and S. Goldin‐Meadow. Language in Mind: Advances in the study of language and thought. 61-80. http://ci.nii.ac.jp/ncid/BA62019908
Cose spiegate bene. Questioni di un certo genere. Iperborea, 2021, pp. 26-33.
-Fausto-Sterling, A. (1993). The five sexes. The Sciences, 33: 20-24 https://doi.org/10.1002/j.2326-1951.1993.tb03081.x
-Gevorgyan, K. (2009). “On the Cultural Peculiarities of Proverbs and Their Classification”. Armenian Folia Anglistika, 5(1-2 (6)), 214-219.
-Giusti G. (2022) “Inclusività nella lingua italiana: come e perché. Fondamenti teorici e proposte operative”. In DEP. DEPORTATE, ESULI PROFUGHE, 48. https://hdl.handle.net/10278/5001231
-Gyan, C., E. Abbey and M. Baffoe (2020). “Proverbs and Patriarchy: Analysis of linguistic prejudice and representation of women in traditional Akan communities of Ghana”. Social Sciences, 9(3), 22. https://doi.org/10.3390/socsci9030022
-Lomotey, B. A., S. Chachu (2020). “Gender ideologies and power relations in proverbs: A cross-cultural study”. Journal of Pragmatics, 168, 69-80.
-Spallaccia, B. (2020) “Dai Women’s Studies alle teorie queer: una panoramica sugli studi di genere”, in Adriano Ferraresi, Roberta Pederzoli, Sofia Cavalcanti, Randy Scansani (eds.) Metodi e ambiti nella ricerca sulla traduzione, l’interpretazione e l’interculturalità – Research Methods and Themes in Translation, Interpreting and Intercultural Studies, MediAzioni 29: A83-A102, http://www.mediazioni.sitlec.unibo.it, ISSN 1974-4382.
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