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Writer's pictureKoinè Journal

Saltburn (2023)


di Stefania Chiappetta.


Inizia con una confessione Saltburn, il ritorno già cult di Emerald Fennell nel duplice ruolo di regista e sceneggiatrice, aprendo – forse addirittura squarciando - il sipario del film sull’epilogo di un vecchio racconto, il cui avvio affonda le radici nella calda estate inglese del 2006. Così un discorso rivelatorio finirà per diventare una guida agli eventi del film, favorendo il flashforward narrativo e la conoscenza dei personaggi protagonisti. Il montaggio frenetico, ipnotico, che anticipa in pochi secondi sequenze non ancora viste ma già successe, intervalla le parole pronunciate ad alta voce per confonderle nella penombra della prima inquadratura, statica, stretta sul viso di un giovane uomo, Oliver (Barry Keoghan): “Io non lo amavo” sentenzia in modo diretto allo spettatore, e tutto prende forma.


Saltburn è un viaggio a ritroso che, con la carrellata fissa sull’andatura goffa di Oliver, segue l’arrivo al suo primo anno ad Oxford, isolandolo figurativamente nel nuovo ambiente universitario, ritagliandogli un posto che non lo soddisfa, lontano dal centro nevralgico del microcosmo. Un centro che, grazie alla simbologia registica di Emerald Fennell, si concretizza nel corpo di Felix Catton (Jacob Elordi), un ragazzo ricco, disponibile, bello, perennemente circondato da persone che si “vendono” per poter entrare nelle sue grazie, per godere della sua compagnia. Nella coralità studentesca di Oxford, che segue le logiche delle classi d’appartenenza nell’Inghilterra dei primi anni 2000’, Oliver è all’apparenza un ragazzo solitario e stravagante, eppure un’aura ambigua si affianca alla sua figura. Nella compostezza stilistica della messa in scena, incorniciata da una fotografia vivida e penetrante, l’immagine del ragazzo è frammentata, specchiata nei riflessi degli oggetti scenici (finestre, specchi, saloni), pedinata nelle continue occhiate nascoste che lancia a Felix e al gruppo di amici. Sembra possedere una duplice personalità Oliver, che infesta in modo sinistro gli spazi del campus, nascosta sotto strati di gentilezza melensa; un’intuizione questa, che non verrà espressamente enunciata, ma solo suggerita – anticipata - grazie alla regia partecipe e pensata.


Guidati da questo strano presagio, Oliver e Felix sono destinati ad incontrarsi e stringere un rapporto d’amicizia, scavalcando la distanza sociale che li divide. Il ragazzo non piace a nessuno, anzi infastidisce con il suo vestiario poco curato, e la silenziosa compostezza che è solito assumere. Eppure, la storia drammatica del suo passato ed il recente lutto subito, pesano talmente tanto nella vita perfetta di Felix che non può lasciarlo solo nell’estate che incombe. La strada verso lo svelamento di Oliver comincia a compiersi, accompagnata da un invito ad entrare, una porta aperta verso lo sfarzoso castello di Saltburn, dimora di Felix e della sua ricchissima famiglia.


Subisce una lenta virata Saltburn, incrementata proprio dal cambio di location che abbandona gli spazi studenteschi per abbracciare, attraverso i movimenti di macchina, le sale del castello, il ricco arredamento, la pittoresca flora umana che lo abita. A poco a poco, avvolto dal peso della nobile stirpe dei Catton, Oliver comincia a far breccia nel cuore della famiglia, passando tra i suoi componenti con estrema cura, ponderando la sua scalata sociale come un contemporaneo Georges Duroy uscito dalle pagine di Guy de Maupassant (Bel Ami, 1885).


Vediamo il ragazzo chiacchierare con la glaciale e bellissima lady Elspeth (Rosamund Pike), la matrona che tradisce una fragile ansia per le brutture della vita. Sfoderare la sua conoscenza delle ricercate porcellane del castello, per impressionare il gusto di Sir. James (Richard E. Grant). Sedurre abbandonando la gentilezza e la goffaggine, Venetia compromettendo il posto di figlia\sorella che occupa la ragazza.


Ogni membro della famiglia Catton diviene per Oliver un antro di carne in cui affondare i denti, consumandolo dall’interno come fanno i parassiti, annullando continuamente le distanze corporee che le barriere del buon costume impongono. Una scelta stilistica che si esprime nel formato filmico in 1.33:1, così da stringere lo spazio diegetico schiacciando i corpi, che compaiono ora nudi, ora sudati per il caldo, tesi nella costante ricerca di un appagamento votato all’eccesso. Emerald Fennell firma così la sua personale visione della lotta di classe, rendendo Saltburn un ossimoro visivo che non smette di ricercare lo sporco, l’odio, il non amore, la sregolatezza, in un film apparentemente pulito, calcolato.


Continuamente stuzzicato dalla ricchezza opaca dei Catton, che arriva per appartenenza ma allontana il lavoro, la fatica, l’ambizione di ottenere qualcosa per merito, Oliver si trasformerà rapidamente in un “vampiro” – come si definirà egli stesso – pronto a succhiare, leccare fino all’ultima goccia di sangue. Ed è proprio nella trasformazione simbolica della personalità del ragazzo, rispondendo finalmente a quel presagio iniziale sopracitato, che ogni umore appartenente ai corpi umani finirà per essere rivelato, ponendosi al centro dell’intenzione registica: sangue mestruale, liquido seminale, vomito. La bellezza dei personaggi protagonisti quindi, apparirà continuamente assediata da un impulso predatorio, famelico, che cela sì un bisogno sessuale, ma continuamente votato alla perversione.


Una perversione che diventa pop, mainstream, richiamata da un bisogno mediale di appropriazione sociale al ritmo musicale dei primi anni 2000’, riflettendosi nella colonna sonora che spazia da composizioni classiche fino a sfociare nell’indie rock inglese o in Sophie Ellis-Bextor: perché ciò a cui assistiamo è “un omicidio sulla pista da ballo.”


Una scommessa vinta quella di Emerald Fennell che, dopo Promising Young Woman (2020), torna a giocare con lo spettatore prendendolo direttamente in causa, stuzzicando la sua voglia di sensualità che cela semplicemente l’ossessivo bisogno di possessione, masturbazione, ricchezza, morte. Le scene più chiacchierate del film, che si rincorrono negli spezzoni di sequenze caricate sui social, non rispondono altro che a questo desiderio maniacale che un certo discorso sul film continua ad etichettare come sexy, disturbante, innovativo; niente di più fuorviante soprattutto quando, ad eventi consumati, non resta che un unico personaggio a danzare nudo davanti a noi.


D’altronde, sin dall’inizio, Oliver non ha fatto altro che raccontarci una storia, farcita di piste sbagliate, bellezza consumata, bugie e colpi di scena che hanno stuzzicato anche il nostro, di appetito. Quello che davvero ci è piaciuto in Saltburn è la fame vorace, avida, grottesca che il ragazzo ci ha mostrato mentre, in una vicinanza corporale con ogni personaggio del film, abbiamo cominciato a leccarci i baffi anche noi.





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