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Writer's pictureKoinè Journal

Sbatti il mostro in prima pagina (1972)


di Stefania Chiappetta.


Quando la guerriglia urbana dei giovani di “estrema sinistra” irrompe negli interni sicuri in cui si esercita il potere conservatorio della destra, lo fa sotto forma di fuoco: elemento ancestrale, violento, significativamente impattante. Una bomba molotov originata dal tumulto per le strade della Milano degli anni di piombo, esplode nella sede del quotidiano Il Giornale, mentre il redattore Giancarlo Bizanti (Gian Maria Volontè) incita i fotografi ad avvicinarsi al fuoco, per scattare foto sensazionali che finiranno poi in stampa. La contrapposizione politica che invade la scena è in continuità con la realtà storica. Lo sottolinea l’utilizzo delle immagini d’archivio del funerale di Giangiacomo Feltrinelli, precedute dal discorso di un giovane Ignazio La Russa durante un comizio della “Maggioranza silenziosa”, prima ancora di vedere su schermo i personaggi di finzione.


È l’inizio di Sbatti il mostro in prima pagina, il film di Marco Bellocchio che prosegue nella sua filmografia un discorso antistituzionale, cominciato l’anno precedente con Nel nome del padre (1971). L’irruzione violenta nell’ambiente scenico pare riflettere il tumulto produttivo della pellicola, creando una commistione tra film giallo e cinema politico. Nato da un soggetto di Sergio Donati a cui venne affidata anche la regia, passò poi in mano a Bellocchio come “un treno già in marcia”, stravolgendone completamente il taglio narrativo. Venne così arricchita la sceneggiatura con il contributo di Goffredo Fofi, in favore di un’idea che raccontasse - come un’inchiesta - la manipolazione dell’informazione italiana.


La collaborazione tra Bellocchio e Fofi contribuisce alla creazione di un film di impronta militante che, insieme al lavoro di altri autori (Elio Petri, Marco Ferreri etc.), confluisce all’espressività delle immagini una presa rivoluzionaria. Il potere politico si trasmuta in uno specchio deforme, corrotto e mostruoso, riflettendo una difficile uniformità con l’ambiente esterno, i cui fatti di cronaca sconvolgono l’opinione pubblica ed incendiano l’identità sociale dei cittadini.

 

Lo spazio scenico della città viene colto registicamente come ambiente duplice. Sotto i manifesti politici che ricoprono le strade Milanesi all’alba delle elezioni, in controcampo vi è il cadavere di una giovane adolescente che viene ritrovato tra la vegetazione. A mostrarsi è la frammentazione della vita politica espressa in immagini: se la città corrotta e violenta è inglobata dalla destra dei “padroni” (come lo stesso Bellocchio li ha definiti), la vegetazione naturale serve per occultare quegli istinti brutali fuori controllo che possono appartenere solo ai giovani, meglio se militanti aderenti alla sinistra extraparlamentare. Tuttavia, chi decide arbitrariamente una tale divisione, è la comunicazione falsa e dominante del quotidiano Il Giornale, ispirato al lavoro che veniva svolto dal Corriere della Sera in quegli anni e fatalmente anticipatorio sui tempi: infatti, l’omonimo quotidiano che ben conosciamo, nascerà solo l’anno dopo.


Il film-inchiesta di Bellocchio sposta così la ricerca del colpevole - ed il suo processo - nella sede del quotidiano, lasciando che la comunicazione giornalistica venga manomessa, zittita e modificata, sfruttando l’omicidio per indirizzare l’opinione pubblica verso le imminenti elezioni. Il tutto in favore di una strumentalizzazione che vede nei cittadini una massa informe da dover essere depistata e imbonita, con l’utilizzo di un’estetica del dolore per un caso di cronaca a sfondo sessuale, che diventa caso politico nell’ottica di Bizanti. La figura di Gian Maria Volontè, già utilizzato come corpo corrotto del potere (basti pensare ad Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri), si trasforma in maschera caricaturale impegnata nella creazione di un capro espiatorio in cui far confluire il biasimo sociale.


Dare vita ad un personaggio come Giancarlo Bizanti, che modifica il titolo di un tragico suicidio per spostare l’attenzione sulla vittima “immigrata” dal sud, che maltratta sua moglie accusandola di pochezza intellettiva come l’italiano medio, significa per prima cosa renderlo consapevole della sua essenza mostruosa, dunque capace di cercarla in altri. Lo rivela il suo approfittarsi dell’emotivamente fragile Rita Zigai (Laura Betti), compagna più grande del militante di sinistra che diventerà l’omicida prescelto, conducendo alla creazione di un modello femminile arrabbiato, nervoso, che introdurrà nel cinema di Bellocchio l’attenzione ai disturbi psichici che caratterizzerà i suoi film successivi degli anni ’80.

 

Viene quindi plasmato un tipo di mascolinità respingente e dominante, in netta contrapposizione con i personaggi in crisi identitaria che avevano abitato il cinema italiano degli anni ‘60. A fare da contraltare a Bizanti vi è però il giovane giornalista Roveda, capace nella scrittura ma incapace di immolare la ricerca della verità per aderire ad una propaganda votata al concetto di ripetizione, che si sottrae alla strategia della tensione messa in atto dall’ideologia di destra per scoprire il vero omicida. Ed è probabilmente il sentimento della scoperta, o riscoperta nel caso del film, a pesare maggiormente nel restauro della pellicola realizzato dalla Cineteca di Bologna e supervisionato dallo stesso regista. Un restauro che riguarda la ripresa e conservazione dell’immagine su pellicola, non certo il suo equilibrio narrativo: nel documentare uno spaccato reale sullo stato della comunicazione giornalistica italiana, sembrerebbe quasi che nulla sia cambiato, nonostante siano passati più di 50 anni.


Sbatti il mostro in prima pagina è un film che scorre per confluire alla visione registica un’immagine in contrasto con il tumulto in divenire degli anni di piombo, quasi fosse già un lascito per il futuro, pronto al ritorno in sala (dal 4 luglio) per il nostro tempo. L’immagine finale del film mostra il liquame prodotto dalla città che confluisce nei canali di scolo, non immobile ma in lento ed inesorabile movimento: non è solo allegoria, ma realtà concreta che fuoriesce dal tessuto del film, per vederne le conseguenze basta solo guardarsi intorno.

 

 

 

 

 

 Bibliografia

-Gian Piero Brunetta, Guida alla storia del cinema italiano 1905-2003, Einaudi editore, 2016.

-Il Cinema Ritrovato XXXVIII edizione, catalogo del Festival, Cineteca di Bologna, 2024.






Image Copyright: 01 Distribution Rai Cinema S.p.A

 

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