32.380
- Koinè Journal
- Aug 20
- 5 min read

di Cecilia Isidori.
32.380: tanti sono i membri del gruppo Facebook pubblico denominato “Mia Moglie”, una piazza oscena di baratto in cui l’oggetto dello scambio sono le donne.
Il gruppo è stato creato per diffondere foto intime e pornografiche senza consenso — ergo, materiale pornografico non consensuale, come definito dall’articolo 612-ter del codice penale, introdotto dalla legge n. 69 del 19 luglio 2019 (Codice Rosso).
Gli utenti, inoltre, si scambiano anche consigli su come stuprare, molestare o fotografare di nascosto mogli, compagne, fidanzate, nuore, parenti: una vera e propria apologia della violenza e della sopraffazione.
Uomini, per la maggior parte celati e protetti dall’anonimato, pubblicano foto sessualizzanti, contenuti pornografici — spesso palesemente raccolti in maniera non consensuale e illecita — e attendono con smania l’approvazione degli altri membri del branco.
“Se passi per Pisa… prestamela” si legge sotto la foto di una donna al mare, intenta a dormire prendendo il sole in spiaggia, condivisa dal marito. La donna è oggetto di scambio. La donna è oggetto.
“Ne prende due?” chiede un utente sotto la foto di una donna in intimo che si guarda allo specchio. La donna è oggetto di condivisione sessuale. La donna è oggetto.
“Mia moglie non ama essere fotografata, ma ho trovato questa foto nel suo telefono, mi domando per chi sia…” scrive un altro, allegando l’immagine della compagna in intimo. Arriva il sostegno del branco: “Bisogna sculacciarla, fammi sapere (se hai bisogno di una mano, sott.)” incalza uno; “forse te la montano” insinua un altro. La donna, vittima di duplice violazione della propria privacy — accesso abusivo al telefono e successiva condivisione non consensuale dei materiali in esso custoditi — diventa un oggetto di proprietà, da custodire gelosamente ma che “colpevole” di un umiliante oltraggio (come è, in questa dinamica, una foto intima non condivisa con il marito) può essere esibito, condiviso con gli altri, collettivamente punito. La donna è oggetto.
Un utente allega la foto di una donna nuda sul letto: “Cosa fareste a mia moglie?” chiede. “Potete commentare liberamente” incita. “Io la stuprerei così…” risponde il primo, e gli altri seguono. La donna è oggetto di una perversione sessuale collettiva, vittima di violenza. La donna è oggetto.
Le foto scorrono in sequenza nella chat: “oggi al mare”, “oggi in barca”, “stamani appena alzata”. “La sveglio oppure no?” scrive uno, condividendo la foto della compagna in intimo mentre dorme. “No, approfitta mentre dorme” consiglia un altro, aizzato da chi dispensa suggerimenti su come stuprare la propria partner nel sonno, quasi (?) parlando per esperienza. La donna, ancora, è oggetto di violenza sessuale. La donna è oggetto.
Eccoli: 32.380 utenti. Altrettante donne violate. Il filo rosso che unisce ogni singolo post, commento, like è uno solo, evidente, angosciante, spaventoso: La donna è oggetto.
La denuncia
L’esistenza del gruppo è stata portata alla luce da Carolina Capria con una forte denuncia sul suo profilo Instagram “L’ha scritto una femmina”. Da quel momento il gruppo ha ricevuto numerose segnalazioni (gesto a cui si invita ciascun lettore: piccolo ma doveroso atto di resistenza e denuncia collettiva), ma resta online: visibile, accessibile a tutti con estrema e disarmante facilità.
E ciò che deve allarmare non è solo la facilità con cui si accede al gruppo, ma anche la mole dei contenuti in esso presenti: migliaia di immagini e video intimi non consensuali, spesso con i volti ben visibili delle donne. Vittime di veri e propri stupri virtuali — e la dimensione della virtualità non li rende affatto meno gravi.
La legge c'è. Non basta.
Come sempre in casi come questo, si ricorre con urgenza al Codice Penale. Ebbene, ad onor di cronaca, in Italia la diffusione non consensuale di immagini intime è punita dall’articolo 612-ter c.p.: reclusione da 1 a 6 anni e multa da 5.000 a 15.000 euro. Sono previste aggravanti se il colpevole è il coniuge, l’ex, un convivente, o se il materiale è diffuso tramite strumenti digitali o social network.
Le vittime possono, inoltre, rivolgersi al Garante per la protezione dei dati personali, alla Polizia Postale, querelare. Insomma, i rimedi penali ci sono ma, possiamo ben capire, queste procedure sono spesso troppo lente rispetto alla velocità con cui i contenuti si propagano sul web e le vittime sono comunque esposte all’inarrestabile gogna mediatica, scarsamente protette e spesso lasciate sole.
E, soprattutto, il nodo della questione non è (solo) penale. È, come in tutti i problemi legati alla violenza di genere, culturale.
Sono violenze. Stupri virtuali (solo virtuali? viene spontaneo chiedersi) consumati sulla piazza più pubblica che conosciamo: quella digitale. Una piazza in cui l’anonimato e l’impunità alimentano un branco che si rafforza e si fomenta vicendevolmente.
32.380 utenti. Non ci sono limiti né confini. Solo violenza, possesso, prevaricazione. La dimensione di volgarità e oscenità in cui si viene proiettate scorrendo i contenuti del gruppo in questione è sconcertante e spaventosa.
Il consenso: ancora sconosciuto
Vicende come questa — e come il caso di Gisele Pelicot — sono vasi di Pandora che racchiudono i mali di un’intera cultura. Il più grande è l’incapacità sociale di comprendere il consenso.
Il consenso sessuale è l’accordo volontario e consapevole di due o più persone a partecipare ad attività sessuali. Deve essere libero, esplicito, comunicato quindi con chiarezza attraverso parole e azioni, consapevole, reversibile e da rinnovare in ogni momento (non basta il consenso iniziale, cfr. Cass. Sez. 3, n. 39428/2007), reciproco.
Qui non c’è nulla di tutto ciò. Ci sono donne violate nella loro intimità e quotidianità, esposte in pubblica piazza come carne inanimata, mentre uomini che non conoscono — o fingono di non conoscere — il concetto di consenso si arrogano il diritto di prestarlo al posto loro o si credono in partenza esenti dal doverlo richiedere, perché non corrono il rischio di essere scoperti.
Perché quelle donne, considerate oggetti di proprietà, sono solo corpi di cui si può liberamente disporre. Una donna addormentata, in questa logica, è automaticamente consenziente perché non si oppone. Una donna sposata è consenziente per definizione, se è il marito-proprietario a condividere le sue foto.
O forse il punto è che queste donne, semplicemente, non contano: ridotte a corpi, non esistono come soggetti. È la cruda e violenta reificazione sessuale del corpo della donna, negata della sua esistenza soggettiva.
La donna non è parte della dinamica in questione: non si tratta della relazione tra uomo e donna, ma di quella tra uomini. Le donne diventano meri strumenti di scambio, mediatori di potere. Come scrive Manon Garcia in Vivere con gli uomini, mogli e compagne diventano oggetti interposti, utili agli uomini per competere tra loro e stabilire gerarchie di potere.
Eppure queste donne esistono, eccome. Hanno desideri, piaceri, idee, aspirazioni, pensieri, voci. Ma ridotte a corpi esposti, ostentati, posseduti, vivono uno dei momenti più estremi della subalternità femminile. Gli uomini fanno di loro ciò che vogliono, le usano e ne abusano. Alle donne non resta che sentirsi sporche, odiate, giudicate, colpevoli. Non resta loro altro che vergogna.
Ma la vergogna non è delle vittime: è di chi riduce quei corpi a proprietà. È della società che, silente e complice, tollera.
La vergogna deve cambiare lato
Le norme di genere che impediscono agli uomini di percepire le donne come soggetti vanno rovesciate. L’ordine di questo sistema di oppressione e violenza deve essere scardinato.
Non basterà mai inasprire le pene per fermare la violenza di genere, così subdola e radicata nella quotidianità. La paura di una sanzione non cambia la cultura. Il diritto penale non può e non deve avere funzione pedagogica.
Servono movimenti sociali, culturali, politiche pubbliche ambiziose. Serve investire in prevenzione. Serve educazione al consenso: chiaro, libero, esplicito. Al rispetto dei confini personali, per spezzare la logica della subalternità tra i sessi.
È necessario odiare gli indifferenti. Prendere posizione. Di fronte a 32 mila uomini coinvolti in stupri virtuali di gruppo, devono essercene altrettanti capaci di smettere di proteggere il proprio privilegio e unirsi alla lotta di liberazione dei corpi, delle sessualità, delle soggettività.
È necessario, oggi più che mai, che la vergogna cambi lato.
Manon G., 2025, Vivere con gli uomini, Einaudi
Comments