Italia: il peso dell'efficienza
- Koinè Journal
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di Federico Mancini.
In un momento in cui l’Italia discute di salari, crescita e competitività come se fossero questioni separate, i numeri dell’OCSE raccontano una verità più semplice: il problema non è quanto, ma come lavoriamo. Proviamo allora a delineare, in ampia sintesi, il posizionamento commerciale ed economico del nostro Paese, per capire, con le parole di Salvatore Rossi, “quello che sa fare l’Italia”.
È un esercizio utile, perché troppo spesso la politica, di ogni schieramento, racconta il Paese attraverso numeri di comodo e narrazioni di parte, senza l’obiettivo reale di informare i cittadini sulle criticità e le potenzialità di un tessuto economico tanto variegato quanto frammentato.
Dunque, tornando alla domanda iniziale: cosa sappiamo fare?
Il quesito, nella sua apparente semplicità, permette di osservare diversi aspetti. Possiamo dire che l’Italia riesce a svolgere, in modo più o meno efficiente, tutti i “compiti” commerciali ed economici di un paese avanzato. Prendendo come riferimento i dati OCSE, relativi alla maggior parte delle economie del mondo, si nota come l’Italia si collochi in una posizione “intermedia” in quasi tutti gli indici principali. La tripartizione agricoltura-industria-servizi, primario, secondario e terziario, potremmo dire, restituisce una realtà abbastanza comune, almeno dal punto di vista strutturale: l’Italia è un paese “normale”.
L’agricoltura pesa per circa il 2,5% del Pil totale in linea con i principali paesi europei, e leggermente discostata dalla Cina, dove questo settore vale ancora il 7%. L’industria, d’altro canto, rappresenta circa il 20% del PIL: un dato che avvicina l’Italia più a Germania (24%) e Giappone (23%) che a Francia o Stati Uniti (13%). È il riflesso della nostra storica vocazione manifatturiera. Per quanto riguarda i servizi, ormai principale fonte di ricchezza per le economie avanzate, l’Italia risulta in linea con gli altri paesi, sia nella fornitura di servizi pubblici (distaccata solo dalla Francia, più statalista), sia nel commercio e nei servizi professionali come avvocati, medici e consulenti.
Ma la fotografia dei settori non basta a spiegare perché restiamo indietro. Dietro quella “normalità” statistica si nasconde un’anomalia più profonda: la produttività. Le principali differenze, infatti, derivano dalla frammentazione del tessuto economico italiano e dalla nostra storica preferenza per la manifattura rispetto alla fornitura di servizi. Nel 2019 (dati quasi invariati) l’Italia esportava l’81% di beni “tangibili” e solo il 18,5% di beni “intangibili”. La Francia, per esempio, esportava il 35% di beni intangibili.
L’Italia mostra un netto svantaggio nei servizi finanziari e logistici: abbiamo una sola grande compagnia assicurativa realmente internazionale e nessuna banca comparabile ai colossi stranieri. I servizi di trasporto e logistica valgono appena l’1,9% dell’export totale, il livello più basso tra i paesi citati — un paradosso per una nazione che dovrebbe, per posizione geografica, avere una flotta mercantile di primo piano.
Restringendo poi lo sguardo all’export “tangibile”, emerge un dato ancora più rivelatore: anche la nostra manifattura si colloca un gradino sotto i principali concorrenti. L’Italia è l’unico paese che esporta più beni di consumo che macchine (31% contro 28%). La Germania, al contrario, esporta il 36% di macchine e solo il 19% di beni; il Giappone arriva addirittura al 45%-16%. Questi paesi condividono con noi quasi tutti gli indicatori strutturali, ma, a differenza dell’Italia, riescono a collocarsi nella parte più redditizia della manifattura, quella ad alto valore aggiunto e salari più elevati. L’incapacità del nostro Paese di rendersi competitivo sul fronte industriale è un deficit troppo pesante per non essere affrontato in tempi brevi dalla nostra classe dirigente. Così rischiamo di restare esclusi dai circuiti virtuosi che collegano istruzione di qualità, innovazione e tecnologia avanzata.
Arriviamo dunque al cuore del problema, sorvolando sulla questione, pur centrale, delle dimensioni aziendali. La vera radice è dunque la produttività, ossia la quantità di prodotto generata per ora lavorata. Essa misura quanto un’impresa riesca a sfruttare tre tipi di capitale: umano, materiale e organizzativo. Chi lavora. Con cosa lavora. In che modo viene fatto lavorare. Intorno a questo ruota la produttività di un’azienda nella sua forma più essenziale. I dati italiani, in questo senso, sono impietosi: la produttività del nostro Paese è inferiore del 27% rispetto a quella americana e del 20% rispetto a quella tedesca o francese. Ciò significa che, prendendo come unità oraria una scarpa, ogni cinque ore un operaio tedesco ne produce una in più rispetto a un operaio italiano, costando all’impresa, in proporzione, molto meno.
Da qui non si scappa: non si può pensare di rilanciare il mercato del lavoro italiano — né dal punto di vista salariale né da quello delle competenze — senza ingenti investimenti sia dal lato dell’offerta sia da quello della domanda. Il divario di competenze continua ad ampliarsi, complice un sistema scolastico poco adattivo e una digitalizzazione ancora troppo limitata nelle imprese. La scuola non può essere concepita come un ammortizzatore sociale: è, al contrario, il più importante strumento democratico nelle mani di un Paese. Permette a cittadini di tutte le estrazioni di accedere al patrimonio di conoscenze e competenze che solo lo Stato può garantire. Il rendimento sociale dell’investimento in istruzione supera qualunque tasso di interesse. Come possiamo pensare di confrontarci con tecnologie all’avanguardia e con ipotetici tassi di produttività “stellari”, se non mettiamo la formazione e l’innovazione al centro del dibattito pubblico? Lo spazio fiscale non nasce dai tagli, ma dalla crescita della produttività: un aumento dell’efficienza genera più PIL, amplia la base imponibile, migliora la sostenibilità del debito e riduce la spesa relativa.
È questo il circolo virtuoso che può restituire margini di azione economica a un Paese fiscalmente rigido come l’Italia. In quest’ottica, l’integrazione di tecnologie avanzate, dall’automazione all’intelligenza artificiale, può diventare un’arma decisiva, ma solo se accompagnata da investimenti nel capitale umano e nella capacità organizzativa. Come ha ricordato Mario Draghi, il debito buono esiste: è quello che finanzia innovazione, ricerca e produttività futura. Serve la forza e il coraggio di investire in ciò che può davvero incidere sulla vita delle persone. Se non invertiamo la rotta, la rivoluzione tecnologica non farà che ampliare le distanze tra noi e gli altri. E ci lascerà, ancora una volta, con qualche scarpa in meno — una ogni cinque ore.
Bibliografia:
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· Reuters. (2024, 30 settembre). EU countries acting alone are too small to cope, says Draghi. https://www.reuters.com/markets/europe/eu-countries-acting-alone-are-too-small-cope-says-draghi-2024-09-30
· UN Comtrade. (2023). International Trade Statistics Database (SITC Rev.3). https://comtradeplus.un.org/
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