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9 Novembre 1989, Goodbye Lenin! Come crolla la pianificazione nella RDT


di Davide Cocetti.


L’abbattimento del muro di Berlino e la riunificazione delle due Germanie hanno rappresentato la fine di un’epoca, chiudendo le porte alla visione di un mondo bipolare. La portata immaginifica degli avvenimenti che si susseguono rapidamente tra 1989 e 1990 rischia però di lasciare in secondo piano il percorso di ben più ampio respiro che permette di arrivare a simili sviluppi.

Per strutturare un’analisi efficace, capace di cogliere la profondità del mutamento che ha accompagnato la riunificazione delle due Germanie, è necessario innanzitutto comprendere che cosa abbia rappresentato politicamente, socialmente ed economicamente la Repubblica democratica tedesca. La storia quarantennale di questo Stato si basa su due tratti distintivi quasi contrapposti: da un lato il pieno inserimento nel blocco orientale facente capo a Mosca;

dall’altro l’inevitabilità di un rapporto, più o meno pacifico, con la sua controparte occidentale.


Funzionamento e criticità del modello economico orientale

I territori amministrati da Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti si costituiscono nel maggio ’49 come Repubblica federale tedesca (Rft). In risposta a questa presa di posizione, l’Amministrazione militare sovietica in Germania a sua volta diventa Stato a tutti gli effetti. La Repubblica democratica tedesca (Rdt) nasce ufficialmente il 7 ottobre 1949. Risulta quindi evidente il legame indissolubile che unisce Germania Est e Unione Sovietica fin dagli inizi.

In campo economico questa relazione si traduce in una completa ristrutturazione del sistema tedesco orientale, secondo il modello già in vigore in Urss. Il Partito di unità socialista in Germania (Sed), che governa la Rdt ininterrottamente dal 1949 al 1990, promuove una costruzione accelerata del socialismo nel Paese. In pochi anni il processo di collettivizzazione dell’agricoltura e dell’industria già avviato dalla Svag giunge a compimento. Il controllo diretto dello Stato sulle attività si traduce in precise direttive sull’allocazione delle risorse, sul controllo dell’occupazione e sulla definizione degli standard produttivi e dei prezzi. In altre parole, si viene a creare un’economia pianificata. Stephen Burant, che nel 1988 ha stilato un rapporto sulla Rdt per conto della Federal Research Division statunitense, ha individuato tre principali punti di forza della pianificazione centralizzata. Il primo è lo stretto controllo esercitato dall’amministrazione politica socialista sull’economia del Paese. Il Sed può imprimere le sue direttive e i suoi obiettivi, senza doversi confrontare con gli ostacoli posti dal mercato. Ciò si lega direttamente al secondo grande vantaggio di un’economia pianificata: la sua efficacia nel perseguire politiche di natura sociale, come il contenimento della disoccupazione entro cifre irrisorie. Infine la pianificazione centralizzata permette una gestione delle risorse più agevole, consentendo, attraverso l’allocazione “dall’alto” delle stesse, di intervenire laddove ve ne sia più necessità (Burant, 1988: 122). È necessario sfatare il mito della rigidità assoluta dei sistemi pianificati: essi si estendono su più livelli, prevedendo progetti a breve, medio e lungo termine e momenti di contrattazione tra le varie parti del processo produttivo.

Lo stesso rapporto stilato da Burant individua anche le maggiori criticità della pianificazione centralizzata. Essa risulta inevitabilmente una semplificazione della realtà. I prezzi imposti dall’alto non rispecchiano il reale valore dei beni prodotti, creando inoltre diverse difficoltà nel gestire il loro duplice rapporto con il mercato interno e quello verso l’estero. Gli standard di allocazione delle risorse non riescono a tenere conto delle specifiche esigenze di ogni singola unità produttiva. Infine, l’obbligo di rispettare a ogni costo gli obiettivi fissati dal Partito porta a una contrazione delle possibilità innovative. I manager che sovrintendono al processo produttivo preferiscono la sicurezza di un iter consolidato, “tradizionale”. La via che potrebbe portare a un miglioramento in termini di efficienza appare loro troppo rischiosa, soprattutto in assenza di stimoli positivi in tal senso (Burant, 1988: 122).


Comprendere la longevità del sistema economico della Rdt

Nonostante gli evidenti limiti strutturali, la pianificazione centralizzata ha accompagnato la Rdt per circa quarant’anni. Diversi studiosi si sono domandati come sia stato possibile mantenere in piedi questo sistema economico per un arco temporale così lungo. In secondo luogo, si sono poi chiesti quali siano stati gli sviluppi che ne hanno innescato il declino a fine anni Ottanta.

È necessario innanzitutto precisare come le politiche economiche del Sed abbiano vissuto fasi alterne in termini di efficacia, ma anche di impostazione ideologica. Se gli anni Cinquanta si sono caratterizzati per il compimento del processo di collettivizzazione, il decennio successivo è marchiato indelebilmente dal Neues Ökonomisches System der Planung und Leitung (Nöspl), introdotto a partire dal 1963. Si tratta di un tentativo di promuovere un più autentico spirito d’impresa all’interno del sistema produttivo della Rdt. Il cambio di rotta parzialmente decentralizzante del ’63 non è dettato tanto dagli esiti delle politiche economiche precedenti, quanto piuttosto da una moderata svolta ideologica successiva alla costruzione del muro di Berlino. Il segretario generale del Sed Walter Ulbricht, rassicurato dalla stabilizzazione dei confini e desideroso di innalzare l’immagine internazionale della Rdt al pari di quella della sua controparte tedesca, opta per l’introduzione di alcuni elementi dell’economia di mercato.

Le riforme del Nöspl producono buoni effetti, ma entro l’inizio degli anni Settanta vengono completamente smantellate. Anche in questo caso, come già nel ’63, le ragioni sono di natura essenzialmente politica. Il Sed, preoccupato dal clima internazionale e dalle vicende del Sessantotto di Praga, opta per un nuovo irrigidimento all’insegna della normalizzazione. Lo stesso Ulbricht, nel 1971, si vede costretto alle dimissioni dalla guida del partito; la sua carica è ereditata dal ben più intransigente Erich Honecker, paladino del socialismo realmente esistente. La volontà di celebrare e difendere quanto già conquistato, senza avventurarsi in audaci riforme e anzi cancellando alcune concessioni ritenute troppo rischiose, si conforma pienamente alle direttive provenienti da Mosca. Nello stesso anno, infatti, il leader sovietico Leonid Brežnev proclama il socialismo sviluppato, consacrando ufficialmente gli obiettivi raggiunti e inaugurando un pomposo culto dell’esistente.


Non può sorprendere lo stretto legame che unisce le scelte politiche ed economiche della Rdt e dell’Urss. Come già ricordato in apertura, la stessa Repubblica altro non è che una creatura statale originata dall’occupazione militare sovietica. Sarebbe però sbagliato ricondurre il tutto a un’imposizione coercitiva di Mosca sulla politica tedesca orientale. Nel 1950 la Rdt entra di buon grado nel Consiglio di mutua assistenza economica (Comecon), dominato dalla potenza sovietica. Grazie agli accordi commerciali stabiliti all’interno dell’organizzazione riesce a sopperire alle sue croniche carenze di materie prime, soprattutto energetiche. I costi dell’importazione di olio, petrolio e carbone dall’Urss vengono compensati dal flusso inverso di macchinari e altri prodotti industriali lavorati, esportati in grande quantità nel mercato sovietico.

Queste relazioni economiche con il blocco orientale e in particolare con Mosca sono indispensabili per comprendere la quarantennale storia dell’economia della Rdt, ma di per sé non bastano a spiegarne la longevità. Molto importante è anche il ruolo esercitato dalla Repubblica federale tedesca nei confronti della controparte orientale. Ancora Burant nota come Bonn abbia sempre guardato con particolare interesse al di là del Muro, mantenendo viva l’idea di una possibile riunificazione tedesca (Burant, 1988: 150). Gli anni Settanta si aprono con un’ulteriore spinta verso il riavvicinamento tra le due Germanie. A partire dall’autunno del ’69, approfittando del clima di distensione internazionale, il cancelliere della Rft William Brandt lancia la sua Ostpolitik. Il desiderio di normalizzazione dei rapporti è condiviso anche da Honecker e dal Sed e culmina nel reciproco riconoscimento delle due Germanie alla fine del 1972. Ostpolitik, in campo prettamente economico, significa apertura immediata ai prestiti da Occidente. Le banche internazionali iniettano grandi somme di capitale nell’economia tedesca orientale, offrendo alla Rdt una quantità di valuta senza precedenti.


Un boom illusorio

Gli anni Settanta, aperti dall’ascesa al potere di Honecker, si rivelano fondamentali per le sorti della struttura politica ed economica della Rdt. Detto della Ostpolitik di Brandt, è necessario sottolineare come essa coincida con una svolta interna al Comecon: nel 1971, infatti, viene ratificato il Programma comprensivo di integrazione economica socialista. Il rafforzamento attraverso l’integrazione dei legami economici tra i Paesi del blocco filosovietico è specchio di una volontà di presentarsi in maniera più coesa di fronte al mercato internazionale.

L’esigenza di rapportarsi con gli Stati occidentali si propone con maggior forza a partire dal 1973. La guerra del Kippur apre nuove, allettanti prospettive per gli affari esteri sovietici. L’Urss, essendo tra i maggiori produttori di petrolio, beneficia del brusco aumento del prezzo del greggio imposto dall’Opec. Grazie alla vendita di carburante e derivati ai Paesi occidentali colpiti dallo shock petrolifero, ma anche di armi ai Paesi arabi arricchitisi, «Mosca si ritrovò così a disporre di una quantità prima di impensabile di valuta, che le permise di aumentare quasi a piacimento le importazioni di cibo, nonché di quadruplicare quelle di beni capitali e tecnologia» (Graziosi, 2019: 363). E la Rdt? Inizialmente gode delle agevolazioni concesse dagli accordi interni al Comecon, importando petrolio sovietico a prezzi ben più favorevoli rispetto a quelli del mercato mondiale. Nel 1975 l’Urss impone una revisione del sistema di calcolo delle tariffe per il commercio energetico. Pur con questi aggiustamenti, i Paesi del Comecon godranno di condizioni benevole per diversi anni a venire. L’importazione di combustibile a buon mercato permette alla Rdt di trarre un considerevole profitto anche dalla rivendita diretta dello stesso agli Stati occidentali.

Grazie ai nuovi introiti e ai prestiti provenienti da Ovest, il Sed negli anni Settanta dispone di un’ingente liquidità da investire nel sistema per colmarne le lacune. Vengono importati macchinari e tecnologie dall’estero, con benefici rilevanti per l’economia della Rdt. I solidi tassi di crescita del prodotto interno lordo e della produzione non sono però dettati da un effettivo miglioramento in termini di efficienza. Il Partito orienta gli investimenti in settori obsoleti dell’economia, nella convinzione di poter ripagare i debiti contratti attraverso l’export di beni industriali prodotti con un costo energetico favorevole. Il mondo occidentale, però, si sta muovendo in direzione opposta, segmentando la produzione per venire incontro alla domanda sempre più differenziata dei consumatori. I vertici della Rdt non comprendono questo mutamento in atto nella società occidentale e insistono sulla produzione industriale di scala, ingigantendo anzi le dimensioni delle unità produttive. I prodotti così realizzati, nella maggior parte dei casi, si rivelano insoddisfacenti nel rapporto qualità-prezzo. L’estrema dipendenza dai capitali, dalle merci e dalle risorse importate tanto dal blocco occidentale quanto dall’Urss costituisce un serio problema non solo economico, ma anche politico-ideologico per la Rdt. La legittimità del regime si fonda infatti su una pretesa di autosufficienza, soprattutto rispetto alla sua controparte occidentale. Per ovviare a queste contraddizioni, il Sed vara un piano quinquennale 1981-85 all’insegna dell’austerity. La priorità dichiarata è di tagliare gli investimenti, focalizzandosi sulla modernizzazione e sul miglioramento dell’efficienza. Non si tratta solo di una scelta, ma di una necessità: le banche occidentali, preoccupate dalla possibile insolvenza dei regimi orientali, decidono di tagliare i prestiti. In secondo luogo, il meccanismo di calcolo delle tariffe per il commercio energetico interno al Comecon si trasforma in un capestro per la Rdt. La riforma del ‘75 fissa il costo del petrolio sulla base del prezzo medio mondiale degli ultimi cinque anni. Tale condizione è vantaggiosa per i Paesi importatori se il costo internazionale continua a salire anno per anno; diviene un handicap nel momento in cui i prezzi iniziano a calare. È ciò che accade negli anni Ottanta, con l’allentamento della stretta dell’Opec sul greggio.


Il sistema comunista entra in crisi



Il piano 1981-85 riesce a raggiungere almeno in parte gli obiettivi fissati, riducendo i consumi di energia e introducendo alcuni elementi della logica di mercato nella programmazione economica. Per quanto in difficoltà, il sistema tedesco orientale risponde ancora alle direttive del Partito. Nel 1985 la Rdt è considerata nuovamente un debitore affidabile dalle banche occidentali. Quali sono dunque i fattori che portano la situazione a precipitare nel giro di pochi anni?

Innanzitutto, le politiche di austerity imposte dal Sed riescono sì a riequilibrare la bilancia dei pagamenti, ma nel farlo creano un diffuso malcontento. Per quanto la disponibilità di beni si mantenga in crescita costante, essa rimane comunque insoddisfacente per i cittadini dell’Est, che a partire dagli anni Settanta hanno avuto modo di saggiare con mano la società dei consumi di massa occidentale. La Ostpolitik porta con sé un allentamento della rigidità dei confini, sia materiali che culturali, che separano le due Germanie. Il turismo da una parte all’altra del Muro, gli Intershop che vendono beni provenienti dalla Rft, la concessione di spazi per le trasmissioni tv e radio di Bonn, … sono tutti elementi che svolgono la funzione di cavalli di Troia per la penetrazione dell’immaginario consumista occidentale nella Rdt.

Ciò nonostante, è da Mosca che proviene la più decisa spinta destabilizzatrice contro le istituzioni tedesche orientali. Nel marzo 1985 Michail Gorbačëv conquista la carica di segretario generale del Partito comunista sovietico. Sotto la sua guida l’Urss avvia un energico piano di riforme. Per quanto riguarda l’ambito prettamente economico, il punto di partenza è l’alleggerimento delle spese ritenute “superflue”, tra cui gli investimenti nella politica internazionale. Intorno a Gorbačëv si addensa una fetta sempre più consistente dell’opinione pubblica che vede le democrazie orientali come una zavorra per l’Urss. Lo stesso segretario generale non è più convinto della ripartizione del mondo in due blocchi ben distinti e nei suoi discorsi comincia a fare riferimento a «un mondo contraddittorio ma interdipendente e sotto molti aspetti unitario» (Graziosi, 2019: 406). La svolta politica e ideologica simboleggiata da glasnost’ e perestrojka fa il resto: con il crollo del monopolio del Partito comunista e la relativa liberalizzazione della società, il ricorso alla forza per controllare il dissenso nei Paesi satellite diventa un’opzione sempre meno percorribile.

Honecker è ben consapevole delle minacce insite nel piano di riforme gorbacioviano e tenta di arginarne l’impatto. Ciò nonostante, ormai anche all’interno dello stesso Sed si sta facendo largo una corrente riformista. I disperati tentativi di Honecker producono come unico effetto la sua rimozione dalla guida del Partito. La destituzione ufficiale avviene nell’ottobre 1989 e non è determinata solamente dalle manovre interne alla classe dirigente. La mossa vincente di diversi esponenti dell’establishment consiste anzi nel saper cavalcare le richieste di cambiamento della popolazione, che scende in piazza sempre più frequentemente per domandare riforme economiche e sociali. L’élite tedesca orientale si ricrea così una nuova “verginità politica”. Egon Krenz, successore di Honecker alla carica di segretario generale del Sed, annuncia la cosiddetta Wende (Svolta). Si tratta del primo passo verso l’abbattimento del muro di Berlino, senza dubbio l’esito più iconico di questa stagione di riforme, proteste e trasformismi.

Nei primi giorni del novembre ’89, proprio mentre i manifestanti iniziano a picconare materialmente il Muro, il Comitato centrale del Sed decide per una riforma economica radicale. Sono gli stessi leader dei Kombinate, i titanici compartimenti industriali statali plasmati dalla dottrina socialista più intransigente e honeckeriana, a dettare perentoriamente la linea riformista. Hans Modrow, capo del governo e vero leader della transizione democratica, prepara il terreno per lo smantellamento della pianificazione centrale e l’apertura all’economia di mercato e alle sue logiche. A tal proposito è necessario evidenziare come l’agenzia Treuhandanstalt, deputata a gestire il processo di decentralizzazione delle attività produttive, veda la luce e inizi la sua attività proprio durante gli ultimi mesi di vita della Rdt. In seguito alla riunificazione, diventerà il principale motore istituzionale della privatizzazione.


La spinta da Ovest

Lo sganciamento di Mosca e l’abbandono dell’ideologia socialista da parte di un segmento consistente del Sed contribuiscono a spiegare il crollo del regime in Germania Est, ma è necessario tenere in considerazione almeno un altro elemento per comprendere la rapidità di questa svolta e soprattutto le sue conseguenze a lungo termine. È infatti la pressione esterna proveniente dalla Rft a velocizzare il percorso di riunificazione delle due Germanie, tratteggiandolo nei termini che ancora connotano il territorio tedesco orientale.

Come si spiega questa improvvisa accelerazione verso una Germania nuovamente unita? La risposta sta in una serie di congiunture politiche ed economiche decisamente favorevoli per la Rft. Dopo la crisi degli anni Settanta e la stagnazione dei primi anni Ottanta, sul finire del decennio la Repubblica federale beneficia di una solida ripresa, frutto anche delle riforme promosse dal cancelliere Helmut Kohl. L’economista Michael Grömling ritiene che per la Germania Ovest si possa parlare di un «piccolo miracolo economico» tra il 1988 e il 1989 (Grömling, 2008: 5). La contemporanea implosione del blocco orientale induce Kohl a pensare che i tempi siano ormai maturi per tentare l’affondo decisivo. Il cambio di passo del cancelliere è reso evidente il 28 novembre 1989, con la presentazione del Zehn-Punkte Plan, il piano in dieci punti per promuovere la riunificazione.

Dall’altra parte del Muro ormai sgretolato, le richieste di unità si trasformano in vera e propria istanza politica nel marzo 1990, quando le prime (e uniche) elezioni democratiche della storia della Rdt promuovono la nascita di un governo decisamente rivolto verso Ovest. In realtà, almeno in un primo momento, le istituzioni tedesche orientali vengono scavalcate dalle deliberazioni della politica internazionale. La riunificazione della Germania diviene infatti oggetto di trattative serrate su due tavoli differenti: quello europeo occidentale e quello con Gorbacev. L’approvazione degli Stati vincitori della Seconda guerra mondiale rimane imprescindibile di fronte alla prospettiva di un mutamento di tali proporzioni, anche quarantacinque anni dopo la fine del conflitto.

Kohl non fatica a ottenere l’approvazione di Gorbacev sul suo piano di riunificazione. Il leader sovietico, attanagliato da questioni interne più urgenti e allettato dall’immediato tornaconto economico (quantificato in migliaia di marchi occidentali), media personalmente con il cancelliere i termini dell’unità. Paradossalmente, Kohl incontra maggiori resistenze nel presentare il Zehn-Punkte Plan alle altre potenze europee. Il timore di una Germania nuovamente unita nel cuore dell’Europa desta molte preoccupazioni, soprattutto in Francia. Ogni tentativo di porre ostacoli a un processo ormai ineluttabile si rivela però fallimentare. Di fronte alla distruzione fisica del Muro, l’unica soluzione percorribile per la Francia e per gli altri Paesi timorosi rimane quella di legare inestricabilmente le sorti della Germania che nascerà alle strutture comunitarie europee. Si tratta di una prospettiva apprezzabile anche per Kohl, profondamente europeista e già impegnato da mesi in trattative per dare concretezza al progetto di un’Unione economica e soprattutto politica. Consapevole che dallo sfaldamento del blocco sovietico non sarebbero sopraggiunti solo benefici, il cancelliere si schiera in prima linea per stilare un programma di intervento collettivo della Comunità europea. Il fine ultimo è quello di facilitare una serie di transizioni democratiche ordinate, circoscrivendo tensioni, conflitti e flussi migratori; i cui effetti si ripercuoterebbero, per ovvi motivi geografici, innanzitutto sulla Germania. L’accordo su un crescente coinvolgimento tedesco nelle dinamiche europee porta, nell’aprile 1990, al nullaosta della Comunità sulla riunificazione.





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