Il pluralismo inesistente di Giorgia Meloni
- Koinè Journal

- Oct 20
- 6 min read

di Caterina Amaolo.
Siamo soffocati dal turpiloquio dei politici o aspettiamo con ansia il prossimo show a uso e consumo di fedelissimi follower? Osserviamo il clima da saloon che talvolta invade il Palazzo con spirito critico o ne assorbiamo la parte morbosa, facendoci lentamente contagiare dal virus del sarcasmo, dell’invettiva contro l’avversario o addirittura dall’odio?
A questi interrogativi hanno provato a rispondere alcuni ricercatori dell’Università Cattolica di Milano, della Sapienza di Roma e dell’Università degli Studi di Urbino, attraverso un questionario rivolto a un campione rappresentativo di 1.500 cittadini italiani. La risultante è che gli italiani (il 73,6%) sono sempre più insofferenti alla comunicazione politica fatta di insulti, grida e offese. In particolare, a lamentare tutto questo sono donne e over 65, ma è merito soprattutto delle nuove generazioni l’ aver scoperto la trama che unisce lo scadente deterioramento del dibattito pubblico alla ricerca del consenso facile.
Questo fastidio si registra a più livelli: per i disvalori che si trasmettono - con l’ostentata mancanza di rispetto per i princìpi democratici e il frequente uso della propaganda -, per l’assenza del rispetto dell’Altro - continuamente ridicolizzato e insultato -, per lo scarso contegno istituzionale.
Tutto questo, di fatto, in Italia è già diventato una prassi a partire dal decennio populista, dove si registra con evidenza una forte avversità per i discorsi alternativi. Non è un caso, peraltro, che chi punta a polarizzare l’elettorato nel dibattito pubblico catturi un sacco di voti.
Nella scena populista contemporanea, lo schema-base dell’aspirante leader politico funziona più o meno così: si divide e si guadagna consenso motivando chi mi supporta ed evitando di andare a convincere chi non la pensa come me. Arriva, cioè, prima il legame di fiducia frutto della personalizzazione mediatica, piuttosto che il confronto sui temi. E’ in questo modo che si creano le tifoserie: minoranze forti e molto organizzate, dove prevale la lettura estrema rispetto alla mediazione, le fake news piuttosto che la verifica delle fonti.
In America chiamano questa prassi fan politics: la politica da tifoseria, per cui si finisce per essere sostenitori di un leader a prescindere, qualunque cosa egli dica, piuttosto che interrogarsi sui valori che veicola.
Sulla capacità di determinati leader, in particolare a destra, di arrivare con grande successo alla “pancia” dell’elettorato, nessun esperto nutre dei dubbi: funziona sia la spettacolarizzazione del discorso, sia l’iper-semplificazione dei messaggi, sia - come detto - il ricorso a falsificazioni utili ad assecondare il comune sentire della gente.
La normalizzazione dell’inciviltà nel discorso pubblico si correla ad un processo di erosione dei valori democratici di cui molte democrazie liberali sono protagoniste in questi anni.
POLITICA E PLURALISMO
La politica è sempre un fenomeno mediatico. Non esiste, cioè, al di fuori dei media, dei loro processi di condivisione delle informazioni e dell’incessante negoziazione del principio di realtà che essi, da sempre, comportano. E’ un assioma valido in ogni epoca storica, ma appare in tutta la sua evidenza nella fase di mutamenti tecnologici e culturali che oggi investono l’intero sistema dei media, in particolare il web. L’analisi della comunicazione politica coincide, così, in modo scoperto con l’analisi del passaggio d’epoca in atto e, soprattutto, sulla nostra adeguatezza a cogliere natura e portata delle sue rappresentazioni.
Il pluralismo, come afferma l’Art. 21 della Costituzione (https://www.senato.it/istituzione/la-costituzione/parte-i/titolo-i/articolo-21), è strettamente connesso alla libertà di manifestazione del pensiero, intesa come libertà di informare e di essere informati.
Il «massimo numero possibile di voci diverse» - cioè di emittenti differenti - deve poter accedere al sistema radiotelevisivo (Corte costituzionale n. 112/1993 https://www.cortecostituzionale.it/scheda-pronuncia/1993/112) perché solo una molteplicità di fonti può assicurare la «formazione consapevole della volontà del cittadino-utente» (Corte costituzionale n. 155/2002 https://www.cortecostituzionale.it/scheda-pronuncia/2002/155).
Il pluralismo comporta, di fatto, che i titolari di pubblici poteri non possano condizionare la linea editoriale di un’emittente o le modalità di svolgimento di un programma, perché ciò limiterebbe la libertà di informazione. Ma non è sufficiente che esponenti dell’esecutivo si astengano da interferenze; essi devono anche fare in modo, non solo tramite norme, ma anche nella pratica con una condotta attiva, che il pubblico abbia accesso a opinioni e commenti che riflettano la diversità delle visioni politiche presenti nel Paese. Se i componenti di un governo partecipano solo a trasmissioni “amiche” in media favorevoli, si crea un’informazione sbilanciata e parziale. Perché è vero che, se i cittadini non vedono interviste a Meloni su Mediaset, possono comunque assistervi su reti RAI (cfr. “Cinque minuti” di Vespa), ma i fatti dimostrano che non è proprio la stessa cosa. A tutto questo quasi nessuno fa più caso. Così come a tanti non sembra interessare che la Presidente del Consiglio si conceda molto raramente a conferenze stampa, che giornalisti siano querelati con disinvoltura da chi è in posizione di potere o che siano controllati tramite spyware senza che il governo si adoperi in concreto per capire chi ne sia l’autore. Anche il disinteresse generale erode la democrazia. Ma pure questo pare sfuggire a molti.
COME COMUNICA GIORGIA MELONI?
Dopo l’avvento di Berlusconi nel 1994, si è diffusa l’idea che il marketing politico sia fondato sul fatto che, per avere successo, sia strategico non tanto dire cose diverse dagli altri, quanto più cose condivise da tutti, che parlano un linguaggio masscult.
La doppia comunicazione - tra romanesco e poliglottismo - consente a Giorgia Meloni sia di apparire come “una di noi” che come figura di potere, in grado di evitare i fatti producendo il “grande bluff”.
Meloni usa un lessico semplice, con pochi tecnicismi, qualche termine colto di rado e molte parole che si riferiscono alle esperienze ordinarie di chi ascolta. Dal punto di vista sintattico, organizza le frasi con una dominanza della paratassi sull’ipotassi; preferisce, cioè, frasi coordinate brevi e autonome a lunghi periodi di subordinate.
Meloni si esprime in modo diretto, concreto, vicino a come parlano le fasce meno colte della popolazione. In questo, però, non fa nulla di nuovo, ma riprende una tendenza che il centrodestra cominciò già all’inizio degli anni Novanta.
Ma c’è di più. Infatti, anche se Meloni si rivolge a una platea nazionale, la sua lingua è impastata, non solo nell’inflessione, ma nel lessico, nella sintassi e negli intercalari, di dialetto romanesco. Sebbene questa caratteristica sia spesso messa sotto accusa dai media e parodiata dai comici, tuttavia Meloni riesce a condire abilmente il suo parlato con dosaggi di romanesco che superano con efficacia i limiti regionali.
Ciò è possibile anzitutto perché il romanesco è, da sempre, più affine all’italiano di molti altri dialetti, per cui è comprensibile anche a chi non vive nell’area. Inoltre, dagli anni Cinquanta in poi, la diffusione di prodotti televisivi e cinematografici con protagonisti romani ha progressivamente intriso questo dialetto di significati e valori positivi. Grazie a decenni di cinema e tv, infatti, la parlata romanesca oggi evoca fama, ricchezza, mondanità ma anche potere o almeno vicinanza a chi lo detiene.
Forte di questa base linguistica, Meloni è fin qui riuscita a giocare con più facilità di altri leader la strategia comunicativa ambivalente tipica del centrodestra, da Berlusconi, Bossi, Fini a Salvini. Meloni è riuscita, cioè, a collocarsi dal punto di vista degli strati meno colti e meno abbienti della società, riproducendo il loro modo di parlare e pensare e, allo stesso tempo, ha piegato questa sensibilità alle esigenze del potere, anche quando queste contrastano o negano le necessità delle fasce sociali che dovrebbero interpretare.
CONFERENZE STAMPA: NIET
«Io non voglio mai parlare con la stampa italiana. Meglio non prendere domande», questa è la frase assolutamente emblematica che Giorgia Meloni ha sussurrato a Donald Trump, riuniti attorno al tavolo della Casa Bianca qualche giorno fa. È la conferma di un metodo, un autoritratto involontario che disegna in poche parole la relazione tra la presidente del Consiglio e l’informazione nel nostro Paese: diffidenza, sospetto, insofferenza. Tuttavia la frase che Giorgia Meloni ha pronunciato dentro la Casa Bianca sui suoi rapporti col mondo dell’informazione costituisce un’occasione seria per riflettere su una questione che può apparire retorica ed è invece concretissima. E cioè se in un Paese democratico vada salvaguardato, o vada invece considerato un orpello, un canale trasparente e permanente che metta in connessione un capo di governo e un’opinione pubblica che non si limiti ad ascoltare messaggi, pur legittimi, ma che arrivino solo dall’”alto”.
Non è un mistero che le conferenze stampa della premier siano ormai rare come eclissi. Quando arrivano, sono blindate nel tempo e nella forma: risposte brevi, nessuna voglia di dialogare, lo sguardo già rivolto all’orologio. La scena si ripete: la domanda arriva, la replica è stringata, il microfono viene spento e la presidente scompare. Nessuna possibilità di contraddittorio, nessuno spazio per la verifica.
Molto più spesso, il canale scelto per comunicare è quello dei social: un video registrato, montato, pubblicato. Il messaggio arriva senza mediazioni, senza domande, senza fastidi. È un monologo, non un confronto. Ed è proprio questo il punto: la rinuncia al rito democratico della conferenza stampa significa rinunciare a un pezzo essenziale del patto tra governo e cittadini.
Perché la stampa, in una democrazia, non è un orpello. Non è il fondo scenico di una rappresentazione politica. È un cane da guardia: fa domande, incalza, chiede conto delle decisioni, misura le contraddizioni, verifica la coerenza.
BIBLIOGRAFIA
I. Colonna, S. Brancato, S. Cristante, Povera patria. L’Italia al tempo di Meloni., Micromega 2/2025.
SITOGRAFIA
Image Copyright: Antonio Masiello/Getty Images









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