di Marco Papaleo.
Negli scorsi mesi ed ancora oggi, in relazione all’invasione della Striscia di Gaza da parte dello Stato di Israele, questo è stato spesso accusato di stare compiendo un genocidio ai danni della popolazione palestinese, perpetrato tramite bombardamenti indiscriminati su strutture civili, stragi negli ospedali, tagli dei rifornimenti alla regione ed altri crimini di guerra, peraltro documentati dai media Israeliani stessi, spesso con toni da propaganda bellica.
Queste accuse sono state anche formalizzate dalla Repubblica del Sudafrica con un ricorso contro Israele alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia, l’organo giurisdizionale permanente dell’Onu che si occupa della responsabilità internazionale degli Stati. Il Sudafrica è storicamente vicino alla causa palestinese, associando la situazione dei palestinesi nella Striscia al regime di apartheid della popolazione sudafricana nera in vigore nel paese dal 1948 al 1991: lo stesso Nelson Mandela, nel 1997, disse “sappiamo bene che la nostra libertà è incompleta senza la libertà dei Palestinesi […]”.
Ovviamente la questione si è posta all’interno dell’opinione pubblica, sempre più critica verso Israele ed il suo primo ministro Benjamin “Bibi” Netanyahu: non solo cortei e proteste di piazza (più o meno regolarmente repressi a manganellate e lacrimogeni), ma anche sempre più rappresentanti dei governi occidentali cominciano a domandare (o esigere, se abbastanza autorevoli da poterselo permettere) un immediato cessate il fuoco nella Striscia. Parallelamente, anche dal mondo del diritto diversi giuristi e giuriste hanno utilizzato la parola “genocidio” per descrivere le azioni di Israele: prima tra tutti Francesca Albanese, relatrice speciale dell’Onu sui diritti umani nei territori palestinesi occupati, la quale ha affermato che a Gaza “è molto probabile che si stia commettendo un genocidio”.
Nascita ed evoluzione del termine “genocidio”
Il termine “genocidio” fu coniato nel 1944 dal giurista Raphael Lemkin, ebreo polacco esule negli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale: Lemkin stesso raccontò di aver sentito la necessità di dare un nome allo sterminio di massa di ebrei e rom messo in atto dalla Germania nazista dopo che Winston Churchill, nel 1941, l’aveva definito “un crimine senza nome”. Pertanto, nel suo saggio “Axis Rule in Occupied Europe”, Lemkin definì il genocidio come “a coordinated plan of different actions aiming at the destruction of essential foundations of the life of national groups, with the aim of annihilating the groups themselves”.
Il termine venne usato – ancora, si precisa, con un significato non giuridico ma solo descrittivo – anche durante il processo agli Einsatzgruppen (le “Squadre della Morte” delle SS, ne abbiamo parlato di recente), uno dei dodici Processi Secondari di Norimberga tenutisi tra il 1946 ed il 1949 dinanzi a tribunali militari statunitensi (a differenza del Processo principale ai gerarchi nazisti, in cui la corte era formata da giudici statunitensi, sovietici, britannici e francesi).
“Genocidio” dal punto di vista giuridico
Fu solo nel 1948 che, con il contributo dello stesso Lemkin ed il voto all’unanimità da parte della neonata Assemblea dell’ONU, nacque la Convenzione Internazionale per la prevenzione e repressione del crimine di genocidio, entrata in vigore nel 1951 dopo il raggiungimento del numero minimo di ratifiche (atti unilaterali con cui gli Stati parte di un trattato informano le altre parti di volersi impegnare sul piano internazionale al rispetto del trattato stesso).
Dunque, è dal 1948 (o, ad essere precisi, dal 1951) che il termine “genocidio” acquisisce un significato giuridico ben preciso, ossia quello dell’art. 2 della Convenzione, che lo definisce come:
“any of the following acts committed with intent to destroy, in whole or in part, a national, ethnic, racial or religious group, as such:
Killing members of the group;
Causing serious bodily or mental harm to members of the group;
Deliberately inflicting on the group conditions of life calculated to bring about its physical destruction in whole or in part;
Imposing measures intended to prevent births within the group;
Forcibly transferring children of the group to another group.”
(ndr: la Convenzione è stata redatta in cinque lingue ufficiali, tra cui non figura l’italiano: data l’importanza del riferimento puntuale al dettato normativo originale, chi scrive non ritiene opportuno riportare l’articolo in forma tradotta)
Come si nota, dunque, perché sussista il crimine internazionale di genocidio così come definito nella Convenzione, sono necessari due requisiti: uno oggettivo – il c.d. “actus reus”, ossia il fatto che uno o più Stati o individui compiano uno o più atti di cui all’art. 2 – ed uno soggettivo – la c.d. “mens rea”, ossia l’intenzione di compiere i suddetti atti al fine di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso.
Genocidio nella Striscia di Gaza
Tornando ai giorni nostri, accade spesso che coloro che utilizzano, nella sua accezione comune e non giuridica, il termine “genocidio” per parlare della strage a Gaza vengano bacchettati da chi sbandiera l’assenza di quell’intento genocidiario richiesto dalla Convenzione, e dunque l’inesistenza di un genocidio ai danni del popolo palestinese.
In realtà, la questione della sussistenza o meno della mens rea in capo allo Stato di Israele – o almeno in capo ad alcuni rappresentanti delle sue istituzioni, compreso l’esercito – è quantomeno aperta: l’Ong britannica Law for Palestine, composta da giuristi professionisti, ricercatori e studenti e focalizzata sugli aspetti giuridici della questione israelo-palestinese, ha raccolto e pubblicato in un database centinaia di dichiarazioni considerate dall’Ong come incitamenti al genocidio del popolo palestinese, allegando le relative fonti (peraltro molto spesso provenienti dai media israeliani stessi).
Di seguito solo alcuni esempi del florilegio di dichiarazioni che si possono trovare all’interno del database:
“Là fuori c’è un’intera nazione che è responsabile. Questa retorica dei civili ignari e non coinvolti è assolutamente falsa.” – parole pronunciate dal capo di Stato israeliano Isaac Herzog.
“Ho ordinato un completo assedio della Striscia di Gaza. Non ci saranno elettricità, cibo, carburante, verrà tutto chiuso. Stiamo combattendo animali umani e agiremo di conseguenza.” – parole pronunciate dal ministro della difesa Yoav Gallant.
“Hamas utilizza le ambulanze per trasportare armi e soldati camuffati da civili, e gli ospedali sono in realtà infrastrutture terroristiche […]. Questo è contrario al diritto internazionale e li trasforma (ambulanze e ospedali, ndr) in legittimi obiettivi militari” - tweet, successivamente cancellato, delle forze armate israeliane.
“Abbiamo fatto a Beit Hanoun (città nell’estremo nord-est della Striscia, ndr) quello che hanno fatto Simeone e Levi a Sichem” – parole pronunciate da un ufficiale dell’esercito israeliano riferite al passo della Genesi nel quale i due, per vendicare lo stupro della sorella Dina, radono al suolo e saccheggiano la città di Sichem (l’odierna Nablus, in Cisgiordania) uccidendo tutti gli abitanti maschi e oltraggiandone i cadaveri.
(ndr: la prima e la terza dichiarazione sono state fatte in lingua inglese, la seconda e la quarta in lingua ebraica: la traduzione dall’ebraico all’inglese è dell’Ong Law for Palestine, la traduzione dall’inglese all’italiano è di chi scrive)
Le successive sezioni del database sono invece riservate alle dichiarazioni di giornalisti, influencer e personaggi pubblici, sicuramente considerabili le più razziste e disumane (si sprecano i riferimenti alle bombe atomiche ed al radere al suolo Gaza); nonostante ciò, bisogna sottolineare per completezza che, dal punto di vista del diritto internazionale, queste dichiarazioni, per quanto deplorevoli, non possono fondare alcuna responsabilità in capo ad Israele: infatti, secondo gli Articoli sulla responsabilità degli Stati per atti internazionalmente illeciti, sono attribuibili alla responsabilità di uno Stato solamente gli atti compiuti da organi di tale Stato o da persone che agiscono sotto la direzione o il controllo di esso, ed i suddetti non rientrano in tale definizione. Viceversa, come si nota immediatamente, i membri del governo, della Knesset e delle forze armate israeliane sono pienamente considerabili organi dello Stato di Israele, e dunque gli atti da loro compiuti rientrano nell’ambito della responsabilità dello Stato.
Rifocalizzare il dibattito
Come detto, la questione della qualificazione giuridica di quanto sta avvenendo a Gaza è assolutamente aperta, e per questo bisognerebbe evitare di sbilanciarsi definitivamente verso l’una o l’altra soluzione prima della pronuncia della Corte Internazionale di Giustizia (per esempio evitando reazioni scomposte come quelle di Netanyahu e Gallant nei confronti delle misure provvisorie ordinate dalla Corte), fermo restando ovviamente il diritto di criticare tale pronuncia, quando arriverà, con dati ed argomentazioni alla mano (magari, anche qui, evitando di giocare la carta dell’antisemitismo, accusa quantomeno discutibile). Dal momento che – come è probabile – il processo in questione durerà anni, serve una certa sicumera per affermare di avere la soluzione in tasca, mentre alcuni dei più illustri giuristi del mondo si interrogano e si interrogheranno ancora a lungo sulla questione.
C’è però un altro problema: la definizione giuridica di un concetto rende automaticamente sbagliata la rispettiva nozione non-giuridica? In altre parole, ammesso e non concesso che le azioni di Israele non rientrino nella fattispecie giuridica di genocidio, è corretto obiettare ciò a chi utilizza il termine in un contesto e con un linguaggio non giuridico?
È utile un esempio per inquadrare meglio la questione: ciascuno di noi ha sentito parlare spesso del genocidio nel Darfur avvenuto nel Sudan occidentale tra il 2003 ed il 2005 ad opera del regime di Omar Al Bashir e ai danni delle persone di etnia Fur, Masalit e Zaghawa; tuttavia, è meno noto che il report all’Onu della Commissione internazionale d’inchiesta sul Darfur - dopo aver dato conto dei crimini di guerra, delle stragi indiscriminate dei civili, delle torture e degli stupri avvenuti nel Darfur - ha concluso che non si sono verificati atti qualificabili come genocidio, a causa della mancanza dell’intento genocidiario in capo al governo sudanese. Supponendo che la Commissione d’inchiesta abbia svolto correttamente il proprio lavoro di indagine, le conclusioni sono inoppugnabili: se manca uno dei due elementi costitutivi della fattispecie, non sussiste il crimine internazionale di genocidio; tuttavia, questo non significa che lo sterminio sistematico di 200.000 persone non sia definibile – si ripete, in un contesto e con un linguaggio non giuridico – un genocidio.
Per concludere, proprio il suddetto report evidenzia un altro problema relativo al dibattito sull’invasione della Striscia: il fatto che tutto ruoti attorno all’esistenza o meno di un genocidio, come se da questo dipendesse l’assoluzione di Israele da tutte le morti di civili innocenti che le sue azioni hanno direttamente provocato (secondo Al Jazeera, dal 7 ottobre ad oggi, i morti sono più di 30.000 di cui più di un terzo bambini, a cui si aggiungono almeno 70.000 feriti). Ciò deriva dal – comprensibile – pensiero comune per il quale il genocidio sarebbe il più grave e malvagio dei crimini contro l’umanità.
Tuttavia, come ha affermato anche il Tribunale penale internazionale per il Ruanda, non esiste una gerarchia astratta di gravità per quanto riguarda i crimini contro l’umanità, dunque la valutazione di gravità del crimine deve basarsi solamente sulle circostanze concrete del crimine stesso: per esempio, nonostante lo sterminio nel Darfur non sia stato ritenuto giuridicamente un genocidio, non per questo diventa automaticamente una tragedia meno grave del massacro di 8.000 bosniaci musulmani a Srebrenica nel 1995, quest’ultimo riconosciuto come un genocidio dal Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia.
Secondo lo stesso ragionamento, a prescindere dalla qualificazione come genocidio o meno delle azioni di Israele, non dovrebbe mutare l’assoluto disvalore associato alla sua condotta: le centomila persone tra morti e feriti restano tali, a prescindere dal nome dato alla loro uccisione.
“Restiamo umani”
(Vittorio Arrigoni)
Bibliografia
-Cannizzaro E. (2018) Diritto internazionale, Giappichelli, Torino
-Lemkin R. (1944) Axis Rule in Occupied Europe; Laws of Occupation, Analysis of Government, Proposal for Redress
-Ronzitti N. (1969) Genocidio, in Enciclopedia del Diritto, Giuffrè, Milano
Image Copyright: La Luce
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