di Caterina Amaolo.
C’è stato un momento, tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta del Novecento, in cui la tensione al mutamento e alla storicità sembrava essersi affievolita o spenta. Questa percezione aleggiava nell’aria e veniva captata da due concettualizzazioni filosofiche tra loro contemporanee. La prima, meno conosciuta, apparteneva a Baudrillard (Cfr. Baudrillard 1993); la seconda, più nota, era stata elaborata da un politologo americano di origine giapponese, Francis Fukuyama. In un libro pubblicato nel 1992 e intitolato La fine della storia e l’ultimo uomo, egli teorizza la nozione, icastica e semplificativa, di «fine della storia».
La teoria di Fukuyama pone i suoi presupposti teorici nelle lezioni e nei saggi filosofici di Kojéve sulle dinamiche oppositive della dialettica servo-padrone, fulcro della teoria filosofica di Hegel (Cfr. Hegel 1807: cap. IV) e della filosofia economica di Marx (Cfr. Marx 1867). Kojéve condurrà la teoria filosofica marxista-hegeliana a esiti ulteriori e arriverà a dire che le dinamiche proprie della dialettica servo-padrone sono le stesse su cui fonda i suoi presupposti la lotta di classe tra ceto borghese e aristocrazia. Nel momento in cui questa dialettica si arresterà, si verrà a formare lo Stato moderno. Uno Stato fondato sulla parità giuridica tra i cittadini, che riconosce ogni individuo come soggetto e non come suddito, che accorda a questo una certa quantità di diritti. In quel momento, non esisteranno più signori e servi (lo si sa, questa è una finzione giuridica: l’asimmetria sociale è tangibile, continua ad esserci ed è percepita).
La tesi di Fukuyama è piuttosto semplice. Egli sostiene che dopo la caduta del muro di Berlino il 9 novembre 1989, la tensione alla storicità che era stata generata dal conflitto interno alla Guerra Fredda tra due modelli di mondo − il comunismo da una parte e il modello capitalista dall’altra – si arresta. L’ordine capitalistico, che filtrerà nelle esistenze umane sottoforma di consumismo, avrà il sopravvento e non ci sarà più tensione al mutamento. Tutto ciò che accadeva dopo il 1989 su scala planetaria, dalla Guerra del Golfo alle guerre etniche nell’ex-Jugoslavia, dalla dissoluzione degli Stati africani alla crisi in Giappone, in Sudamerica o nei Paesi dell’Est Europa, sembrava incapace di trasformare il modello sociale che alla fine della Guerra fredda aveva conquistato l’egemonia del pianeta. L’idea che fosse possibile costruire una forma di vita differente, l’idea che questa possibilità poggiasse su una teoria politica, l’idea che potesse verificarsi tutto ciò che si lascia racchiudere nella parola Rivoluzione, sembrava non esistere più. Se il Novecento era stato un secolo percorso da due forze politiche che si contendevano il dominio delle masse proponendo modelli di mondo reciprocamente ostili; lo stesso secolo si chiudeva con una vittoria simbolica, prima ancora che pratica: la democrazia liberale e il portato politico economico che la definiva era l’unica opzione realisticamente possibile. L’idea che potesse realizzarsi un nuovo modello di mondo era difesa solamente da minoranze esigue e per questo irrilevanti.
Gli anni delle crisi
Le vicende che si verificheranno nel secolo successivo sembrano smentire con forza la tesi di Fukuyama. Gli anni Zero sono gli anni delle crisi (politica, economica, culturale, ecologica). Due eventi epocali segnano due momenti di discontinuità: l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 (Mazzoni 2015: 88-89); il fallimento della Lehman Brothers, e il conseguente scoppio della crisi dei subprime, il 15 settembre 2008. Il portato pubblico di queste due date è stato acuito da una terza mutazione antropologica che cade a metà degli anni Zero e che modificherà le sorti della società moderna e la postura psicologica degli individui che ne fanno parte: la nascita dei social network e di YouTube.
Nell’ultimo decennio la democrazia, abbandonata a sé stessa, ha rischiato di degenerare nella sua forma più pura (e più pericolosa), il populismo. Le due grandi rivoluzioni che stanno all’origine del nostro mondo, quella industriale e quella francese, sono allegoria delle forze che guidano le metamorfosi del mondo moderno: la Tecnica e la Grande Politica, quella che non si limita ad amministrare ciò che già esiste ma cerca di cambiare le forme di vita. Oggi è chiaro che la seconda è uno spettro, mentre la prima è sempre di più il vettore del cambiamento, la potenza che trasforma l’economia, la vita psichica, la convivenza civile. La fine delle grandi narrazioni e di altri dispositivi che creavano un legame tra destini privati e grande storia, segna una faglia profonda.
Le forze antisistemiche accrescono il loro potenziale: rompono con la visione dominante del mondo, col linguaggio e con un certo modo di fare politica proprio dei vecchi partiti sistemici. Intercettano la rabbia delle classi popolari e delle classi medie. Quando il benessere declina, le masse fanno emergere la loro parte più irrazionale che, un tempo, i grandi partiti di massa riuscivano a edulcorare. È eloquente, in questo senso, ciò che si è verificato nel panorama politico italiano. Alle elezioni politiche del 2018 (Cfr. https://elezioni.repubblica.it/2018/cameradeideputati), ha ottenuto la maggioranza relativa un partito che amalgama elementi di destra, tratti democristiani ed elementi di sinistra in un puzzle instabile e precario che ne sta decretando la sua stessa crisi: il Movimento 5 Stelle. Il 21,7% dei voti andava a forze antisistemiche di destra, a posteriori quelle più forti. Questo processo di regressione democratica ha avvio, nella storia italiana, a partire da una data precisa: il 1994. In quell’anno Berlusconi (un nome, una metonimia) vinse le elezioni spazzando via un certo sistema politico e portando la società dello spettacolo, e i suoi meccanismi brutali di massa, al potere. L’impoverimento del dibattito politico che oggi mostra tutta la sua pervasività, affonda le sue radici in questo processo. Berlusconi avvicinava il proprio discorso politico al senso comune delle classi popolari depoliticizzate costruendo una cultura pop che si proponeva come alternativa alla cultura dalle vecchie scuole di partito. Nei grandi partiti di massa del dopoguerra le classi dirigenti raccoglievano i bisogni e gli umori della base e li portavano a un grado di elaborazione più alto attraverso ideologie, parole d’ordine e significanti-guida che ripulivano gli interessi di parte dal loro elemento viscerale. La distanza culturale e linguistica fra elettori e gruppi dirigenti non veniva mai meno: veniva mediata da mitologie collettive e da grandi apparati di propaganda, ma non scompariva. La capacità di non far degenerare il suffragio universale in populismo era una delle più grandi conquiste che le democrazie postbelliche rivendicavano. Oggi sappiamo che questa cosa non è più scontata.
La storia, allora, è davvero finita?
Chi, oggi, vive nelle democrazie occidentali non è disposto a privarsi, né del tutto né in parte, di quella bolla di benessere privato che il sistema capitalistico gli accorda. Questa consapevolezza è cresciuta dopo il trauma della Grande Guerra. Gli eventi iper-contemporanei ci dicono che la storia non è finita: gli attacchi dell’Isis hanno destabilizzato il cuore dell’Europa a più riprese, l’insurrezione a Capitol Hill del 6 gennaio 2021 ha scosso la democrazia nel territorio in cui è nata, la pandemia ha arrestato le dinamiche economico sociali di un mondo che correva veloce e ne ha ristabilito i confini. La rivendicazione russa di territori ucraini con un gesto vecchio di un secolo, l’attraversamento di un confine con dei carrarmati, è la prova cocente dell’incapacità dell’individuo contemporaneo di storicizzare il suo passato prossimo, sebbene sia iperprotettivo con il suo passato remoto. La Cina si profila come la nuova super potenza economica mondiale. Negli ultimi vent’anni la presenza cinese sul continente africano, ad oggi in crescente sviluppo e un tempo appannaggio europeo, è aumentata vertiginosamente ed è un fatto indiscutibile. Nonostante ciò, sembra chiaro che la forza della Cina risieda in un sistema produttivo privo di forme di tutela della forza-lavoro che il movimento operaio e sindacale europeo conquistò a suo tempo, e a scapito di libertà e diritti non negoziabili da i più.
Se è vero, dunque, che le cose accadono; è altrettanto vero che, ad oggi, la tensione alla storicità non si è più presentata con la forza di un tempo. Di eventi, dopo il 9 novembre 1989, ce ne sono stati molti su scala planetaria; nessuno di questi ha, però, aperto una nuova contrapposizione tra modelli di mondo. Percepiamo con forza le contraddizioni interne al modello capitalistico; la legittimità delle democrazie liberali talvolta vacilla. Nonostante ciò, non esiste in Occidente un’alternativa reale, organizzata e autenticamente politica al capitalismo.
Se la storia di ogni società fin ora, è storia di lotte di classi, se il conflitto si conclude «o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta» (Marx-Engels 1948: 56), oggi l’ipotesi più probabile è il collasso sistemico non la rivoluzione. Riduco ogni mia pretesa di totalità alla contingenza inevitabile di una verità che in quanto umana, può darsi solo, come sempre, in divenire.
BIBLIOGRAFIA
-Baudrillard, J. (1993). L’illusione della fine o lo sciopero degli eventi, Milano: Anabasi.
-Fukuyama, F. (2020). La fine della storia e l’ultimo uomo, Torino: UTET.
-Hegel F. (2011). Fenomenologia dello spirito, Milano: Bompiani.
-Kojéve A. (1996). Introduzione alla lettura di Hegel: lezioni sulla “Fenomenologia dello spirito”
tenute dal 1933 al 1939 all’École pratique des hautes études, Milano: Adelphi.
-Marx K. (1980). Il capitale, Roma: Editori riuniti.
-Marx K., Engels F. (1980). Manifesto del partito comunista, Roma: Editori riuniti.
-Mazzoni G. (2015). I destini generali, Roma-Bari: Laterza.
-Mazzoni G. (2017). Quattro crisi politiche, in https://www.leparoleelecose.it/?p=34434.
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