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Contro il concetto di natura. Appunti per un'ecologia radicale. Parte I


di Matteo Bronzi.


Negli ultimi anni la natura, intesa in senso generico e astratto, ha fatto irruzione nelle nostre vite sotto diverse forme e attraverso molteplici narrazioni, molto spesso contrastanti. Pubblicità che invadono gli schermi e che ci rimandano ad un immaginario radioso di futuro, il verde, oramai onnipresente, che ci ricorda quanto le multinazionali si stiano impegnando per l’ambiente, o piuttosto quanti soldi stiano spendendo in espertə di marketing; discorsi pubblici e dibattiti sul ruolo che questo o quel paese sta svolgendo all’interno della grande lotta contro il cambiamento climatico, transizione energetica, transizione ecologica, green capitalism, Green New Deal, storie di estinzione e di catastrofi. Viviamo in tempi complessi, ma in questa corsa ai ripari narrativi la complessità non ha riscontrato un grande appeal, si è preferito provare a semplificare il più possibile, dando risposte rapide piuttosto che riflettere se le domande alla base fossero quelle giuste. Con questo articolo ci si propone di restituire un po’ della complessità, senza la pretesa di completezza, che questi argomenti richiedono, partendo proprio dal ripensare quali domande farci quando parliamo di natura e di ecologia. Il concetto stesso di natura, infatti, contiene al suo interno una molteplicità di piani di lettura, di visioni del mondo, ma soprattutto storie di esclusione, relazioni di violenza, processi di spoliazione e sfruttamento, stratificazioni profonde tra gli esseri umani, tra l’umano e il resto del mondo, vivente e non-vivente (Tola, 2022). Per dirla con Razmig Keucheyan, la natura risulta essere oggi più che mai un campo di battaglia (2019).


Nell’immaginario collettivo occidentale, infatti, il termine natura si costruisce subito in maniera chiara e neutrale, attraverso una compartizione rigida fra ciò che viene considerato naturale e ciò che viene considerato artificiale, umano, o, se volessimo utilizzare una dicotomia fondamentale nel dibattito ecologico, una netta separazione fra natura e cultura.

Andando a scavare l’origine di questa dicotomia, vediamo che le sue fondamenta si ritrovano nella rivoluzione scientifica del XVII secolo, come affermato dalla storica dell’ambiente Carolyn Merchant (1988), andandosi poi ad amplificare e diffondere attraverso le evoluzioni del pensiero filosofico, come l’astrazione dei luoghi nello spazio cartesiano o la lettura del mondo per categorie teorizzata da Kant, ma si ritrovano anche sotto forma di frammenti in tutta la tradizione intellettuale giudeo-cristiana.


Francis Bacon, tradizionalmente indicato come il fondatore della scienza moderna, vedeva nella padronanza sulla natura un ordine divino, reso necessario dalla caduta dal giardino dell'Eden. L'armonioso equilibrio perso tra ‘l'uomo e la natura’ poteva ancora essere recuperato attraverso il benefico dominio dell'uomo sulla natura. Tale padronanza poteva essere ottenuta solamente attraverso l'applicazione della così detta tecnica, sviluppata a sua volta attraverso ‘l'inquisizione della natura’. Infatti, solo scavando sempre più a fondo nella mente della conoscenza naturale l'uomo avrebbe potuto sviluppare i mezzi di dominio sulla natura.


Nella prospettiva di Bacon, che aprirà la strada alla costruzione del metodo scientifico, vediamo come la natura venga sempre collocata come un oggetto esterno di cui appropriarsi. Tale collocazione non è né arbitraria né accidentale (Smith, 1984). La costruzione della scienza e la formulazione di un metodo scientifico che avesse la pretesa di essere oggettivo e neutrale hanno portato alla produzione di sapere culturale, un sapere che, non solo si proponeva come astratto dalle relazioni con l’ambiente nel quale ere immerso, ma portava anche alla giustificazione, nonché all’organizzazione, di una costante appropriazione e categorizzazione degli organismi viventi e non-viventi, producendo di fatti un eccezionalismo dell’uomo, inteso come maschio bianco, sulla natura. Come Foucault ci insegna, per quanto tale processo possa essere narrato come neutrale, dove vi è in atto la produzione di confini, vi è anche una costruzione politica dell’altrə che mira a escluderlə, da determinati spazi o da un determinato sapere, attraverso la messa in atto di dispositivi di controllo e disciplinamento. Ecco che ritroviamo nell’organizzazione delle tassonomie e delle specie una continua produzione di confini e barriere atte a riprodurre il controllo di una ristretta parte del mondo sul resto. Tale processo diventa sempre più concreto nelle nostre menti se lo si incomincia a leggere attraverso le sue varie operativizzazioni nel corso della storia. Prendiamo ad esempio il progetto coloniale, ancora pienamente attuale, basato sulla costruzione della soggettività nativa/migrante, come selvaggia/naturale, al fine di giustificarne il totale assoggettamento e sfruttamento; o le studiose femministe ed ecofemministe, Silvia Federici fra le più importanti, che individuano nella costruzione della natura come elemento sessualizzato e femminile l’impianto di potere alla base dell’oppressione patriarcale. È chiaro quindi come un termine, entrato nella nostra quotidianità in maniera neutrale e depoliticizzata, nasconda in realtà una stratificazione di micropoteri che vanno nella quotidianità a riprodurre il sistema di appropriazione e violenza nel quale costantemente ci troviamo a vivere. Tuttavia, non basta analizzare esclusivamente l’atto stesso di porre un confine, ma anche il punto dove esso viene situato risulta essere centrale per una critica al concetto di natura.


Qui si aprono necessariamente due nuove domande fondamentali per la nostra riflessione. Dove si situa questo confine? E soprattutto chi lo posiziona?

Usciamo per un attimo fuori dal testo, stacchiamo gli occhi dal computer o dal telefono e dirigiamoci verso il primo parco pubblico, il primo giardino comunale che abbiamo a disposizione nel raggio di una camminata. La concezione del giardino, storicamente parlando, ha l’obiettivo di riconnettere la popolazione urbana con la ‘natura’, farle esperire una fuga dalla quotidianità del cemento. La sublimazione della nostra gioia di passeggiare per i viali alberati o in mezzo ad un prato viene meno davanti alla domanda: tutto ciò è naturale? La questione è quanto meno complessa ma, piccolo spoiler, la risposta è no.


Attraversando gli stessi viali alberati, lo stesso prato alle cinque di mattina vedremo giardinieri, muniti di adeguate tecnologie, intenti a produrre quella natura, potando gli alberi, tagliando il prato e mettendo a dimora nuove piante a sostituire le morenti, per riprodurre l’immagine naturale che abbiamo di quel luogo ogni giorno. Una passeggiata in un giardino è un’esperienza culturale confezionata tanto quanto un parco a tema o un centro commerciale.

Il concetto di produzione della natura, introdotto dal geografo scozzese Neil Smith nel suo libro Uneven Development (1984) ha il ruolo fondamentale di far esplodere molte contraddizioni della narrazione contemporanea della natura, soprattutto nella grande corsa alla transizione ecologica.


Non c’è niente di naturale intorno a noi, tutto ciò che ci circonda è socialmente e storicamente prodotto. Non c’è nessuna natura incontaminata a cui aspirare o tornare. Partendo dai giardini, la forma più evidente di spazio prodotto, arrivando fino ai boschi delle nostre montagne, alle piante, agli ortaggi, agli animali, ai batteri e ai virus, fino al nostro corpo. Tutto è continuamente prodotto, riprodotto e trasformato socialmente, in particolare negli ultimi secoli all’interno dei processi di potere del sistema capitalista. Questi processi di produzione e riproduzione sono stati spesso e volentieri omessi all’interno della storia naturale, della biologia, dell’ecologia e delle scienze dure in generale, dove la società non trova quasi mai posto se non come esternalità. Tali scienze, infatti, rifacendosi alla visione oggettivizzata ed esterna della natura, ne analizzano esclusivamente e separatamente singole parti, studiandole e misurandole per ottenere una maggiore conoscenza delle loro leggi meccaniche (Merchant, 1988) e un maggiore controllo nell’appropriarle.

Come Smith (1984) afferma, lo stesso Newton, quando guardava la mela cadere, non si chiedeva delle forze sociali e degli eventi che avevano portato alla piantagione del melo e alla progettazione del giardino, dettando la posizione precisa della mela che cadeva. Né si è chiesto dell'addomesticamento degli alberi da frutto che hanno dato alla mela la sua forma. Chiedeva piuttosto dell'evento ‘naturale’, definito in astrazione dal suo contesto sociale.


Tale astrazione degli organismi viventi e non-viventi, presi singolarmente o all’interno di insiemi come gli ecosistemi, per quanto abbia la pretesa di un’oggettività scientifica, si inserisce perfettamente all’interno dei meccanismi neoliberali di sfruttamento, appropriazione ed estrazione di valore che si ritrovano sia all’interno dei processi di produzione industriale delle merci quanto nei processi di salvaguardia e conservazione dei parchi naturali. C’è un’evidente contraddizione quindi fra questo processo di produzione e la narrazione di una natura idilliaca ed intatta, che non esiste, da proteggere e conservare, ma solo ed esclusivamente in determinate aree e con precise modalità. Ma è proprio il far apparire naturali questi processi il grande gioco su cui si basa tale sistema, come la vendita di un prodotto marchiato come biologico ma prodotto dall’altra parte del mondo in una serra, oppure la creazione degli indici di biodiversità su cui basare la progettazione territoriale. Proprio rispondendo quindi alla domanda del ‘chi impone tali confini’ vedremo nascoste storie di privilegio e appropriazione.


Il termine natura ha esaurito la sua capacità di descrivere il presente. Al suo interno si generano delle crepe sostanziali, che si aprono a mano a mano attraverso nuove teorie radicali e pratiche sociali collettive messe in atto da movimenti e soggettività subalterne, che puntano a mettere in evidenza tali contraddizioni. Teoriche e attivistə da tutto il mondo stanno lavorando per pensare nuovi pensieri (Haraway, 2018), nuovi modi di re-immaginare il mondo dove viviamo. Per quanto possa sembrare astratto, riformulare i concetti con cui descrivere ciò che ci circonda risulta essere un ottimo punto di partenza, un esercizio, non solo di stile, ma politico, per generare nuove pratiche e nuovi mondi. Intorno a noi vediamo, infatti, una complessità di relazioni, reti di organismi, organici e inorganici, che generano interazioni, legami e alleanze fra umano e non-umano, tali che per descriverli non può essere più sufficiente il termine natura. I limiti stessi posti dalla dicotomia artificiale/naturale risultano non più essere adeguati e sempre più questionati. Parlare di nature al plurale, permette di restituire una molteplicità di esperienze ed immaginari in continua evoluzione, decoloniali, indigeni, contro-egemonici, femministi. Le nature sono uno spazio di contraddizione, di conflittualità, ma ora più che mai è necessario ripoliticizzarle, stare con il problema (Haraway, 2018), ripartire dalle crepe, generare nuove alleanze fra umano e non-umano, per una politica dei margini che possa sovvertire il presente.




Bibliografia


-Haraway, D. (2018). Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto. Roma: Nero Not

-Keucheyan, R. (2019). La natura è un campo di battaglia. Saggio di ecologia politica. Verona:

ombre corte

-Merchant, C. (1988). La morte della natura. Le donne, l’ecologia e la rivoluzione scientifica.

Milano: Garzanti Editore

-Smith, N. (1984). Uneven Development. Nature, Capital, and the Production of Space. Athens:

The University of Georgia Press

-Tola, M. (2022). La natura della modernità: discorsi dominanti e contestazioni, in Bronzi M. e

Ciarleglio C. (a cura di). Contro-nature. Introduzione all’ecologia politica. Roma: DeriveApprodi






Copyright Front Images: Andreco e Motus, L'Erba Cattiva (l'an mor mai), 2015, parata per

Santarcangelo dei teatri. Ph. Marco Sfrevol Montanari

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