Fallocentrismo: analisi di un dominio
- Koinè Journal
- May 23
- 4 min read

di Denise Capriotti.
Radici storiche e critica al modello maschile
Nella teoria psicoanalitica freudiana si trova un concetto tanto controverso quanto influente: il “fallocentrismo”. Secondo questa visione, il fallo – simbolo del potere sessuale e generativo maschile – occupa una posizione centrale nella costruzione della sessualità e dell’identità. Una concezione che ha condizionato per secoli l’immaginario collettivo e la struttura dei rapporti tra i sessi.
Il termine “fallo” affonda le sue radici linguistiche nel greco “paós-phallós”, con legami ancora più antichi nel sanscrito “phalati” (che significa “germogliare, fruttificare”) e nella radice protoindoeuropea “bel-phal” (“gonfiare, gonfiarsi”). Un'etimologia che riflette la visione arcaica della fertilità, in cui il seme maschile veniva considerato l’unico principio attivo della generazione della vita, mentre il ruolo femminile era relegato a quello di un semplice “contenitore” passivo.
Questa concezione fu sostenuta da pensatori come Aristotele, secondo cui la capacità generativa risiedeva unicamente nell’uomo. Le donne, nella sua visione, erano sterili per natura, escluse dalla partecipazione attiva al processo riproduttivo. Una visione che contribuì alla costruzione di un modello sessuale e sociale profondamente asimmetrico.
Il fallocentrismo, oltre a essere un concetto psicoanalitico, ha assunto nel tempo anche un significato culturale e simbolico più ampio.
Nella teoria lacaniana l'esistenza del sesso femminile fu anche messa in discussione, poiché si concluse che esistesse un solo sesso, il maschile. Essere donna significava essere un maschio senza sesso, cioè castrato, poiché è solo l'uomo a possedere il fallo (pene).
Proprio su questa interpretazione si è concentrata la critica del filosofo Jacques Derrida, il quale ha denunciato l’impronta maschile della lingua e dei codici simbolici della società. Secondo Derrida, il linguaggio stesso è costruito su presupposti che svalutano e opprimono la donna.
Dal Novecento con la nascita dei movimenti femministi in tutto il mondo, il concetto di fallocentrismo ha iniziato a essere messo in discussione. Da simbolo di potere è divenuto oggetto di critica: emblema di una società patriarcale che impone modelli culturali e sessuali unilaterali, escludendo la donna dalla piena soggettività.
Il fallocentrismo, in questa nuova lettura, viene visto come una forma di dominio radicata nella storia e nei linguaggi, che ha limitato l’autonomia sessuale e psicologica delle donne.
Parole e potere di una società patriarcale
Il linguaggio, che utilizziamo ogni giorno, è una delle infrastrutture simboliche più potenti su cui si fonda la cultura. Nella società patriarcale, ogni parola contribuisce a costruire, mantenere e legittimare relazioni di potere. È così che le espressioni quotidiane, apparentemente innocue, diventano veicoli di stereotipi sessisti, eteronormativi e fallocentrici.
Nel corso del tempo analizzare il linguaggio è divenuto un atto politico, poiché significa mettere in discussione ciò che ci è stato insegnato a considerare “naturale”.
Dire che qualcunə “ha le palle” per intendere che è coraggiosə, oppure che una donna “ha le palle” per legittimarne la forza, rivela quanto la virilità sia il metro di misura del potere. Il coraggio, la determinazione, l’ambizione: tutte qualità positive che, nel linguaggio comune, vengono declinate attraverso simboli fallici. L’identità femminile, al contrario, è ancora legata a debolezza, emotività, fragilità: tratti svalutati, perché considerati non funzionali alla leadership.
Una donna forte e capace viene spesso definita “cazzuta”. È un complimento che, però, presuppone un’appropriazione del maschile per essere riconosciutə autorevole. Il potere è legittimo solo se fallico.
Intanto, le espressioni che descrivono sconfitta o vulnerabilità sono intrise di sessismo e omofobia: “siamo fottuti” e “l’abbiamo presa nel culo” usano la sessualità passiva – femminile o omosessuale – come sinonimo di sottomissione, inganno, perdita di dignità.
Questo schema binario, in cui il dominio è attivo e maschile e la sottomissione è passiva e femminile, si riflette anche nel linguaggio che usiamo per i sentimenti: “non fare la femminuccia” è un rimprovero, non un invito all’empatia. Mostrare emozioni è un difetto, un tratto da reprimere perché associato al femminile. Così il patriarcato plasma anche l’identità maschile, costringendo gli uomini a modelli tossici e competitivi, incapaci di accogliere la vulnerabilità.
Il lessico del lavoro non è meno segnato: una donna “in carriera” è vista come un’eccezione, mentre il “capo” è sempre maschio per default. Alcuni mestieri vengono ancora descritti come “da uomo”, altri come “da donna”, e chi li attraversa in modo non conforme è spesso oggetto di discriminazione. Il linguaggio riproduce e conferma ciò che la cultura ha deciso di rendere “normale”: la divisione gerarchica dei ruoli.
Persino nella grammatica l’universale è maschile. In italiano, dieci donne e un uomo diventano automaticamente “tutti”. L’invisibilizzazione linguistica non è solo una questione formale: è una cancellazione simbolica e sistematica di tuttə coloro che non si riconoscono nel maschile dominante. Chi non si conforma, chi non è uomo, bianco, etero e cisgender, resta ai margini anche nel discorso, costrettə a tradursi in una lingua che non lo contempla.
Il linguaggio fallocentrico non è solo un effetto del patriarcato: è anche uno strumento per mantenerlo in vita. Parlare “bene”, con consapevolezza, è un atto di resistenza. Riconoscere la violenza che abita le parole è il primo passo per cambiarle.
Le parole non sono mai innocue: definiscono ciò che esiste, rendono legittimo o inaccettabile, umano o sacrificabile. Chi controlla il linguaggio, controlla l’immaginario e la realtà.
Non possiamo costruire un mondo diverso continuando a parlare come se nulla dovesse cambiare. La rivoluzione è anche semantica: passa dal rifiuto degli schemi imposti e dalla risignificazione del potere. Non si tratta solo di sostituire parole, ma di disinnescare l’ideologia che esse portano.
Un linguaggio inclusivo, femminista, antirazzista e queer non è “esagerato”: è il fondamento di una cultura che non esclude, non violenta, non opprime.
Come disse Michela Murgia: “Il patriarcato riconosce solo il potere che ti concede, mai quello che ti prendi da solə”. Cambiare linguaggio significa smettere di chiedere il permesso. È un gesto di libertà, di rottura, di riscrittura.
Ogni parola che scegliamo è un mattone: può rafforzare il vecchio sistema o contribuire a costruirne uno nuovo. La trasformazione sociale parte anche da qui: dalla voce con cui scegliamo di raccontarci.
Bibliografia
Michela Murgia, “Stai Zitta”, Feltrinelli, 2 marzo 2021
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