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Il "Paradosso della Piazza" secondo la psicologia sociale

  • Writer: Koinè Journal
    Koinè Journal
  • 12 minutes ago
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di Riccardo Cuppoletti.


Passeranno alla memoria collettiva le immagini della sterminata moltitudine di cittadini riversatasi nelle piazze nelle ultime settimane a sostegno del popolo palestinese, vittima unilaterale di un conflitto di violenza inaudita. Milioni di persone nelle piazze d’Italia, e non solo, mosse dalla volontà di riportare l’attenzione sulla questione e di manifestare in difesa dei diritti umani, calpestati senza scrupoli in una strage ingiustificabile.

Ma quali fattori e motivazioni spingono individui distanti geograficamente e culturalmente a prender parte alla sofferenza di un popolo oppresso?

La risposta non sta solo nella politica o nella morale, ma anche -e, forse, soprattutto- nella psicologia sociale e nei processi che regolano la nostra appartenenza, le nostre emozioni collettive e la costruzione del “noi”.

 

Secondo la teoria dell’identità sociale (Tajfel & Turner, 1979), gli individui definiscono sé stessi anche in base ai gruppi a cui appartengono: politici, culturali, religiosi, ma anche simbolici. Ogni gruppo fornisce un senso di appartenenza e di significato (ingroup), soprattutto quando si contrappone a un “altro” (outgroup) percepito come minaccia o ingiustizia.

Questo processo di identificazione si fonda su un meccanismo cognitivo di base: la categorizzazione sociale (Tajfel, 1972). Essa rappresenta il modo in cui la mente umana semplifica la complessità del mondo, suddividendo persone e gruppi in categorie che consentono di orientarsi nella realtà sociale. È un processo inevitabile e funzionale, ma che può portare a irrigidire le distinzioni tra “noi” e “loro”, alimentando stereotipi o polarizzazioni quando viene applicato in modo rigido.


Tajfel e Turner sottolineano come la percezione di appartenenza possa essere rivolta solo a un gruppo alla volta. In altre parole, tendiamo a identificarci con il gruppo per noi psicologicamente più saliente in base al contesto in cui ci troviamo. Per fare un esempio, se ci capitasse di incontrare un gruppo di persone all’estero, istintivamente ci identificheremmo con gli altri italiani presenti. Se poi la conversazione si spostasse sulla cucina, ci sentiremmo vicini a coloro che condividono i nostri gusti, non necessariamente solo connazionali. Ma se la discussione volgesse alla politica, sceglieremmo il nostro “noi” in base alle idee, non alla nazionalità o all’apprezzamento per un certo piatto. È una sfumatura fondamentale, perché mostra come la nostra identità non sia fissa, ma dinamica: possiamo sentirci parte di un gruppo nazionale in un contesto, e di un gruppo morale o politico in un altro.


Ciò che rende stabile questa appartenenza, spesso, è la percezione di valori condivisi. Anche se per Tajfel e Turner non è necessario che un gruppo abbia un insieme di valori comuni per esistere, la condivisione di principi — come la giustizia, la libertà o la solidarietà — rafforza il legame interno e rende il gruppo più coeso. È questo, in molti casi, che spinge le persone a sentirsi parte di un “noi” anche quando non si conoscono personalmente: il senso di condividere una visione del mondo.


Una volta che un gruppo si struttura attorno a valori condivisi, tende naturalmente a rafforzare la propria coesione interna e a definire più nettamente i confini che lo separano dagli altri. È un meccanismo spontaneo: per sentirci parte di qualcosa, abbiamo bisogno di sapere da chi o da cosa ci distinguiamo (quindi dall’outgroup).


Questo processo, descritto da Tajfel e Turner, può portare a un fenomeno noto come polarizzazione di gruppo (Moscovici & Zavalloni, 1969). Quando persone che condividono la stessa opinione o sensibilità discutono tra loro finiscono spesso per rafforzare reciprocamente le proprie convinzioni, spostandosi verso posizioni più nette e radicali.

Non è tanto un segno di estremismo, quanto una conseguenza del funzionamento stesso delle dinamiche sociali: sentire di appartenere a un “noi” moralmente giusto spinge a difendere con più forza quella posizione.

 

Per comprendere meglio come si formi l’identificazione con cause lontane, un esempio significativo è l’uccisione di Mahsa Amini, nel settembre 2022, in Iran: arrestata dalla "Polizia Morale" per aver indossato male l’hijab, la sua morte suscitò una vasta ondata di proteste nel Paese che si tradusse in scontri tra cittadini e forze dell’ordine perpetrati per diversi mesi, oltre che indignazione internazionale e una ferma condanna del regime iraniano.

Per dare un senso più ampio a questo evento, è utile ricordare la natura del sistema politico iraniano e il ruolo centrale degli ayatollah. Il termine “ayatollah”, che in persiano significa “segno di Dio”, indica le massime autorità religiose dell’Islam sciita, figure di riferimento per la comunità nella legge e nella spiritualità. Dopo la Rivoluzione islamica del 1979, però, l’ayatollah assunse anche una dimensione politica: il principio della velayat-e faqih stabilisce che la guida suprema dello Stato deve essere un esperto di diritto religioso, garantendo il primato della fede sulla politica. Da allora, l’Iran è una Repubblica Islamica in cui il Leader Supremo — oggi l’Ayatollah Ali Khamenei — esercita influenza diretta su governo, esercito e magistratura, rendendo il diffuso malcontento della popolazione comprensibile, così come la condanna del regime da parte dell’opinione pubblica internazionale.


Eppure, pochi mesi fa, quell’indignazione sembrava svanita, quando, nel giugno di quest’anno, l’Iran rispose con bombardamenti su Tel Aviv dopo i raid di Netanyahu su siti nucleari strategici, suscitando l’approvazione di una parte dei filopalestinesi.

Come spiegare questa – assolutamente umana – contraddizione?

 

Dalla prospettiva della psicologia sociale, l’identificazione con la causa palestinese può essere spiegata attraverso l’intreccio di diversi processi: identità sociale, che abbiamo già discusso, metacontrasto e permeabilità dei confini tra gruppi.


Secondo la teoria di Tajfel e Turner, quando i confini tra gruppi sociali appaiono impermeabili — cioè quando non si intravedono possibilità di cambiare la propria posizione o di dialogare con il gruppo percepito come dominante — le persone tendono a cercare supporto nell’ingroup per attuare strategie collettive di cambiamento.


Nel contesto del conflitto israelo-palestinese, questi confini simbolici e morali tra “noi” e “loro” appaiono particolarmente rigidi: da un lato chi detiene il potere (Israele e, per estensione, l’Occidente), dall’altro chi lo subisce (la Palestina). Le categorie sono nette e, in questa prospettiva, identificarsi con il popolo palestinese assume il significato di una resistenza collettiva: un modo per schierarsi moralmente contro un sistema percepito come chiuso e iniquo. È in questo processo che molte differenze — culturali, religiose o ideologiche — vengono temporaneamente accantonate, in nome di un fronte simbolico comune contro l’oppressore.


Il principio del metacontrasto aiuta a comprendere come questo spostamento di identificazione avvenga nella pratica: le persone tendono a percepirsi come parte di un gruppo quando le differenze con l’“altro” (outgroup) appaiono più rilevanti di quelle interne al gruppo stesso (ingroup). In altre parole, quanto più sentiamo l’ingiustizia e il potere di chi domina, tanto più forte diventa il senso di unità interna tra chi condivide la resistenza. In questo modo, divergenze anche profonde (come quelle culturali o ideologiche con l’Iran) vengono momentaneamente minimizzate, perché ciò che conta non è la condivisione di tutti i valori, ma la comune opposizione a un nemico percepito.

Tuttavia, questo processo genera una tensione interna: la dissonanza cognitiva, ovvero quella sensazione di disagio che proviamo quando i nostri pensieri e le nostre azioni non sono del tutto coerenti (Festinger, 1957).


Questo per la mente umana, strutturata per ricercare coerenza, è un bel problema e c’è bisogno di una buona dose di creatività per sciogliere i nodi venuti al pettine. Come conciliare, dunque, la difesa dei diritti umani con il sostegno, anche solo simbolico, a un Paese che li limita?


Ridefinendo il significato dell’atto stesso: il sostegno non è rivolto all’Iran in quanto regime, ma inteso come simbolico contrappeso nella complessa questione palestinese. In questo modo, la coerenza identitaria viene preservata: il gesto continua a rappresentare la fedeltà ai valori del gruppo (giustizia, libertà, resistenza) anche se i dettagli concreti sembrano contraddirli.

In sintesi, la percezione che il governo dell’Iran condivida i valori salienti in questo contesto, attaccando (seppur per altre ragioni) l’oppressore, è sufficiente per categorizzarlo come appartenente al nostro ingroup e valutarlo più positivamente.


Ulteriore supporto a questa tesi viene dato dal lavoro di Jonathan Haidt (2012) che, nel suo modello di psicologia morale, mostra come le persone si mobilitino attorno a valori fondamentali come giustizia, lealtà, libertà o purezza. Tuttavia, questi valori non vengono applicati in modo uniforme: tendiamo a essere più indulgenti verso il “nostro” gruppo e più severi verso l’altro.

Così, chi sostiene la Palestina può interpretare il proprio impegno come difesa della libertà e dei diritti umani, anche se questo significa chiudere un occhio su comportamenti problematici di alcuni alleati. La coerenza morale, in altre parole, si definisce all’interno del gruppo, non in modo assoluto.

 

L’identificazione con una causa non è, dunque, un processo squisitamente individuale che si basa solo sulla propria moralità e percezione soggettiva della realtà, ma un percorso complesso che si sviluppa anche in una sfera del sé molto articolata e sensibile al contesto.

Comprendere questi meccanismi non significa giustificare o condannare ogni scelta, quanto piuttosto avere strumenti che permettano di leggere gli eventi che accadono intorno a noi con una consapevolezza più piena delle tensioni e delle contraddizioni che li attraversano.

La categorizzazione, in fondo, è inevitabile: è il modo in cui la mente umana ordina la realtà e costruisce il significato del mondo sociale. Ma se non possiamo evitarla, possiamo almeno renderla più consapevole, più permeabile, meno rigida, aprendo uno spazio maggiore al dialogo.

 

 

Bibliografia

Festinger, L. (1957). A theory of cognitive dissonance. Stanford University Press.

Haidt, J. (2012). The righteous mind: Why good people are divided by politics and religion. Vintage Books.

Moscovici, S., & Zavalloni, M. (1969). The group as a polarizer of attitudes. Journal of Personality and Social Psychology, 12(2), 125–135. https://doi.org/10.1037/h0027568

Tajfel, H. (1972). Experiments in a vacuum. In J. Israel & H. Tajfel (Eds.), The context of social psychology: A critical assessment (pp. 69–119). Academic Press.

Tajfel, H., & Turner, J. C. (1979). An integrative theory of intergroup conflict. In W. G. Austin & S. Worchel (Eds.), The social psychology of intergroup relations (pp. 33–47). Brooks/Cole.






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