di Davide Cocetti.
Le discussioni sull’opportunità di inginocchiarsi in sostegno al movimento Black Lives Matter, le battaglie sull’esposizione di simboli LGBTQ e il protagonismo di figure come Viktor Orbán e Boris Johnson hanno caratterizzato lo svolgimento degli ultimi Europei di calcio. Sorprende dunque che, in una delle edizioni più “politicizzate” degli ultimi anni, si sia parlato così poco del controverso legame che avvicina il mondo calcistico turco e il presidente Recep Tayyip Erdogăn. Probabilmente a ciò hanno contribuito le misere prestazioni della nazionale, a lungo strumentalizzata dalle istituzioni politiche e poi quasi scaricata dopo un girone deludente (tre sconfitte in altrettante gare). La selezione nazionale, ormai pienamente aderente alle direttive del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), rimane comunque uno dei maggiori successi calcistici di Erdogăn. Il calcio in Turchia, però, non è soltanto uno strumento di propaganda delle istanze egemoniche. Al contrario, il mondo del tifo anatolico accoglie da anni messaggi di resistenza e di dissenso.
Alcune premesse
Diversi sviluppi politici ed istituzionali dell’ultimo decennio hanno marcato una svolta in senso autoritario per la Turchia. L’espressione più evidente di questo progressivo cambio di rotta è il referendum costituzionale del 2017. La Repubblica turca da quel momento non è più parlamentare, bensì presidenziale. Il presidente riceve tutte le prerogative precedentemente attribuite alla funzione di Primo ministro, carica che nel 2018 viene abolita. Erdogăn da lì in poi deve rispondere solo alla sovranità popolare nazionale, senza trovare altri ostacoli sostanziali al proprio potere che non siano le elezioni presidenziali. Zafer Yilmaz, che ha studiato approfonditamente la natura del potere di Erdogăn, definisce il sistema politico turco attuale “plebiscitario-presidenziale”. Un meccanismo di questo genere si basa interamente sulla capacità di riscuotere un certo consenso presso la popolazione. A ciò è funzionale la retorica spiccatamente populista messa in moto da Erdogăn e dai membri dell’AKP. Viene invocato un nazionalismo tradizionalista banale, che insiste sulla necessità di recuperare le proprie radici storiche e religiose islamiste e difendere il proprio ruolo sullo scacchiere internazionale. Erdogăn nei suoi discorsi e nei suoi interventi si presenta come il difensore del popolo yervi ve milli (nativo e nazionale) dall’establishment e dai traditori.
La questione del consenso è particolarmente pressante per Erdogăn, che ha già dovuto affrontare situazioni di dissenso popolare e ne teme fortemente gli esiti. È anzi legittimo postulare che una di queste abbia contribuito fortemente alla svolta autoritaria del suo governo. L’episodio in questione risale al maggio 2013 e si tratta dell’occupazione del Parco di Gezi, situato nella piazza Taksim di Istanbul. Nata come protesta pacifica da parte di alcuni movimenti politici per contestare la rimozione del parco, la dimostrazione si trasforma ben presto in evento di rilevanza nazionale. L’eccessiva vigoria utilizzata dalla polizia per sgomberare il sit-in spinge migliaia di persone a riversarsi nelle vie e nelle piazze di Istanbul e delle altre grandi città turche per manifestare contro le violenze governative. Erdogăn decide però di mantenere il pugno duro contro le proteste, riuscendo a reprimerle con la forza. Il bilancio delle vittime ammonta a 9 morti, migliaia di feriti e un numero spropositato di arresti. I tumulti del Parco di Gezi mettono in luce diverse criticità della leadership di Erdogăn, tra cui il difficile rapporto con il mondo del calcio. Alla protesta, infatti, prendono parte anche migliaia di tifosi con maglie e simboli delle proprie squadre. I momenti più violenti delle manifestazioni vedono spesso come protagonisti i gruppi organizzati di supporters contrapposti alle forze dell’ordine in assetto antisommossa.
Capire il calcio turco
Per comprendere il perché di questa distanza, è necessario prima tratteggiare un quadro della situazione calcistica in Turchia. Il primo elemento da evidenziare è l’assoluta disparità nella ripartizione del tifo: Galatasaray, Fenerbahçe e Beşiktaş, le tre principali squadre di Istanbul, raccolgono oltre l’80% dei supporters turchi o di origine turca. Il secondo punto da sottolineare è il fatto che queste formazioni, separate da rivalità profondissime, hanno un tratto in comune: sono territorialmente radicate nei “quartieri secolari” della città, più aperti allo stile di vita moderno, laico, urbano e cosmopolita della classe media occidentale. Il terzo elemento da prendere in considerazione è la logica conseguenza di quanto appena detto: il pubblico “da stadio” delle principali città di Istanbul proviene perlopiù da questi quartieri, pertanto gode di una buona posizione sociale e di una discreta disponibilità economica, guarda con favore a modelli occidentali e mantiene un certo grado di laicità. Ciò è tanto più vero se si considera che il calcio in Turchia non è uno sport per tutti, o quantomeno non lo è nei termini in cui si è soliti descriverlo. Senz’altro è l’intrattenimento che attira il maggior numero di appassionati nel paese; tuttavia, seguire la propria squadra allo stadio comporta una spesa che le classi popolari faticano a sostenere. A dettare i trend del tifo sono dunque i sostenitori appartenenti al ceto medio, che possono permettersi una presenza assidua sugli spalti.
Il contesto a questo punto è delineato: in Turchia la stragrande maggioranza dei tifosi e degli appassionati di calcio è legata più o meno direttamente ad un modello di società moderno, cosmopolita e in una certa misura “occidentale”. A tal proposito, può essere utile sottolineare che, mentre lo Stato turco non fa parte dell’Unione Europea e difficilmente nel discorso pubblico viene associato al continente europeo, la Federcalcio turca fa parte dell’UEFA da oltre cinquant’anni e Istanbul ha ospitato diverse finali di competizioni calcistiche europee.
I primi scontri e provvedimenti
Il calcio turco, nonostante un grado di politicizzazione tendente allo zero, è per costituzione avverso al progetto dell’AKP, che propone un recupero di valori religiosi e politici di stampo tradizionalista. Proprio per questo, Erdogăn ha posto in cima alla lista delle priorità la questione calcistica. Già nell’aprile 2011 il governo dell’AKP approva la legge 6222, che «impone un inasprimento delle pene per i disordini, stabilisce la giurisdizione della Procura pubblica sulle questioni di calcioscommesse e propone un sistema di biglietti elettronici per gli incontri del massimo campionato». Si tratta di uno dei primi esempi di accentramento dei poteri: l’esecutivo, nella figura della Procura pubblica, si appropria di alcuni campi precedentemente di competenza del giudiziario.
Appena tre mesi dopo l’approvazione della norma, scoppia un gigantesco caso di match truccati. Tutto il calcio turco viene investito dalle indagini. È il Fenerbahçe a pagare il conto più salato: la squadra si ritrova esclusa dalle competizioni UEFA per l’anno successivo, ma soprattutto il presidente Aziz Yıldırım viene arrestato con l’accusa di organizzazione a delinquere e attività illecita. Molti sostenitori del club ritengono che dietro l’indagine si nasconda la volontà governativa di snaturare l’identità secolarista del Fenerbahçe. I tifosi, sotto lo slogan di “son kale Fenerbahçe” (“Fenerbahçe ultima fortezza”), aprono una breve ma intensa stagione di contestazioni verso Erdogăn, l’AKP e i movimenti loro alleati.
Lo scontro tra tifoserie e istituzioni si apre in maniera esplosiva in occasione dei già citati moti di Piazza Taksim del 2013. I sostenitori di Fenerbahçe, Galatasaray e Beşiktaş mettono da parte le loro storiche inimicizie per aderire in blocco alle contestazioni contro il regime poliziesco di Erdogăn. Moltissimi tifosi si riversano nelle strade di Istanbul (e in seguito di tutte le maggiori città turche) per far sentire la loro voce. Diverse sezioni del tifo organizzato, già note alle forze dell’ordine per essere piuttosto turbolente, danno il via ad una vera e propria campagna di guerriglia contro la polizia. Si distingue in tal senso il gruppo ultrà Çarşi, legato al Beşiktaş e ad idee profondamente anarchiche. I Çarşi, con il loro impegno sociale e il loro profondo antirazzismo, costituiscono una sorta di unicum nel panorama del tifo turco, tradizionalmente più interessato al campo che non ai contenuti politici. Il loro modus operandi, non dissimile da quello degli hooligans inglesi cui si ispirano, rappresenta spesso un modello anche per le altre tifoserie. Così molti gruppi organizzati, già specializzati in scontri con le forze dell’ordine prima e dopo gli incontri delle proprie squadre, seguono il modello di militanza rumorosa, se non apertamente violenta in alcune situazioni, dei Çarşi. Ciò costa anche guai a livello penale per il gruppo ultrà: trentacinque membri vengono processati per tentato colpo di Stato nel 2014.
La risposta di Erdogăn a queste difficoltà consiste in un’ulteriore stretta sul mondo del calcio. A partire da agosto 2013 ogni striscione o coro di stampo politico diviene passibile di sanzione, mentre l’anno seguente entra in vigore il sistema di biglietti elettronici Passolig. Il governo ha così modo di ottenere un controllo pressoché totale sugli spettatori allo stadio e sui loro dati. La distribuzione dei tagliandi di ingresso viene infatti affidata ad Aktif Bank, una banca vicina all’AKP e ad Erdogăn. Tale riforma, anziché allineare il tifo sugli spalti alle direttive governative, produce più che altro spalti vuoti. Nella stagione 2014/15, la prima dall’entrata in vigore integrale del sistema Passolig, il numero di ingressi allo stadio crolla del 35% circa rispetto all’annata precedente.
Tentativi (fallimentari) di costruzione del consenso
Erdogăn tenta in più modi di creare negli stadi una platea favorevole alla propria leadership. Durante le proteste di Piazza Taksim nascono diversi gruppi pro-AKP all’interno delle principali tifoserie turche. Questi hanno però vita molto breve, senza mai ricevere un aperto sostegno dalle istituzioni. Ben più deciso è l’impegno profuso dal governo nel rilancio di due club calcistici, l’Ankaraspor e l’Istanbul BB, ribattezzati rispettivamente Osmanlıspor e Istanbul Başakşehir.
La rinascita dell’Osmanlıspor si lega a Melih Gökçek, membro di spicco dell’AKP, plurieletto sindaco di Ankara e imprenditore molto interessato al mondo del calcio. Nel 2016 la squadra aggiunge addirittura il quinto posto in campionato, valevole per la qualificazione alle coppe europee. Appena toccata questa vetta, però, inizia un rapido declino, che nel giro di due anni porta il club addirittura alla retrocessione. Non è difficile vedere un legame tra il crollo calcistico dell’Osmanlıspor e quello politico di Gökçek, che esce dalle grazie di Erdogăn e viene costretto a dimettersi dalla carica di sindaco.
Più solido e duraturo appare invece il progetto dell’Istanbul Başakşehir. Non solo questo club è direttamente legato al presidente turco e ai suoi interessi, ma lo è anche il contesto urbano in cui è localizzato. Başakşehir è infatti un distretto municipale costruito quando Erdogăn era ancora sindaco di Istanbul e pensato per accogliere una classe media conservatrice ed islamista. Dal 2014, il club si ritrova proiettato ai vertici del calcio turco e si trasferisce nel nuovo stadio Fatih Terim. L’acquisto di grandi giocatori turchi e stranieri ha permesso alla squadra di lottare ogni anno per le primissime posizioni e diventare una presenza fissa nelle competizioni europee. Al termine della stagione 2019/20 il Başakşehir si laurea campione di Turchia per la prima volta nella sua storia.
Se i risultati sportivi possono inorgoglire Erdogăn, altrettanto non si può dire dell’affluenza del pubblico. Lo stadio Fatih Terim dal 2014 ad oggi accoglie tra i 2000 e i 5000 spettatori di media a partita; Beşiktaş e Galatasaray difficilmente scendono sotto i ventimila. Ancor meno dubbi lascia il dato riguardante le tessere Passolig personalizzate con i loghi dei club turchi. Il sito ufficiale del sistema ne riporta circa 57.000 per il Başakşehir, mentre Galatasaray e Fenerbahçe ne totalizzano oltre un milione a testa e il Beşiktaş più di ottocentomila. Addirittura il modesto Kayserispor, che attualmente milita nella seconda divisione turca, vede il suo logo su più tessere Passolig, quasi 75.000.
Come si spiega questo totale disinteresse per il Başakşehir? Senza dubbio il fatto che nella stessa città giochino le tre maggiori squadre del paese influisce sul dato. Inoltre la classe media di Başakşehir, che teoricamente dovrebbe rappresentare lo zoccolo duro del pubblico dello stadio Fatih Terim, segue poco il calcio rispetto alla sua controparte più laica, vedendolo come una distrazione rispetto ai veri valori dell’Islam. Erdogăn, in un congresso dell’AKP del 2018, conferma questa ipotesi:
“La gioventù di Başakşehir dovrebbe riempire gli spalti. […] Se non siete presenti in questi campi, rimarrete deboli anche in politica. Dovreste avere cura di ciò”.
Quest’appello ad oggi è rimasto largamente disatteso. In generale, la situazione riguardante il mondo del calcio turco sembra ferma al palo. È vero che le leggi introdotte nell’ultimo decennio e il sistema Passolig hanno permesso al governo di Erdogăn di monitorare con più efficacia i tifosi e impedire le contestazioni più plateali. È però altrettanto vero che gli incidenti prima e dopo le partite non si sono fermati, così come l’espressione del dissenso in forme meno esplicite. In generale il mondo del tifo turco, per quanto ricondotto a più miti consigli rispetto alla virulenta conflittualità di inizio decennio, sembra ancora ben lontano dall’adesione alla dottrina ideologica islamista e neo-ottomanista propagandata dall’APK.
Bibliografia
Irak, D. (2020). Fight ‘acceptable’ with ‘acceptable’: football cultural battle in Turkey and the story of two ‘doxas’ over an old military song, Sport in Society.
Irak, D. (2020). Football in Turkey during the Erdogăn regime, Soccer & Society, 21:6.
Sawae, F. (2020). Populism and the Politics of Belonging in Erdogăn’s Turkey. Middle East Critique, 2020, 29:3.
Yilmaz, Z. (2020). Erdogăn’s presidential regime and strategic legalism: Turkish democracy in the twilight zone. Southeast European an Black Sea Studies, 20:2.
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