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Cile - URSS 1973: storia del "Partido Fantasma"

  • Writer: Koinè Journal
    Koinè Journal
  • 2 days ago
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di Paolo Crosta.


La partita tra Cile ed URSS del 1973 rappresenta una delle pagine più interessanti e pregne di significato della storia del calcio. I sovietici erano tra i protagonisti più attesi del Mondiale che si sarebbe disputato in Germania Ovest nel 1974. Negli anni precedenti, infatti, avevano nell’ordine: vinto il titolo continentale nel 1960, raggiunto il quarto posto ai mondiali del 1966 e i quarti di finale nel 1970. Ciononostante, superarono solo a fatica il girone di qualificazione contro l’Irlanda e la Francia, anche per via del ritiro dalla nazionale dei due pilastri Murtaz Khurtsilava ed Anatoliy Banishevskiy, e della morte improvvisa del commissario tecnico Aleksandr Ponomarev a soli 55 anni.


L’URSS approdò così agli spareggi intercontinentali: una doppia sfida andata-ritorno che avrebbe visto i sovietici contrapposti al Cile di Luis Álamos, fresco finalista di Copa Libertadores con il Colo Colo, la prima del calcio cileno. La selezione latina non si presentava certo con i favori del pronostico: tra i pochi calciatori di nomea internazionale su cui contare figuravano Leonardo Véliz e Carlos Caszely, quest’ultimo capocannoniere dell’ultima Libertadores proprio con il Colo Colo di Álamos e appena trasferitosi al Levante. Per una curiosa ironia del destino, entrambe le stelle della selezione cilena erano uomini dichiaratamente di sinistra.


Ma l’11 settembre 1973, a due settimane dalla gara, la Storia si mise in mezzo, e un tragico evento portò all’inasprimento dei rapporti tra URSS e Cile: il governo socialista democraticamente eletto di Salvador Allende venne rovesciato da un sanguinoso colpo di Stato militare da Augusto Pinochet, il quale instaurò un regime autoritario fascista. Queste premesse cambiarono totalmente la cornice dell’andata, da disputarsi in terra sovietica. Ai calciatori cileni che viaggiarono a Mosca fu intimato di non rilasciare interviste a tema politico; un problema che non si pose neppure, in quanto nessuno si presentò ad accogliere la squadra. L’unico giocatore ad essere avvicinato fu Véliz, a cui uno studente cileno in visita all’università di Mosca, presentandosi come il figlio di un militante comunista, domandò cosa stesse succedendo in patria. Il numero 11 della Roja rispose sconsolato al ragazzo che era meglio evitare di fare ritorno a casa.


Oltre all’accoglienza a dir poco fredda, ai giocatori cileni fu riservato un trattamento che non li fece sentire esattamente a proprio agio: il cibo che veniva loro servito nell’hotel era scadente, il pullman che doveva portare la squadra agli allenamenti arrivava sempre in ritardo, e quando dovettero visitare lo stadio il giorno prima della partita, trovarono i cancelli chiusi. A dispetto delle condizioni ostili, il commissario tecnico Álamos preparò la gara in maniera meticolosa, adottando una strategia ultradifensivista e in buona parte rinunciataria, che consentì ai sudamericani di uscire dallo Stadio Lenin con un arcigno 0-0, risultato imprevedibile alla vigilia della partita. Spettava dunque al ritorno, da disputarsi a Santiago il verdetto su quale compagine avrebbe preso parte alla rassegna iridata dell’estate successiva.


Nel frattempo, il governo Pinochet aveva già iniziato a catturare migliaia di oppositori politici in tutto il paese e a concentrarli in prigioni segrete. Tra le strutture preposte, figurava proprio lo Stadio Nacional de Santiago, il principale impianto sportivo del paese e la sede partite casalinghe della Roja. A questo punto, l’Unione Sovietica contestò presso la FIFA l’opportunità di giocare in uno stadio nel quale i diritti umani erano violati così cruentemente. L’organizzazione calcistica dovette dunque istituire una commissione da inviare a Santiago, al fine di verificare se le accuse sullo stadio-prigione fossero vere. Tuttavia, il presidente della FIFA Stanley Rous, già noto per il suo appoggio al Sudafrica nonostante le denunce sull’apartheid, fece di tutto per nascondere la polvere sotto al tappeto e stabilì che non ci fossero motivi validi per trasferire la gara in campo neutro. Di conseguenza, l’URSS comunicò alla FIFA che non avrebbe giocato la partita per protesta, perdendola a tavolino e venendo così esclusa dal Mondiale.


Tale decisione non era quindi dettata tanto dal fatto che in Cile vi fosse un regime fascista, quanto più dal dover scendere in campo in uno stadio in cui la barbarie e la violazione dei diritti umani rappresentavano la quotidianità. Infatti, la Guerra fredda stava vivendo la sua stagione di massima distensione nelle relazioni internazionali. Un rilassamento generale della contrapposizione tra i due blocchi che, negli anni precedenti, aveva portato i sovietici a giocare senza porsi troppi problemi contro la Spagna franchista in occasione della finale dell’Europeo e contro il Portogallo salazarista nella finale per il terzo-quarto posto del Mondiale del 1966.


Ma non è finita qui: la parte più curiosa e incredibile di questa vicenda è che la partita tra Cile ed URSS si giocò lo stesso, o meglio, il Cile la giocò. Il 21 novembre 1973, il regime cileno fece scendere in campo i giocatori della Roja per una partita simbolica senza avversari, avallata dalle disposizioni FIFA. Presenziò, benché non indispensabile per le circostanze della gara, anche un arbitro, l’austriaco Erich Limemayr. Al fischio d’inizio, i giocatori sudamericani avanzarono scambiandosi la palla, come era stato ordinato loro dal regime, e infine il capitano Francisco Valdés segnò il gol che mise fine al “partido fantasma”. Anni dopo, alcuni degli stessi giocatori cileni, come il bomber Carlos Caszely, Elias Figueroa e Leonardo Véliz, rilasciarono interviste dichiarando che si erano sentiti sfruttati, raccontando il disgusto e la vergogna provata in quei momenti.


L’episodio più noto di dissenso dei calciatori cileni nei confronti del regime è quello che vide Carlos Caszely rifiutarsi di stringere la mano a Pinochet durante un incontro ufficiale. In seguito, il 9 della Roja mantenne atteggiamenti critici contro la giunta e rimase un simbolo di opposizione anche dopo essere diventato un giocatore di spicco, diventando il miglior marcatore della nazionale cilena fino al 1986, anno in cui si ritirò (ad oggi è sesto). Altri giocatori, come Elias Figueroa, temevano ritorsioni e quindi, pur critici verso il regime privatamente, preferirono non parlare o esporsi politicamente in pubblico. Espressero il loro parere soltanto molti anni dopo la caduta del governo Pinochet, perché consideravano la maglia della nazionale sia come un onore, sia come una protezione da eventuali rappresaglie politiche.





Bibliografia

Vergara P. “Un gol a la memoria: historia, pasión y muerte en el Estadio Nacional”, 2023

Gonzalez L. C., “A 40 anos de la increible avventura de Chile en la Union Sovietica”, la Tercera

Lusinchi V., “Soviet Union kicked out of world cup in soccer”, The New York Times

Thomas G., “An open goal for fascism: the 1973 Chile vs URSS game that never was…”, the Football History Boys

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