di Luca Simone.
La scorsa settimana ho avuto la possibilità di assistere all’inizio della seconda ondata della protesta delle tende, lanciata in tutta Italia da migliaia di studenti che invocano un trattamento giusto, una dignità adeguata e la possibilità di poter studiare e vivere senza dover essere gettati in un’arena sociale ingiusta e predatoria. Perché questo è diventata l’università italiana, un sadico esperimento in vitro di darwinismo sociale, dove sopravvivono solo quelli forti, o quelli che lo diventano grazie ai soldi dei padri. Ho scelto di raccontarli attraverso un reportage che non esce fuori né dalla testa né dal cuore, ma dalle budella, e allo stesso modo ho scelto di utilizzare in ogni puntata le foto più rappresentative. Spero mi si perdonerà il fatto che siano state scattate non nell’arco dell’intero soggiorno ma in un periodo di tempo più ristretto. Ricordatevi però che ogni foto ha dietro di sé una storia, indipendentemente da quando essa è stata scattata.
PARTE PRIMA
NOTTE
È una domenica mattina come tante altre, di quelle che hanno sempre il sapore di una malinconia annacquata da un sole tiepido di fine estate che, però, quest’anno non vuole saperne di sparire. Mi squilla il telefono, e sono indeciso se rispondere o meno, perché è comunque domenica, e anche se odio riposarmi perché non so farlo, è sempre difficile rinunciare al secolare shutdown del giorno del Signore. Rispondo svogliato, e all’altro capo del telefono mi viene semplicemente detto: “Lu, noi stasera rimontiamo le tende in Sapienza, la notizia è segreta, vedi tu se vuoi venire per scrivere qualcosa, partiamo tra qualche ora in macchina per Roma.” La notizia mi coglie alla sprovvista, ma mi rendo subito conto dell’importanza che quel gesto potrà avere, perché si tratta della riedizione di ciò che era successo la scorsa primavera, quando migliaia di studenti si erano accampati davanti alle loro università per protestare contro il caro affitti, l’emergenza abitativa e la mancanza di progettualità di un governo che li considerava e li considera ancora un peso. Quelle poche e scarne parole mi colpiscono subito, perciò non ci sto troppo a pensare e rispondo seccamente, d’istinto, quasi senza nemmeno riuscire ad ascoltare la mia stessa voce che esce dalla bocca: “Ci sono, preparo il borsone”.
Mentre siamo in viaggio su un vecchio pandino giallo canarino a GPL per tagliare a metà l’Italia, dalle Marche alla capitale, lungo quella millenaria via Salaria che per epoche ha collegato due lembi di una stessa penisola, penso a come strutturare il mio lavoro. Forse potrei fare una cronaca, forse un racconto, sì ma in quante puntate? Due, magari tre. Sono indeciso, e le poche ore di viaggio passano pensando intensamente a questo, e io non mi rendo nemmeno conto di aver sbagliato approccio. Non mi rendo conto di essermi posto male, di stare per fare lo stesso errore che negli scorsi mesi avevo visto commettere a tanti bravi giornalisti, e che avevo peraltro ferocemente criticato, l’errore di trattare questo problema come qualcosa che non mi riguarda, che non riguarda la comunità di cui faccio parte, raccontandolo come un qualcosa di estraneo. Non mi rendo conto di essermi presentato davanti ai cancelli della Sapienza come un qualunque documentarista pronto a raccontare lontane tribù amazzoniche, distanti anni luce dalla nostra società e dalla nostra vita. Non è così, non lo era a maggio, non lo è ora e non lo sarà domani. Questo problema riguarda il nostro mondo, la nostra vita, anche di chi l’università non l’ha fatta e mai la farà, riguarda i padri e le madri di famiglia che non possono assicurare un futuro ai propri figli e figlie perché grava pericolosamente sulle loro teste la spada di Damocle dell’ingiustizia sociale. Riguarda tutti coloro che non hanno né mai avranno figli, perché neppure loro vorranno vivere in un mondo in cui non esistono libri, in cui la scala sociale della cultura smette di funzionare, e infine riguarda anche chi avversa questa battaglia, chi è disinteressato, e chi la disprezza, perché la loro libertà risiede in una società culturalmente elevata, e pur non sapendolo essi sono parte del processo. Mentre rifletto su questo mi viene in mente il commento glaciale e lapidario di Italo Calvino a proposito del suicidio di Cesare Pavese: “si è ammazzato perché imparassimo a vivere”.
Attraversare il Grande Raccordo all’ora di punta della domenica non è stato semplice e ci ha portato via più tempo del necessario, perciò quando arriviamo in Piazzale Moro è già sera, sono ormai le otto passate. Una cosa che mi colpisce subito è che pur essendo ormai autunno, non se ne avverte l’odore. Si sente ancora, seppur timidamente, l’odore di un’estate che non vuole passare. L’odore di gente che non si rassegna ad abbandonare i calzoncini e progetta ancora la domenica fuoriporta, magari ad Ostia, magari al fresco dei Castelli. La maggior parte delle tende è stata già montata, sono più di una ventina, maneggiate da qualche decina di ragazzi e ragazze che trovo seduti sulla grande fontana dell’università a chiacchierare, cercando di stemperare la tensione per il domani, quando tutta Italia saprà del loro gesto, e sciami di giornalisti si fionderanno come mosche sul miele, cercando di raccogliere quelle tristi storie strappalacrime da mandare in onda alle due del pomeriggio, cercando di instillare nei telespettatori la pietà e non certo il consenso verso la rivendicazione. È in quel momento che capisco, è guardandoli in faccia uno per uno, analizzando la tensione che non riesce però a incupirli del tutto che mi rendo conto di cosa poter fare per loro; l’unica cosa da fare è stracciare ogni proposito di fare di questa esperienza una cronaca puntuale. È in quel momento che decido che l’unica cosa che può rendere giustizia al loro impegno, al loro gesto e al loro sacrificio è un racconto, il ritorno a quell’antica pratica dalla quale era nato il giornalismo stesso. Quel mestiere che anche io spero un giorno di maneggiare meglio di ora. Seppur dunque la tradizione sia adorazione del fuoco e non conservazione delle ceneri, decido di gettarmi nella cenere, e rinuncio totalmente ad utilizzare la “moderna” pratica del giornalismo. Basta schemi, basta preparazioni, voglio solo guardarli, osservarli, parlarci, e scrivere al meglio di come posso ciò che vedo e, soprattutto, ciò che sento.
Non hanno idea di chi io sia, mi aggiro come un estraneo per i primi minuti nel loro piccolo accampamento indiano, con un taccuino rosso in mano e il giubbotto allacciato quasi per intero a causa del freddo, insospettabile intruso solo qualche ora prima. Il mio isolamento dura però poco, quasi subito mi si avvicinano un paio di ragazzi e ragazze che mi chiedono gentilmente non che cosa faccia io lì, ma quale sia il mio nome. Per loro non è importante cosa stia facendo, non è importante chiedermi perché io stia appuntando freneticamente sul mio taccuino rosso le cose che vedo, ma quale sia il mio nome. Tutto il resto viene dopo. Potrei essere un impiegato del catasto per quanto ne sanno, un “nemico”, financo un rivale, ma non gli interessa. Gli interessa sapere il mio nome così possono dare un’identità a colui al quale stanno porgendo un piatto di pasta fredda. Uno dei pochi tesori sociali che posseggono, assieme ad un paio di sedie e qualche coperta che non odora di pulito. Questa cosa mi fa subito pensare, non mi lascia indifferente. È una sensazione difficile da spiegare a parole, figurarsi per iscritto. È la sensazione di sentirsi umanizzato, una perla rara di cui potersi vantare in questo particolare momento storico fatto di virtualità e doppiezza, è la sensazione di sentirsi di nuovo qualcuno al di fuori della propria professione, del proprio status e della propria convinzione. Mi dico tra me e me: “Stiamo iniziando col piede giusto”.
La nottata, come in ogni ambiente universitario che si rispetti, passa tra risate, musica di basso livello suonata da artisti improvvisati, vino scadente e sigarette rollate. L’odore pungente del tabacco avvolge l’ambiente, mentre le canzoni cantate piano per non disturbare il quartiere vengono coperte dal rumore incessante, continuo e quasi fastidioso della grande fontana di Piazzale Moro. Imperitura, imperturbabile compagna di questo piccolo lungo viaggio che mi era stato concesso di fare. Un viaggio in un mondo che si può vivere solo dall’interno, e che se visto da fuori non può essere compreso. Come possono quattro scappati di casa che fumano seduti per terra in cerchio e condividono una bottiglia di vino versata in un bicchiere di plastica biodegradabile pensare di cambiare il mondo? Come può gente che si tinge i capelli e veste jeans strappati e calze sdrucite pensare di mettere in crisi un potere incravattato, grigiamente agganciato al duro statalismo? Questa è la domanda che si pone chiunque, e me la pongo anche io. La risposta che mi do è semplice: chi se non loro? Chi se non i dannati della terra, gli underdog possono cercare di rovesciare il tavolo? Chi se non coloro che ragionano fuori dagli schemi e fanno dell’imprevedibilità, dell’allegria, dell’ingenuità e della follia strumenti di lotta? Chi se non loro possono sparigliare le carte di uno schema precostituito governato dalle stesse noiose leggi di causa-effetto? Chi se non loro.
Piano piano li conosco tutti e tutte. Come in ogni piccolo microcosmo ci sono i simpatici, gli antipatici, quelli esuberanti, gli stronzi, quelli che sognano e quelli più realisti. Come in ogni comunità che si rispetti esistono differenze anche profonde, ma sono quelle differenze che ci rendono persone, individualità. Non ho mai voluto credere alla folla, non me ne voglia Gustave Le Bon, un grande maestro, ma non ho mai creduto al “gregge eterodiretto”, o almeno non totalmente. Quel gregge non va dietro ad una persona, va dietro ad un’idea. E quell’idea è fatta dalla propria, autonoma, privata interpretazione del mondo. Casomai esistono persone che sono più in grado di altre di diventare catalizzatrici di una smisurata quantità di idee, e questo non lo nego, ma si combatte per un’idea e non per una persona. E questo è esattamente ciò che vedo qui. Certo, ci sono i leader, ne identifico subito due o tre, i “trascinatori”, ma se dovessi descriverveli tutto hanno meno che l’aspetto di un leader. Sono uguali a tutti gli altri, coi capelli spettinati, le stesse felpe abbottonate fino in fondo a causa del freddo, e la stessa identica espressione preoccupata di tutti gli altri. Li seguono per leadership? Forse, ma non credo, li seguono perché catalizzano un’idea.
Prima di andare a “letto”, se così si può definire il cemento reso più accettabile dal sacco a pelo, mi fumo un’ultima sigaretta. Mi avvicino perciò al piccolo drappello di irriducibili Tupamaros che sfidando il freddo, la stanchezza e la tensione, si trattengono più degli altri a fare quattro chiacchiere seduti sul bordo della fontana. Mi avvicino piano per non interferire nei loro discorsi, ma non ce la fanno ad accettare una presenza estranea che siede a pochi metri di distanza, così decidono di coinvolgermi, e io non mi faccio certo pregare. Inizio così a fare qualche domanda su come si sentono, cosa pensano e che cosa vogliono. Classiche domande vuote da giornalista, ma il mio lavoro le impone. Viki, coi capelli tinti e la faccia stanca prende la parola per prima. Fino a poco prima aveva detto di essere timida e schiva, ma prende immediatamente la parola, forse dimenticandosi della sua stessa natura. “A maggio quando sono venuta qui, mi sono sentita piena, ed è come mi sento anche ora. Stare qui insieme, farci vedere, serve ad umanizzarci. Serve a far capire a chi è a casa, a chi è lontano, che noi non solo siamo persone, ma rappresentiamo i loro figli e nipoti, e che la battaglia la facciamo venendo qui e facendo quello che faremmo normalmente in una serata tra amici. È con le risate che combattiamo”. A quel punto interviene Asia, che dice: “ci dicono di non essere concreti, che non abbiamo proposte tangibili, ma io che ne so quanti soldi hanno a bilancio là. Io voglio solo studiare con dignità, secondo te questo non è concreto?”. Mentre lo dice indica un non precisato punto di Roma, almeno per me dato che sono un forestiero, ma quel dito che punta nel vuoto di una città dormiente suona potente come un j’accuse, e rimbomba preparandoci a domani.
Mi allontano dalla conversazione scosso. Inizio a diventare teso per loro. So benissimo che all’indomani un nugolo di giornalisti non si farà bastare questa come risposta e proverà a metterli tutti e tutte in difficoltà, cercando l’errore, la gaffe e l’impreparazione. Ma l’unica cosa che riesco a pensare mentre cerco di trovare la posizione più comoda per adagiarmi sulla pietra è che questi ragazzi e ragazze, di neppure vent’anni, si sono preparati a combattere una battaglia generazionale che arriva a riguardarli in minima parte se la si guarda al grandangolo. Una battaglia che scuote le fondamenta della stessa società occidentale e mette in discussione i principi sui quali essa è fondata, e pone domande molto più profonde che dovrebbero costringere a riflessioni ben più articolate. Se ci sono dei genitori che non possono permettersi di mantenere i propri figli all’università, di chi è la colpa? Perché non possono più farlo? Perché ormai guadagnano così poco? Cosa diavolo c’entra questo con l’università? Niente. Non c’entra niente. Questi qua dall’interno di poche decine di tende hanno scoperchiato un pericolosissimo vaso di Pandora, e alcuni non hanno neppure vent’anni. I loro volti sono lisci e le barbe ispide e non curate sono appena accennate sul volto degli uomini, mentre su quello delle donne è ancora presente l’acne. A vent’anni dunque la nostra società, la nostra politica gli consente di sobbarcarsi un’impresa così titanica ma non gli consente il lusso di sbagliare? Non gli consente il lusso di mandare a quel paese uno dei tanti giornalisti e politici faziosi che dall’interno dei loro completi da sartoria puntano solo a distruggerli? A vent’anni nemmeno, dall’interno di una tenda penso solo che non gli viene concesso il lusso di poter commettere un errore. A vent’anni nemmeno.
GALLERIA FOTOGRAFICA
Un reminder sgranato da segnare nella tanto cara agenda.
Brumotti non è amato.
Viki.
Veterano.
Il populismo degli ultimi.
Le foto migliori non sono state scattate da me, mentre mi prendo la responsabilità di quelle più sgangherate e peggio illuminate. Spero di essere più bravo a tenere in mano una penna di una macchinetta fotografica. Per tutte le altre immagini venute bene, ringrazio di cuore Ginevra.
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