L'economia è una questione politica
- Koinè Journal
- 6 days ago
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di Federica Oneda.
Durante il meeting annuale del World Economic Forum, a gennaio 2025, Oxfam Italia ha presentato un’analisi approfondita sulle disuguaglianze economiche e sociali a livello globale e nazionale. Secondo il report, la crescita della ricchezza è spesso il risultato di un sistema economico estrattivo, in cui una ristretta élite accumula ricchezze a discapito della maggioranza. Un sistema che non premia il merito né l’impegno, ma si fonda su meccanismi iniqui e su scelte politiche che alimentano e rafforzano le disuguaglianze.
Il quadro globale è allarmante: da un lato miliardi di persone vivono sotto la soglia della povertà; dall’altro, cresce il numero dei super-ricchi, i cui patrimoni rappresentano circa il 45% della ricchezza mondiale. Oggi più che mai il nesso tra capitale e potere è evidente: l’accumulazione di ricchezza si traduce in maggiore influenza politica, creando un circolo vizioso in cui le decisioni pubbliche rispondono agli interessi di pochi piuttosto che al bene comune. In Italia, a metà 2024, il 10% più ricco delle famiglie possedeva quasi il 60% della ricchezza netta complessiva, detenendo oltre otto volte la ricchezza della metà più povera.
Questi dati sollevano interrogativi importanti: mentre le disuguaglianze economiche e sociali continuano ad ampliarsi, dov’è la politica capace di mettere in discussione le fondamenta stesse del modello economico su cui si reggono la maggior parte delle politiche pubbliche? Non ci siamo forse ormai rassegnati all’idea che il capitalismo sia l’unico sistema economico possibile?
Come dice Carla Mattei nel suo omonimo libro “L’economia è (una questione) politica”, tuttavia abbiamo finito per considerare “naturale” il capitalismo che ci governa. Il capitalismo è stato normalizzato, reso invisibile. Ed è proprio dentro questo sistema economico-politico che finiamo per vivere una guerra tra poveri, la rabbia pubblica non è più rivolta verso l’1% dei super-ricchi, che godono di privilegi fiscali, ma verso i presunti “furbetti” che beneficiano di misure di sostegno come il reddito di cittadinanza. La spesa pubblica è diventata oggetto di sospetto: si ha paura di investire in sussidi e aiuti statali o di mettere più risorse sulle questioni sociali. Eppure, la domanda fondamentale non dovrebbe essere se lo Stato spende, ma dove e per chi lo fa. L’austerità, ad esempio, non è una neutra riduzione della spesa pubblica, ma un’azione politica che colpisce i più deboli, riducendo la loro qualità della vita, mentre lascia intatta la ricchezza delle élite, che vivono di rendite e profitti e non di salario. Come spiega Carla Mattei le manovre economiche non sono mai tecniche neutre, ma scelte politiche con ricadute dirette sui diritti delle persone.
Quando lo Stato riduce le risorse sociali, ci toglie diritti e ci costringe a comprarli con il denaro. Questo aumenta la nostra dipendenza dal mercato e dal lavoro salariato. Per avere istruzione, salute o una casa, serve denaro, e l’unico modo per ottenerlo è vendere il nostro tempo e la nostra forza lavoro. Non per nulla i politici al governo combattono il concetto stesso di reddito di cittadinanza che, in sé, è potenzialmente sovversivo, sostiene Carla Mattei, “rischierebbe di illuderci che soddisfare i nostri bisogni primari sia un diritto invece che l'esito intermediato dal lavoro sfruttato”.
Lo stesso vale per le entrate fiscali: non conta solo se lo Stato tassa, ma chi tassa. Oggi la maggior parte dei Paesi fanno riforme del fisco in senso regressivo, ovvero continuano a tagliare le tasse a coloro che hanno redditi da capitale e le aumentano a chi ha redditi da lavoro.
Inoltre la narrazione neoliberale ha trasformato l’economia in una favola meritocratica: secondo gli economisti neoclassici, il mercato è un campo di gioco dove tutti, se abbastanza razionali e determinati, possono avere successo. Questa visione è però profondamente classista: fa credere che i ricchi siano tali perché se lo sono meritato, mentre i poveri sono poveri per colpa loro. Così, il profitto diventa il premio per i "virtuosi", e lo sfruttamento viene occultato. Questa narrazione è così pervasiva da essere ormai interiorizzata: se non “fatturi”, è colpa tua. Ma la realtà è diversa: chi lavora con salari bassi e contratti precari non ha risorse da investire e difficilmente potrà diventare un "risparmiatore-investitore". Eppure, l’indignazione pubblica continua a colpire i più poveri, non i milionari che aumentano mentre pagano sempre meno tasse.
Oggi tutto viene trattato come una merce, il cui unico scopo è essere venduta. Prendiamo, ad esempio, il tema della casa in Italia. L’abitazione non è ancora vista come un diritto o un bisogno primario, ma come un bene di mercato, un asset finanziario. Per chi possiede più immobili, rappresenta una fonte di rendita: case messe a reddito, affitti brevi, investimenti. Dall’altra parte, però, milioni di persone faticano ad accedere a un alloggio dignitoso. E non perché le case manchino: ce ne sono molte, ma restano vuote, sfitte o destinate a locazioni turistiche dai prezzi inaccessibili. L’abitazione, insomma, è sempre più un privilegio e sempre meno un diritto.
Prendiamo un altro esempio riportato da Carla Mattei: la fame nel mondo. Ogni giorno si produce abbastanza cibo per sfamare l’intera popolazione globale, eppure più di 800 milioni di persone soffrono la fame. Nel frattempo, un terzo del cibo viene sprecato — circa 1,3 miliardi di tonnellate — perché invenduto. Eppure, anche nel nostro supermercato sotto casa, a fine giornata, i prodotti vicini alla scadenza vengono buttati. “Il punto è venderli, mica sfamare la gente”.
Se tutto questo appare irrazionale dal punto di vista dei bisogni, è perfettamente razionale da quello del profitto, e il capitalismo si basa su quest’ultimo. Questa logica però non è né naturale né eterna: è politica e va messa in discussione. Il segreto del capitalismo si svela infatti quando guardiamo non solo al mercato, ma alla produzione: il capitalista ha il diritto di “consumare” la merce forza-lavoro, ma questa merce non è come le altre. È la fonte del plusvalore: il valore in più che viene prodotto e non pagato, e che costituisce il profitto, ce lo hanno insegnato a scuola. Il cuore del sistema capitalistico è proprio questo e lo si capisce detto in altre parole: la ricchezza deriva dal lavoro non retribuito pienamente. Senza profitto non esisterebbe capitalismo, e senza sfruttamento non esisterebbe profitto. La nostra economia non è progettata per rispondere ai bisogni collettivi, ma per massimizzare rendite e profitti di pochi, ciò che conviene al capitale è dannoso per la maggioranza, perché i guadagni degli uni si basano sui sacrifici degli altri.
Tutto questo ci porta a chiederci se non sia arrivato il momento di denunciare il ruolo ideologico che l’economia assume quando diventa strumento di dominio. È tempo di smascherare la pretesa “scientificità” di certe teorie economiche che, dietro il linguaggio tecnico, nascondono una vera e propria guerra di classe a vantaggio della minoranza ricca. Tutte le crisi del nostro tempo — l’ascesa dei nazionalismi, le guerre, l’odio verso i migranti, l’emergenza ambientale e quella psicologica che colpisce soprattutto i giovani — non possono essere comprese se non come effetti di un sistema economico che opprime la maggioranza a livello globale. Per questo, oggi più che mai, la parola d’ordine è una sola: ripoliticizzare l’economia. O meglio: ri-democratizzarla.
Bibliografia:
Rapporto Oxfam 2025 “Disuguaglianza: povertà ingiusta e ricchezza immeritata” https://www.oxfamitalia.org/disuguaglianza-poverta-ingiusta-e-ricchezza-immeritata/
Carla E. Mattei “L'economia è politica”, Fuoriscena, 2023.
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