di Gabriele Padula.
Ho conosciuto Elena in un momento di estrema confusione e agitazione per lei. Gridava e minacciava il personale infermieristico per i corridoi della clinica psichiatrica, oppositiva, irritata, aggressiva verbalmente, mai fisicamente. Ben vestita, gli occhi sgranati, lo sguardo di sfida, polemizzava per l’ingiustizia di essere lì, come ingabbiata, senza scampo, spaventata.
Come ci si potrebbe sentire ad essere in un posto ignoto, circondati da sconosciuti, se non spaventati e adirati? E quanta paura, se questa nuova situazione, in cui ci si ritrova catapultati, viene esperita in un contesto di profonda sospettosità verso gli altri?
Elena era in uno stato di allerta costante, pronta a cogliere segnali nuovi che costituissero intuizioni di una verità che solo lei conosceva, e nessun altro; angosciata, spaventata, presta all’irritabilità che diventava poi volentieri rabbia. All’inizio, solo i farmaci neurolettici hanno potuto creare un varco, un ponte, per instaurare un dialogo. Elena lavorava fino ad un mese prima del nostro incontro, viveva con i suoi genitori e credeva che l’avvelenassero di nascosto, introducendo tranquillanti nel cibo ed era convinta che frequentassero “locali notturni" segretamente. Lo aveva capito quando, allontanatasi da casa, era diminuita la sua angoscia, perché, diceva: “non veniva più drogata di nascosto”. Lo aveva capito da piccoli segnali, dagli sguardi, pesanti, giudicanti degli altri intorno a lei, dei colleghi, dei conoscenti, degli abitanti del piccolo paese in cui viveva. Elena raccontava che all’inizio non sapeva il perché di quegli sguardi inquisitori e del bisbigliare della gente, fino a quando tutto non le fu manifesto, svelato, chiaro: gli altri sapevano del comportamento inappropriato dei suoi genitori e sghignazzavano alle sue spalle, ridacchiavano di lei, ancora ignara, ancora per poco.
Come ci si potrebbe sentire se abitassimo un mondo in cui l’altro viene percepito come giudice e conoscitore di segreti che riguardano noi o la nostra famiglia, se non angosciati, impauriti, costantemente all’erta e pronti a cogliere un segnale, una prova? Così andò via di casa e una serie di circostanze la condussero in una clinica psichiatrica. Man mano che i farmaci riducevano l’angoscia e la tensione interiore, Elena raccontava di più della sua storia di vita passata: aveva fatto uso di droghe da più giovane, sia cocaina sia eroina, e aveva intrattenuto rapporti occasionali con varie persone. Il padre alcolista tornava a casa e aggrediva sua madre e con quest’ultima si era schierata più volte e più volte si era esposta per lei, senza però che venisse mai corrisposta e sostenuta, fatto che la paziente interpretava come una “profonda ferita di tradimento”.
A questo punto, possiamo provare a ricercare un’interpretazione che colleghi il modo in cui Elena vive il mondo e la sua storia di vita passata. Potremmo ammettere che effettivamente gli altri, i colleghi di lavoro e i compaesani parlassero di lei a sua insaputa, per la sua condotta di vita, come è noto possa succedere nelle piccole realtà come quelle di paese. E magari Elena era giù costituzionalmente più sensibile al giudizio degli altri, come in parte mi hanno fatto pensare i genitori che la descrivevano come una persona sospettosa, forse in un contesto di personalità già paranoica o di un disturbo delirante cronico. È comprensibile che questa situazione potesse accompagnarsi ad una profonda vergogna, senso di inadeguatezza, stato di allerta costante nel caso qualcuno la guardasse con quello sguardo giudicante del “io conosco il tuo passato”, anche se ormai Elena non era più come prima e le sue abitudini erano mutate. Cosa avrebbe potuto sperimentare Elena se non frustrazione per essere costantemente giudicata a causa di un passato di cui non era (formalmente) l’unica responsabile e di cui, comunque, aveva profonda vergogna?
Questi sentimenti di frustrazione e vergogna potrebbero esser stati per Elena tanto intollerabili da sganciarsi dai motivi che li “sorreggevano” e autonomizzarsi: il terrore, la sospettosità, quindi, ora investono tutto lo spazio vissuto, dove ogni azione e oggetto sono passibili di interpretazione, di autoriferimento; sono segnali di un’unica trama in cui tutti si fanno beffe di Elena, compresi i suoi genitori, che la avvelenerebbero di nascosto. L’emozione della vergogna è un’emozione a cui Elena ha accennato in più colloqui, verso la fine della degenza e soprattutto in relazione alla paura del giudizio degli altri. L’esperienza della vergogna ha una valenza umanamente comprensibile perché si declina nella realtà esistenziale di tutti i giorni, ma ha anche risvolti clinici: due dimensioni sì distinte, ma intrecciate e sovrapposte, come scrive Borgna in uno dei suoi splendidi ed evocativi libri. Nel tentativo di coglierne un’illuminazione, Nietzsche in “Così parlò Zarathustra” scrive: “La definizione dell’uomo per colui che conosce: la bestia dalle guance rosse. Come poté capitargli ciò? Non è forse perché ha dovuto vergognarsi troppo spesso? Amici! Così parla colui che conosce: vergogna, vergogna, vergogna – questa è la storia dell’uomo! Per questo chi è nobile si impone di non provocare vergogna, e a sé stesso impone la vergogna per tutto quanto soffrire” (Nietzsche 2013: 80). Sempre Nietzsche nella Gaia Scienza scrive: “Chi chiami cattivo? Chi mira soltanto a creare vergogna”. (Nietzsche 1965:11) individuando dei varchi interpretativi tra il sentimento di vergogna ed il delirio di persecuzione.
La vergogna, come ben spiegato da Straus, psichiatra fenomenologo, è un’emozione che si struttura tra una forma esistentiva-preservante (il pudore derivante dal confronto con l’immagine ideale di sé) ed una coesistentiva-occultante (l’onta derivante dal giudizio altrui), ed il delirio di persecuzione sembra proprio derivare dal rompersi della dialettica tra le due forme con il prevalere della seconda sulla prima: il mondo diventa più ostile e alieno e, di conseguenza, potenzialmente persecutorio. La psichiatria fenomenologica ha proposto, quindi, la vergogna come l’emozione di base del delirio di persecuzione, con implicazioni nosografiche (cioè di classificazione dei disturbi psichici) e psicopatologiche molto importanti, che rimandiamo ad ulteriori e successivi approfondimenti.
Con il procedere dei colloqui, ho provato a indagare su possibili fattori stressanti scatenanti recenti e gli unici che potessero essere in qualche modo di rilievo erano la comparsa della menopausa e la decisione dei genitori di vendere la casa dove la paziente era cresciuta, motivo di forte angoscia per Elena, in base ai suoi racconti.
Tuttavia, cosa altro potrebbe giustificare, da un punto di vista eziologico, e quindi delle cause, lo sviluppo di un delirio nel contesto di una personalità paranoica oppure nell’ipotesi di un disturbo delirante cronico? In che modo la personalità precedente allo sviluppo del delirio può incidere sulla formazione dello stesso, semmai lo faccia? In che modo l’intensità emotiva reattiva ad un evento vissuto può incidere sulla genesi del delirio?
Rispondere a queste domande non è semplice poiché non ci sono evidenze cliniche né scientifiche dirimenti e l’argomento è al centro di un ampio dibattito che dura da tempo e che ha implicazioni nosografiche e terapeutiche. Inoltre, per via dei tempi ristretti che caratterizzano la clinica psichiatrica, luogo per acuzie che richiede brevi degenze e complice la mia inesperienza da psichiatra in formazione, non ho potuto approfondire ulteriormente, come avrei voluto, le interiorità e il passato della paziente. In ogni caso, la possibile origine psicologica del delirio, o forse meglio di alcune forme di psicosi come può essere la paranoia, è un’ipotesi avanzata da vari psichiatri del passato, tra cui Kretschmer e, a partire da lui, molti altri della scuola olandese. Tale ipotesi si basava su alcuni casi osservati di pazienti in cui si potesse scorgere nel delirio un filo rosso goethiano di continuità dei temi del pensiero prima della comparsa del delirio e dopo.Tuttavia, la continuità dei temi non mi sembra, come anche affermato da alcuni nella letteratura psichiatrica classica (Schneider per esempio), sufficiente per stabilire con certezza un nesso causa-effetto tra vissuto psicologico e personalità da una parte e sviluppo del delirio e alcune forme di psicosi dall’altra.
Piuttosto, la continuità dei temi può rendere ragione di una “comprensibilità” del fenomeno psichico, invece che una “causalità”: in altre parole, è possibile capire perché Elena abbia sviluppato un delirio a tema persecutorio e perché questo sia diverso da quello di altri pazienti con deliri di persecuzione, ma non è così facile comprenderne la causa scatenante. Tra l’altro, nella schizofrenia paranoide, forma clinica che può radicalmente “soppiantare” la personalità precedente dei pazienti più di quanto non lo abbia fatto il disturbo di Elena, spesso il delirio è incomprensibile. Tale incomprensibilità viene considerata un motivo che esclude una causalità prevalentemente psicologica nella schizofrenia, a favore di una causa più “biologica”. Tuttavia, in più casi, il delirio nella schizofrenia può essere compreso in un contesto di relazione inter-umana e terapeutica adeguata, costruita attraverso un dialogo pazientemente intessuto e rispettoso delle fragilità altrui. Questa costituisce un’ulteriore prova del fatto che la comprensibilità o l’incomprensibilità del delirio non siano criteri sufficienti per definire una causalità prevalentemente psicologica o, al contrario, biologica.
In conclusione, la condizione psichica di Elena può essere umanamente comprensibile in quanto troviamo in lei espressioni sì radicalmente diverse ma di possibili sentimenti e vissuti che tutti noi, in nuce, esperiamo. I motivi della comparsa di questo modo di essere al mondo così radicalmente diverso sono, invece, difficili da individuare con certezza e probabilmente si tratta di un intrecciarsi di condizioni psicologiche e biologiche.
Elena è stata dimessa, dopo circa due settimane, grata per il lavoro fatto, molto meno angosciata e coinvolta nella sua realtà “delirante” e con un maggior compromesso verso la visione della realtà “condivisa”.
Dalla sua storia sono derivati spunti che approfondirò nei prossimi articoli con l’intento di sensibilizzare sul disagio psichico, sulle fragilità umane e, come scrive Borgna, sulle “ferite sanguinanti dell’anima”.
BIBLIOGRAFIA
- Allen, F. (2014). La Diagnosi in Psichiatria. Milano: Raffaello Cortina Editore.
- Ballerini, A. Rossi Monti, M. (2011). La Vergogna e il Delirio. Roma: Giovanni Fioriti Editore
- Borgna, E. (2019). L’arcipelago delle emozioni. Bergamo: Universale Economica Feltrinelli
- Nietzsche, F. (2013). Così parlò Zarathustra. “Un libro per tutti e per nessuno”. EDIREM.
- Nietzche, F.(1965). La gaia scienza, in Idilli di Messina, La gaia scienza e frammenti postumi. Milano: Adelphi.
- Scharfetter, C. (2018). Psicopatologia generale. Roma: Giovanni Fioriti Editore
- Stanghellini, G. Mancini, M. (2018). Mondi Psicopatologici. Milano: Edra
- Straus E.W. (1933). Die Scham as historiologische Problem. Schweiz. Arch. Neurol. Psychiat. 31, 2, 1-5
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