di Stefano Ambrosino.
Ad aprile 2024 le opposizioni hanno avanzato tre diverse proposte di legge per ridurre i classici ed attuali orari di lavoro: per la politica italiana, si inizia a parlare seriamente della settimana lavorativa corta.
La prima pdl, presentata da AVS, punta ad una riduzione dell’orario settimanale di lavoro da 40 ore a 34 ore effettive, a parità di retribuzione. La seconda proposta, presentata dal M5s, permetterebbe di ridurre ulteriormente il monte ore, arrivando ad un minimo di 32 ore settimanali. L’ultima alternativa presentata porta la firma del PD. Essa non indica un numero di ore da rispettare, ma punta ad una “definizione di nuovi modelli organizzativi e produttivi imperniati sulla riduzione dell’orario di lavoro, anche nella formula dei quattro giorni lavorativi”. Esse puntano ad ottenere una riduzione dell’orario lavorativo a parità di salario, prevedendo degli incentivi per le aziende che accettano di cominciare a sperimentare questo nuovo modello lavorativo.
Prima di procedere oltre, è però doveroso chiarire cosa si intenda per riduzione dell'orario di lavoro. Infatti, nell’immaginario collettivo, esso è visto come un semplice taglio delle ore lavorative settimanali, portando così il numero di giorni lavorativi da 5 a 4: da qui la settimana di quattro giorni. In realtà è un processo più complesso. Difatti, per andare incontro a tutte le esigenze che aziende e organizzazioni possono riscontrare, lo snellimento dell’orario di lavoro può essere pensato e applicato sì su base settimanale (passando da un monte ore di 40 ore settimanali a 34 o 32), ma anche su base mensile o addirittura annuale, magari preferendo interrompere o diminuire la produzione in determinati periodi. Infatti, la riduzione dell’orario di lavoro è un processo, come vedremo, estremamente delicato e complesso: ogni organizzazione deve gestirlo al meglio, al fine di accrescere il benessere psicologico dei propri dipendenti, salvaguardando allo stesso tempo la produttività della stessa.
Per far sì che si ottengano i risultati desiderati, ciascuna azienda dovrebbe progettare una politica su misura per il proprio settore specifico, le proprie sfide organizzative, la propria cultura del lavoro e le strutture interne. E quindi una riduzione dell’orario lavorativo può essere pensato, ad esempio, dividendo il personale in due squadre: una squadra lavora dal martedì al venerdì, l’altra dal lunedì al giovedì, così da non interrompere la produzione mantenendola di cinque giorni; ancora, un’azienda potrebbe optare per politiche diverse a seconda dei singoli dipartimenti (es. amministrativo e produttivo), e quindi operare differenti strategie per la riduzione dell’orario di lavoro per gli stessi; organizzazioni più prettamente stagionali potrebbero decidere, invece, di calcolare una riduzione oraria su scala annuale, intensificando gli orari e i ritmi di lavoro in una stagione specifica e riducendola in altre. Insomma, una riduzione dell’orario di lavoro prevede un forte cambiamento organizzativo. È necessario che ogni soggetto approcci a questo cambiamento come meglio crede, adattando il modello alle proprie esigenze produttive: solo così può avvenire una trasformazione virtuosa ed efficace.
La sperimentazione inglese
Nonostante in Italia si faccia ancora fatica a parlare o immaginare uno scenario in cui il più delle aziende e organizzazioni attuino una riduzione totale dell’orario di lavoro a parità di salario, in diversi Paesi occidentali sono già state portate a termine le prime sperimentazioni, e i risultati sono incoraggianti da diversi punti di vista. Al momento, la sperimentazione più grande, importante e attendibile è stata svolta nel 2023 nel Regno Unito, ed ha coinvolto ben 61 aziende e circa 2900 lavoratorə. I risultati sono stati un autentico successo: delle 61 aziende che hanno partecipato, 56 hanno riferito di aver intenzione di continuare con la riduzione dell’orario di lavoro anche al termine del periodo di prova. I parametri che sono stati presi in considerazione per misurarne l’efficacia sono: la variazione delle entrate dall’inizio alla fine dell’esperimento, il numero di dimissioni e nuove assunzioni nei periodi precedenti e durante la sperimentazione e il numero di giorni di malattia o permessi personali presi dai dipendenti. Per quanto riguarda il primo indicatore, ossia i ricavi delle aziende, si è registrato un aumento medio ponderato dell’1,4% durante il periodo di prova, confrontato con i sei mesi precedenti. Per il secondo parametro, le dimissioni da parte dei dipendenti sono calate del 57% durante il periodo di prova. Anche per il terzo indicatore si registra un forte calo: infatti, le nuove assunzioni sono diminuite del 37%. Il quarto ed ultimo parametro, ossia i giorni di malattia ed il numero di permessi, è servito per misurare l’assenteismo dei lavoratorə: si sono registrati il 65% di giorni di permesso in meno.
Anche i dati che provengono dalle interviste a lavoratorə coinvoltə sembrano entusiasmanti. Infatti, il 39% de lavoratorə sostiene di essere meno stressato, il 71% dei dipendenti ha riportato livelli di burnout più bassi e il 48% si dichiara generalmente più soddisfatto rispetto alle condizioni precedenti alla sperimentazione. Il 54% dei dipendenti ha inoltre segnalato una riduzione di ansia e altre emozioni negative. Gran parte dei dipendenti coinvolti ha inoltre segnalato una riduzione della percezione di affaticamento e dei disturbi generali del sonno. Per quanto riguarda l’equilibrio tra vita privata e lavoro (work-life balance), il 60% de lavoratorə coinvoltə afferma che grazie alla riduzione dell’orario di lavoro è più semplice conciliare le responsabilità assistenziali familiari con la vita lavorativa, e il 54% di essi ha trovato più semplice gestire le varie incombenze domestiche. In generale, il 73% ha dichiarato di essere generalmente più soddisfatto della gestione del proprio tempo. È interessante notare come siano stati segnalati dai dipendenti anche delle significative riduzioni dei costi per l’assistenza all’infanzia; ancora, si segnala anche che i lavoratori-padri coinvolti nell’esperimento segnalano di aver dedicato più tempo alla cura dei figli. In definitiva, alla fine della sperimentazione, il 96% dei dipendenti ha dichiarato di preferire la settimana lavorativa corta.
Critiche e doverosa prudenza…
A questo punto, possiamo tentare di anticipare quelle che potrebbero essere le critiche dei più scettici. Potrebbero riguardare il fatto che l’attuazione della settimana non possa avvenire in determinati settori lavorativi o ad esempio che può funzionare in grandi aziende fortemente strutturate e non in piccole realtà. La cosa interessante, però, è che il 66% delle aziende coinvolte nella sperimentazione in Inghilterra erano piccole imprese (meno di 25 dipendenti) e soprattutto provenienti da moltissimi settori diversi, dal marketing (18% di esse) all’edilizia (7% delle aziende coinvolte). Solo il 22% delle compagnie coinvolte conta più di 50 dipendenti. Anche l’età dei dipendenti coinvolti nella sperimentazione si distribuisce abbastanza equamente: poco più di un terzo (37%) degli intervistati ha meno di 35 anni; Il 30% ha tra i 35 e i 44 anni e circa il 33% ha 45 anni o più.
Parlando di work-life balance, la ricerca scientifica si è soffermata soprattutto sul costrutto di conflitto lavoro-famiglia. Queste ricerche hanno evidenziato che tale contrasto ha un ruolo nel predire: l’insoddisfazione per il lavoro e per la propria vita in generale; la diminuzione del coinvolgimento lavorativo, della prestazione lavorativa e delle risorse impiegate nel lavoro; l’aumento di assenteismo o ritardi; lo stress psicologico e il peggioramento della salute fisica. È stato dimostrato che nelle aziende in cui la percezione di supporto è maggiore, risulta più elevato il senso di appartenenza, il commitment, la produttività e il desiderio di proseguire la propria carriera lavorativa all’interno della stessa organizzazione. Le stesse ricerche, però, suggeriscono prudenza nel parlare di tali programmi. Infatti, quando la loro attivazione non è preceduta da una attenta analisi dei bisogni dei dipendenti e da una precisa programmazione e considerazione dei vantaggi e degli svantaggi, allora tali iniziative rappresenteranno un costo sia per i dipendenti, sia per le aziende.
Tuttavia è doveroso segnalare che dal punto di vista scientifico mancano ricerche longitudinali, e i risultati delle ricerche presenti si basano prevalentemente su misure self-report. Bisogna aspettare studi ed evidenze scientifiche che riescano ad affermare che il modello della settimana lavorativa corta sia un modello sostenibile nel lungo tempo, sia dal punto di vista de lavoratorə, sia dal punto di vista delle organizzazioni.
Ridurre la settimana lavorativa a quattro giorni è un cambiamento significativo ed impattante, e ci vuole del tempo perché le esperienze, i comportamenti e le priorità individuali cambino. Una sperimentazione della durata di 6 mesi non può spiegare e prevedere il pieno impatto di una politica del genere. Queste aggiungono indubbiamente conoscenza alla letteratura, ma il cambiamento deve avvenire in maniera graduale e le aziende che vogliono cominciare una sperimentazione del genere devono progettare un’adeguata preparazione, altrimenti i costi potrebbero facilmente superare i benefici.
Bibliografia
-Argentero P., Cortese C.G. (2021). Psicologia delle risorse umane. Milano: Raffaello Cortina Editore.
-Baldersen U., Burchell B., Kamerade D., Coutts A., Wang S. (2022). “Just the freedom to get good at things and stuff like that”: Why spending less time at work would be good for individual, social and environmental wellbeing. Futures, vol. 143.
-Kamerāde D., Wang S., Burchell B., Balderson S.U., Coutts A. (2019). A shorter working week for everyone: How much paid work is needed for mental health and well-being?. Social Science & Medicine, vol. 241.
-Lewis K., Stronge W., Kellam J., Kikuchi L., Schor J., Fan W., Kelly O., Gu G., Frayne D., Burchell B., Hubbard B., White J., Kamerāde D., Mullens F. (2023). The result are in: the UK’s four-day week pilot. Autonomy.
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