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  • Writer's pictureKoinè Journal

Le otto montagne (2022)


di Enrico Martinelli.


La 68esima edizione dei David di Donatello ha proclamato miglior film l’opera della coppia di registi belgi Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch: Le Otto Montagne. La pellicola che è riuscita a convincere anche il pubblico italiano, ultimamente restio, a tornare nelle sale cinematografiche, raggiungendo addirittura incassi record per il periodo.


La sceneggiatura è tratta dall’omonimo romanzo di Paolo Cognetti (Einaudi) del 2016, vincitore del Premio Strega l’anno successivo, con oltre un milione di copie vendute nei 35 paesi in cui è stato distribuito. Il successo del libro ha sicuramente coinvolto un pubblico di lettori meno avvezzi alle sale, aprendosi ad un bacino d’utenza in cui pochi film riescono a farsi largo.

Inoltre, la scelta dei registi di attenersi alla profonda trama di Cognetti ha permesso agli spettatori di provare le stesse emozioni del libro anche senza sentire l’odore della carta stampata o il fruscio delle pagine che scorrono.


Nei 147 minuti, o nelle 199 pagine, seguiamo i due protagonisti Bruno e Pietro dall’infanzia fino alla vita adulta, osservando l’evoluzione della loro amicizia fraterna.

Bruno Guglielmina (Alessandro Borghi) è un bambino che vive in Val d’Ayas, le cui giornate sono scandite dalle poche ore di luce, e i doveri dettati dalle esigenze della vita in montagna.

Pietro Guasti (Luca Marinelli) è invece nato a Torino, abituato al caos fagocitante, con un padre, Giovanni, innamorato della natura, e che d’estate si trasferisce con la famiglia ai piedi del Monte Rosa.

Su questo sfondo nascerà il profondo rapporto di amicizia, durante i pomeriggi soleggiati sui prati fioriti o sulle cime delle montagne durante le escursioni guidate da Giovanni, che stringerà un forte rapporto anche con Bruno.


I due ragazzi, inizialmente divisi soltanto dagli inverni passati lontani, con la crescita prendono strade diverse, complice anche il distacco di Pietro dal padre. Dopo quindici anni sarà proprio la morte di Giovanni a farli riunire per ricostruire un rudere in montagna lasciato a Pietro in eredità. Da qui i due riallacceranno i rapporti e troveranno ognuno la propria strada, chi nelle montagne Valdostane, chi in quelle Nepalesi.


La regia, ad opera della coppia belga per la prima volta insieme dietro la macchina da presa, è un altro punto cardine senza il quale la pellicola non avrebbe trasmesso le stesse emozioni. Felix Van Groeningen, classe 1977, ha svolto diverse opere come regista e sceneggiatore, arrivando al grande pubblico dirigendo Timothée Chalamet e Steve Carell in Beautiful Boy, nel 2018. Charlotte Vandermeersch invece, dopo la laurea in arte drammatica è stata attrice e sceneggiatrice in film e serie televisive della tv belga.

I due hanno attraversato una crisi di coppia durante la quarantena del 2020, ed è stata la scrittura di questo film a mantenere il rapporto solido poiché, per poter descrivere al meglio le montagne, cuore dell’opera, hanno scelto di vivere per due anni in Valle d’Aosta.


L’intero film è stato girato nel formato 4:3, scelta curiosa che scatena diverse riflessioni: sicuramente il racconto ha un’aria vintage, semplice ed autentica, conforme ai temi narrati e ciò ha conferito anche un netto distacco dal resto delle proiezioni attuali, rendendolo unico nel suo genere.

Tuttavia, il rapporto quasi quadrato scelto dai registi sembrerebbe fra tanti, il meno adatto a descrivere l’ampiezza delle infinite catene montuose che circondano il Monte Rosa, causando infatti, un senso di claustrofobia ed oppressione scatenato dall’assenza di campi lunghi, più comuni in questi casi.


Una spiegazione a questa scelta è da ritrovare nel personaggio di Bruno: così abituato a quei paesaggi che forse non ne apprezza più l’importanza; così anche lo stupore iniziale degli spettatori nel vedere quelle verdi vallate si affievolisce con lo scorrere della pellicola, dando spazio a preoccupazioni maggiori come i debiti dell’attività del protagonista, mostrandoci come quel formato possa sembrarci più o meno ampio, a seconda dello spirito con cui lo guardiamo.


Possiamo riassumere con una sola parola l’intero film: essenzialità. Così come la regia e la scenografia non perdono tempo nel descrivere dettagli inutili, anche la recitazione si ferma dove non serve aggiungere parole effimere, preferendo anzi, comunicare attraverso i silenzi. La troupe ha deciso di non riprodurre i paesaggi in modo sterile con l’utilizzo di un blue screen ma di girare fra le montagne a duemila trecento metri, raggiungendo ogni giorno quei luoghi a volte innevati che richiedevano un notevole sforzo mentale e fisico.

Il rapporto che i due protagonisti hanno portato in scena è forse una delle migliori interpretazioni che il cinema italiano possa offrire al momento, non solo per le capacità indiscusse dei due attori presi separatamente, ma proprio per l’alchimia nata fra i due.


Alessandro Borghi conobbe Luca Marinelli già sul set del film Non Essere Cattivo (2015), ultima opera di Claudio Caligari: Il regista aveva notato la connessione fra i due ragazzi, in particolare quando messi insieme, e dandogli i ruoli di Vittorio e Cesare li aveva resi protagonisti dell’ultima opera prima della sua scomparsa.

Se in Non essere cattivo due ragazzi romani, Vittorio e Cesare lottano per trovare il proprio ruolo nella società, combattendo con la tossicodipendenza e con le sfide quotidiane della malavita, anche ne Le otto montagne i protagonisti Bruno e Pietro si ritrovano a decidere cosa fare del proprio futuro, se abbandonare o meno la propria terra natale.


L’unica certezza di questi personaggi è il loro futuro, il quale non sarà lo stesso se non ci saranno l’uno per l’altro; così anche noi spettatori potremmo stare tranquilli finché sulle locandine leggeremo Luca Marinelli e Alessandro Borghi.













Image Copyright: albertonovelliph

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