di Stefania Chiappetta.
È tornato in sala nella sua versione restaurata in 4k, proprio nei giorni d’avvio della 77ª edizione del Festival di Cannes: lo stesso spazio che quasi 30 anni fa è costato al regista Mathieu Kassovitz, allora 27enne, la palma d’oro. Si è quindi ritagliato un posto - nuovamente - tra i maggiori incassi al botteghino, anche se solo per i tre giorni della sua uscita evento. Il protagonista non può che essere L’odio (La Haine), ricorrente e attuale come pochi film cult riescono ad essere ad una distanza quasi trentennale. Il bianco e nero della sua fotografia, sporco e ombroso, è riconoscibile anche dai frame meno evidenti che si accompagnano al discorso teorico sul film. L’impostazione visiva è priva della belluria elegante che caratterizza l’utilizzo formale del bianco e nero, per creare una commistione tra i confini del mondo reale e quelli dell’universo cinematografico, che nel racconto di Kassovitz collidono. Lo dimostra la veduta in notturna verso la Tour Eiffel illuminata (quasi verso l’epilogo del film) che il protagonista Vinz (Vincent Cassel) vorrebbe spegnere con la sola forza del pensiero, per costringere nel buio quel lato della vita parigina a lui preclusa.
Nella scena, qualcosa a quel punto del film stride, viene meno, per ricordare che ciò a cui stiamo assistendo non è altro che la ricostruzione di una realtà sociale che sgomita e lotta per trovare un posto nel mondo. Dunque ci avvertono i personaggi, tre amici della banlieu (la periferia) francese, l’illuminazione si spegnerebbe solo se fossimo effettivamente in un film, perché nella vita reale il pensiero cosciente non è in grado (purtroppo) di cambiare il mondo. Eppure, prima che lo schermo nero dello stacco di montaggio inghiotta l’intera scena, proprio quando i tre amici si avventurano nel fuori campo oltre lo schermo, la Tour Eiffel effettivamente si spegne, privandoci della luce. La presa sulla narrazione comincia a vacillare, l’emozionalità creata per un attimo sembra sospendersi: stiamo davvero guardando solo un film?
Eppure l’evento scatenante da cui Kassovitz trae l’ispirazione per la storia, quello dell’arresto e della seguente morte in carcere di un giovane ragazzo (Makome M'Bowole, nel ’93) della banlieu, è un racconto di cronaca che richiama alla mente di chi guarda, anche a distanza di anni, diversi episodi tragicamente noti. Durante i titoli di testa del film, le immagini che si uniscono alle didascalie sono i filmati di scontri reali degli anni ’90 con la polizia, per creare una continuità con ciò che accade fuori dallo schermo. Si delinea quindi una divisione simbolica quanto concreta, dove si palesano due estremità in lotta nell’apparente resoconto di una sola giornata. Da un lato, a mostrarsi, è l’esercizio di potere brutale, della polizia, dei giornalisti, degli artisti, della buona società; dall’altro un mancato riconoscimento comunitario, che come nucleo non può che avere l’erranza arrogante della giovinezza, composta da un miscuglio etnico relegato ai margini.
Sono i dimenticati già precedentemente citati, Vinz un ragazzo ebreo dalla forte rabbia repressa, che sin da principio punta contro lo schermo una pistola immaginaria, che verrà poi sostituita da una reale. Hubert, nordafricano immigrato di seconda generazione, il cui carattere in apparenza più maturo e riflessivo, si pone principalmente come mentore dello stesso Vinz. Infine Saïd, un giovane arabo con la pretesa (utopica?) di avere una vita come tante. Non dovrebbero essere personaggi tragici eppure, a ben guardare i riferimenti cinematografici disseminati nel film, da Taxi Driver di Scorsese a Il Cacciatore di Cimino, non possono non esserlo: soprattutto Vinz, con la sua voglia di vendetta e riscatto.
La dimensione del racconto adatta il tempo reale a quello di finzione del cinema, articolando la sceneggiatura attraverso una scansione oraria che parte dalle 10:30 del mattino fino alle 06:01 del giorno dopo. I dialoghi nella versione originale sono in verlan, una particolare forma gergale francese che fa dell’inversione delle sillabe la sua forza: quello che viene detto è il contrario del suo significato.
Un rovesciarsi di senso dunque, che tende verso una sottile concezione di incomunicabilità che impregna la vita sociale dei ragazzi. I tre amici parlano di tutto, lo fanno in continuazione, le inquadrature strette sui loro volti durante i dialoghi più concitati, non mancano di restituire sputi e saliva. I loro discorsi, zeppi di insulti, spazino fino a litigare persino per chi sia Tom e chi sia Jerry nella serie d’animazione: eppure non comunicano davvero. Nessuno dei tre esprime i propri sentimenti, nessuno dei tre ha il coraggio di far sapere all’altro cosa prova per l’amico in ospedale a cui non possono nemmeno far visita.
È un cinema-empatico quello di Kassoviz, in cui sotto la lente d’ingrandimento del film, a pesare di più è l’atto di repressione della gamma di emozioni umane, in cui non può che restarne una: l’odio. Un odio viscerale, disperato, dilettantistico; come dilettanti sono i tre personaggi che performano le loro azioni, caricandole di un significato rabbioso e violento fino a sgonfiarle del tutto, perché nel mezzo c’è la banlieu non la vita di città a Parigi. I protagonisti si misurano con un vuoto che viene indicato, grazie alla visione registica, proprio dallo spazio iconografico. La vita comunitaria nella banlieu è violentemente arrestata, negata, portando ad un frammentarsi identitario che costringe i corpi ad occupare spazi aperti anonimi e privi di calore.
Il montaggio quindi, riprendendo quel capovolgersi di senso già citato, è reso in diverse sequenze con l’utilizzo del jump-cut: tecnica molto cara al movimento della Nouvelle Vague francese, che impone alle scene un taglio nella parte centrale dell’immagine. Visivamente si ha l’impressione di un salto, come uno spostamento improvviso in cui i personaggi sullo schermo sembrano passare da una posizione all’altra in modo brusco, senza un apparente nesso. Il taglio delle immagini nel film, mostra dapprima i personaggi immersi in un vuoto sospeso che fanno fatica a riempire, seduti in esterno sotto il sole. Poi, nel tempo di uno sbattere di palpebre, è già in corso un dialogo concitato di cui non abbiamo seguito l’avvento, in bocca ad un ragazzino della comunità che non vedremo più nel corso del film.
La ricerca dell’identità si traduce con una mobilità errante dei protagonisti, che diventa sinonimo di confusione e dubbio, portandoli a spostarsi verso il centro della città. Nella Parigi che li “accoglie” vi trovano solo pericoli, possibilità di furti, violenza della polizia, sessismo malcelato che tradisce un’impossibilità a confrontarsi con il femminile (che nella visione di Kassoviz è completamente allontanato) e, soprattutto, la morte. In questo senso andrebbe ricercato il continuo riferimento alla cultura pop-street che ha fatto la fortuna del film, passando dalle musiche\mashup (spesso diegetiche) fino ai manifesti pubblicitari (ritoccati) che hanno come slogan “il mondo è nostro”.
Eppure verrebbe da chiedersi di chi esattamente, se dei personaggi che hanno la pretesa di realtà o di chi guarda dall’altro lato dello schermo, che dovrebbe aprire gli occhi su ciò che succede - ancora oggi - oltre la soglia di casa propria. Una risposta può giungere dall’ibridismo del film che, nella ricercatezza della forma stilistica, cela una voglia di possesso e rivendicazione verso un sentimento collettivo che, semplicemente, pare irraggiungibile: proprio per questo si fa affidamento alle immagini del cinema. Ha un mantra L’odio che si ripete dall’inizio alla fine, tradendo un ottimismo vitale a cui i tre personaggi alla ricerca di redenzione non possono che tendere, dove a travolgerli saranno le conseguenze dell’atterraggio di una caduta infinita: “fino a qui tutto bene.”
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