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MICRO e MEGA. Come cambia la storiografia?

  • Writer: Koinè Journal
    Koinè Journal
  • Sep 22
  • 16 min read
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di Cosimo Bettoni.


1. Il dramma umano che dà vita alla storia

L’espressione global microhistory compare per la prima volta all’interno di un articolo di Tonio Andrade intitolato A Chinese Farmer, Two African Boys, and a Warlord: Toward a Global Microhistory (2010).


Nell’articolo si rievoca la vicenda di un coraggioso contadino cinese coinvolto, suo malgrado, nella tragica guerra per Taiwan combattuta tra gli Olandesi e i lealisti Ming provenienti dal continente, guidati dal signore della guerra Koxinga.

Più del contenuto del testo, che sarà utile rievocare più avanti, risulta interessante ricordare l’incipit del lavoro di Andrade, soffermandosi in particolar modo al momento in cui afferma:

 

We’ve made great strides building powerful models of global historical structures and processes: global silver flows, strange parallels, divergences great and small. But we’ve tended to neglect the human dramas that make history come alive. I believe we should adopt microhistorical and biographical approaches to help populate our models and theories with real people, to write what one might call global microhistory (Andrade, 2010: 574).

 

Il messaggio lanciato da Andrade sembra qui essere molto chiaro: la storia globale tende a porre come oggetto esclusivo delle sue ricerche alcuni processi che hanno determinato, nel corso della storia (specialmente di quella moderna e di quella contemporanea), delle connessioni intercontinentali. In questo modo però essa va a tralasciare quell’individualità, microscopica di fronte ai grandi avvenimenti politici ed economici, che dà però sostanza e ‘’vita’’ alla narrazione storica.


Lo storico americano propone di risolvere questa problematica attraverso il ricorso a un approccio microstorico e globale, che possa dare maggiore concretezza ai grandi processi globali, che devono dunque essere popolati con persone reali.

Lo spunto di Andrade è stato ripreso solo un anno più tardi da Francesca Trivellato, che offre ulteriori suggerimenti e indicazioni su cosa si possa intendere per microstoria globale all’interno di un saggio in cui si riflette su quale sia il ruolo della microstoria italiana nell’era della storia globale (Trivellato 2011).


Gli storici globali, nota la Trivellato, fanno affidamento nel corso delle loro ricerche soprattutto a fonti secondarie, e questo a causa di un’ovvia barriera linguistica che impedisce di potersi avvicinare a testi provenienti da realtà distanti nello spazio e nel tempo.

La microstoria, al contrario, utilizza fonti primarie al fine di verificare se i grandi paradigmi macrostorici trovano un riscontro anche nelle realtà più piccole (Medick, 2016:242), come comunità religiose o villaggi di campagna. Lo stesso Andrade nel lavoro rievocato in precedenza, si era servito di una fonte primaria, i De dagregisters van het Kasteel Zeelandia, composti dal governo coloniale olandese a Taiwan tra il 1629 e il 1661.

Il lavoro della Trivellato ha però anche un altro merito: quello di aver indicato in maniera schematica e precisa una serie di autori e di ambiti di ricerca (uno su tutti quello delle global lives) in cui è possibile uno sforzo congiunto dei metodi.


Nel corso dell’ultimo decennio si è continuato a discutere molto su cosa sia, o per meglio dire su cosa dovrebbe e potrebbe essere, la microstoria globale; eppure ad oggi sembra assai difficile poter parlare di ‘’scuola’’ per quest’ultima, ossia di una dottrina coerente nella quale si riconosce un certo numero di studiosi.

La mancanza di una definizione certa si deve attribuire al fatto che si tratta forse ancora di una disciplina in via di definizione.

Nonostante non sia ancora chiaro a quale approdo giungerà la microstoria globale, risulta comunque possibile cercare quantomeno di delineare l’area di interesse principale dei lavori ad oggi indicati come microstoria globale.


In un lavoro uscito su Annales nel 2018, Romain Bertrand e Guillaume Calafat spiegavano che global microhistory era un’espressione che aveva riscosso un notevole successo soprattutto among historians, particularly English-speaking early modernists. (Bertrand e Calafat, 2018: 3).

Questa indicazione trova effettivamente riscontro in alcuni lavori dei più importanti studiosi di storia moderna: si pensi per esempio al lavoro della stessa Trivellato Il commercio interculturale. La diaspora sefardita, Livorno e i traffici globali in età moderna (2016), o Agents of Empire: Knights, Corsairs, Jesuits and Spies in the Sixteenth-Century Mediterranean World (2015) di Noel Malcolm.


La prima età moderna (tra la fine del XV secolo e la fine del XIX) si presenta per questi storici come terreno ideale in quanto nel corso di questa si è parlato di interazioni di tipo politico, sociale ed economico su vastissima scala, che determinarono quella che è stata definita come una first globalization (Bertrand e Calafat, 2018: 4).

Ad accomunare questo tipo di studi è poi la finalità, non solo di determinare se i grandi paradigmi trovano contesto microscopico, ma anche di valutare quanto un elemento proveniente da quest’ultimo sia in grado di interagire e avere un impatto sul piano macroscopico.


Così come però la microstoria può rappresentare un fattore di raffinamento per la storia globale, non si può negare che proprio grazie al confronto con quest’ultima la prima abbia vissuto ultimamente quella che gli stessi microstorici hanno definito una new Renaissence (Medick, 2016: 241). Ciò lo si deve soprattutto al fatto che:

 

the term “global microhistory” can contribute positively to a more careful rereading of microhistorical studies, far from the lazy caricatures that see them as simple monographs or biographical case studies (Bertrand e Calafat, 2018: 9).

 

In base a quanto detto sino ad ora non si può che affermare che l’appello lanciato da Andrade abbia effettivamente avuto una notevolissima eco, tanto tra gli storici globali quanto tra i microstorici. L’emergere di questa nuova rotta storiografica ha fatto sì, ad esempio, che aree di studio come la storia delle migrazioni (Freist, 2017: 539) trovassero linfa vitale attraverso nuovi stimoli e suggestioni.

Questa nuova prospettiva ha comportato che queste non siano più osservate dalla sola prospettiva demografica, ma anche da un punto di vista sociale ed emotivo, che tenga conto delle individualità coinvolte nei grandi fenomeni migratori.

La figura del singolo migrante (categoria alla quale possiamo ascrivere anche gli schiavi, che sono a tutti gli effetti dei cosiddetti ‘’migranti forzati’’) assume oggi una dimensione in precedenza inesplorata, soprattutto nel momento in cui si va a riflettere sul rapporto con il luogo abbandonato.


Chi parte non si dimentica definitivamente della propria terra di origine, alla quale resta collegato a causa di vincoli emotivi, rappresentati di solito da parenti, ai quali sono indirizzati lettere e oggetti. La corrispondenza personale, come ha osservato Dagmar Freist, rappresenta una straordinaria fonte per la microstoria globale, e questo in quanto rappresenta la testimonianza del permanere di connessioni di tipo personale ed intimo con il proprio luogo d’origine nonostante la presenza di barriere politiche e religiose.

 

[Letters] were written or dictated by men, women and children, who had been «on the move» between the late 17th and early 19th centuries across the oceans, as subjects of colonial powers but also as free movers...The letters are literally snapshots of the past, they offer uncensored glimpses into another world, and they allow us to see how people ineracted across national and religious borders, and how they came to terms with the challenges of the unknown (Freist, 2017: 540).

 

Non si farebbe un errore se si sostenesse che questa nuova modalità di osservazione ha causato un forte ritorno dell’elemento biografico. Infatti, come già ricordato in precedenza uno dei filoni che hanno maggiormente goduto del successo della microstoria globale è quello già citato delle global lives, ambito in cui Trickster Travels: A Sixteenth-century muslim Between Worlds (2006) di Natalie Zemon Davies (una delle madri putative della microstoria globale) fa da testo di riferimento.


A guardare con più diffidenza lo sviluppo di una microstoria globale attraverso il filone delle global lives è Dagmar Freist, secondo la quale molto spesso questo tipo di narrazioni non posseggono la necessaria accuratezza epistemologica (Freist, 2017: 547).

Più che all’esperienza biografica, secondo la Freist si dovrebbe sviluppare una riflessione attorno a una global microhistory of social sites, basata sul concetto teorizzato dal filosofo americano Theodore Schatzki di social site (Schatzki, 1996 e 2001). Quest’ultimo si fonda  sull’idea che sia possibile trovare nel corso della prima età moderna dei ‘’siti sociali globali’’, come ad esempio i contesti coloniali, in cui si incontrano pratiche sociali profondamente differenti, la cui presenza poteva causare scontri, suscitare emozioni o favorire intese tra persone legate da qualche obiettivo comune (Freist, 2017: 548).


Tra le tante suggestioni portate avanti, quella della Freist di una microstoria globale basata sui global social sites risulta probabilmente quella più suggestiva, oltre che quella ad aver oggi tracciato un solco all’interno del quale anche altri storici sembrano essersi mossi.

Si deve sperare che questa adesione, che pur non cancella l’evidente mancanza di un vero e proprio manifesto programmatico, possa rappresentare un punto di svolta nel dibattito sulla microstoria globale, permettendo il consolidamento di un’area di studi dotata di un fascino assolutamente non indifferente.


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2. Imperial History e microstoria: il caso dei Johnstones

La prima età moderna è un’epoca di Stati e Imperi, entità politiche che basano la loro esistenza su presupposti totalmente differenti, ma capaci comunque di interagire, anche se nella maggior parte dei casi attraverso modalità violente.

Se molto nel corso dello scorso secolo si è detto sulla nascita dello Stato moderno in Europa, negli ultimi anni sembra invece che sia la realtà imperiale ad attirare l’interesse degli storici dell’età moderna. Lo sviluppo della cosiddetta imperial history è dovuto principalmente a due fattori: in primo luogo, la possibilità di andare oltre il paradigma eurocentrico e la centralità totalizzante che questo assegna alla nascita dello Stato; in secondo luogo, la possibilità di mettere al centro della narrazione storiografica lo sviluppo di realtà politiche, imperiali, extra-europee.


L’approccio transcontinentale della storia globale ci permette di superare la visione tradizionale di un’incontrastata ascesa europea, praticamente impossibile ad est a causa della presenza dei tre Imperi di matrice islamica (Ottomano, Mughal e Safavide).

Una volta definiti questi due aspetti si può comprendere con relativa facilità come mai la storia degli Imperi eserciti un’attrattiva così grande sugli storici globali, che si sono interessati soprattutto alle modalità di interazione tra poteri imperiali, sia tra di loro, sia con le altre realtà politiche. All’interno di questa nuova branca, un ruolo importante è stato attribuito agli imperial agents (Marcocci, 2016: 522), espressione con la quale si intendono tutta una serie di categorie di persone (mercanti, missionari, soldati, diplomatici, esploratori, avventurieri e talvolta persino pirati), che agiscono a cavallo delle frontiere e dei confini, permettendo la comunicazione di due entità politiche differenti.


In questa nuova rotta della disciplina storica è indubbio che la microstoria globale possa giocare un ruolo importante nella sfida lanciata dalla storia globale all’eurocentrismo.

Gli Imperi si sono dimostrati realtà politiche capaci di favorire le interazioni globali attraverso la circolazione dell’individualità (Marcocci, 2016: 515); è il piccolo che si propaga nel grande, il microscopico che agisce all’interno del grande paradigma storiografico.

Spesso è proprio l’iniziativa individuale (che si deve sempre trattare con cautela, al fine di non scadere nella semplice esaltazione), inserita - direttamente o indirettamente - all’interno di logiche e dinamiche imperiali, a permettere le penetrazioni commerciali o la diffusione di una dottrina religiosa.


Il testo di Emma Rothschild The Inner Life of Empires: An Eighteenth-century History (2011) offre un ottimo esempio di come sia possibile inserire un’analisi microstorica all’interno del grande scenario globale a cui fanno riferimento i grandi Imperi della modernità.

Secondo la Rothschild un caso come quello dei Johnstones, membri di una famiglia scozzese ascesa ai vertici dell’Impero Britannico nella seconda metà del XVIII secolo, fornisce gli strumenti per una nuova microstoria (Rothschild, 2011: 7).

 

The Johnstones’ history is a new kind of microhistory, too, because, it is an exploration of new ways of connecting the microhistories of individuals and families to the larger scenes of which they were a part: to important or ‘’macrohistorical’’ inquiries (Rothschild, 2011: 7).

 

I successi e le disgrazie personali dei Johnstones, quattro sorelle e sette fratelli, avvengono all’interno di uno scenario politico vastissimo, che dalla Scozia si prolunga all’America del Nord e all’India. Alcuni di loro si arruolarono nell’East India Company e combatterono in India assieme a lord Clive nel corso della guerra dei sette anni (1756-1763); un altro fratello, George, fu invece governatore della colonia della Florida Orientale tra il 1764 e il 1766.


I Johnstones si trovarono coinvolti in alcuni sviluppi cruciali del XVIII secolo, vivendo in prima persona la Rivoluzione americana, l’inizio della lotta per l’abolizione della schiavitù e, soprattutto, la trasformazione della Gran Bretagna in un impero basato sul libero commercio.

È soprattutto quest’ultimo aspetto che colpisce: essi sono perfettamente consapevoli (Rothschild, 2011: 126) delle conseguenze della trasformazione in un impero capitalista, un mutamento che alcuni di loro identificano come il trionfo dell’avidità e della corruzione, in primo luogo quella dell’EIC, e di cui altri invece intuiscono l’enorme potenziale economico.

Questo tipo di indagine rende possibile studiare gli Imperi a partire dal più piccolo contesto del nucleo familiare, dimostrando, come sostiene la Rothschild, che la history of families has been a history of empires (Rothschild, 2011: 269).


Nell’immenso scenario in cui si sviluppa, la storia dei Johnstones è esemplificativa del fatto che i rapporti familiari fungono come connessione tra la casa, intesa come il luogo d’origine della famiglia (in questo caso la Scozia e le isole britanniche in generale), e la configurazione imperiale, rappresentata dai domini d’oltremare.

La loro storia è a tutti gli effetti una microstoria, in quanto essi affrontano gli specifici dilemmi del proprio tempo, ma è anche una large microhistory (Rothschild, 2011: 269), in quanto la dimensione in cui questi dilemmi sono affrontati è realmente globale.

Il grande accadimento storico e l’esperienza individuale trovano entrambe spazio all’interno delle corrispondenze personali, che, come aveva giustamente sostenuto Dagmar Freist, si rivelano un irrinunciabile mezzo di comunicazione tra la dimensione microscopica e quella macroscopica.


I loro carteggi ci restituiscono il ritratto di una famiglia perfettamente inserita anche negli importanti sviluppi culturali del Settecento, cosa che offre potenzialmente la possibilità di esplorare da un’altra angolazione il mondo degli Imperi, chiedendosi quale impatto abbia avuto in questo specifico caso l’elaborazione di dottrine che fanno riferimento ai maggiori esponenti del cosiddetto illuminismo scozzese.

Il filosofo Adam Smith è infatti un amico intimo di William Johnstone (che dopo il matrimonio adotta il più prestigioso cognome della moglie, ossia Pulteney), il quale però non fa proprie le ostili posizioni dell’amico nei confronti della schiavitù.

William Johnstone-Pulteney viene eletto per ben tre volte al Parlamento britannico, dove in diverse occasioni si pronuncia in maniera ostile riguardo la posizione abolizionista (Rothschild, 2011: 19-20), che a cavallo del XVIII e del XIX secolo guadagna un notevole consenso nel mondo britannico. Anche un altro membro della famiglia, John Johnstone, riesce a essere eletto in Parlamento, dove si batte a favore dell’abolizione della schiavitù (Rothschild, 2011: 21), schierandosi così contro il fratello. Le conseguenze emotive di questa piccola faida familiare sono riportate ovviamente nelle lettere, all’interno delle quali le lotte parlamentari fanno da sfondo ai risvolti emotivi di questo scontro tra consanguinei.


La storia del commercio di schiavi è fortemente connessa a quella degli Imperi della prima modernità, che nella maggior parte dei casi costruiscono le proprie fortune coloniali, e di conseguenza economiche, proprio grazie alla schiavitù, istituto sul quale si basa uno dei più ambiziosi esperimenti di tecnica sociale della prima età moderna: la piantagione schiavile (Osterhammel e Petersson, 2005: 43).

La scelta dei vari membri dei Johnstones di schierarsi a favore o contro la schiavitù dipende del tutto dalla vicenda personale: John Johnstone assiste in prima persona alle brutali pratiche di assoggettamento dei nativi utilizzate dall’EIC e da lord Clive in India, quindi egli è emotivamente più vicino alla causa umanitaria propugnata in quegli anni dagli abolizionisti della schiavitù. William Pulteney-Johnstones, amico del celebre illuminista scozzese David Hume, e suo fratello Alexander (che acquista una piantagione, in cui lavorano centinaia di schiavi, a Grenada) sono invece favorevoli alla schiavitù.


Una parente dei Johnstones, Margaret Ogilvy (figlia di Margaret Johnstones, sostenitrice della causa giacobita morta in esilio in Francia) è invece protagonista di una fondamentale vicenda inerente alla storia dell’abolizionismo britannico. Margaret sposa infatti in Giamaica il nobile scozzese John Wedderburn, schiavista, con il quale torna in Scozia nel 1769 assieme al loro schiavo Joseph Knight. Quest’ultimo, appellandosi al fatto che la legge inglese proibiva la schiavitù, decide di portare il padrone di fronte al tribunale di Perth nel 1778. La vicenda diviene celebre molto velocemente in quanto il tribunale si esprime in favore di Knight, sostenendo che non esiste un fondamento storico della schiavitù nella legge scozzese.

La sentenza di Perth si richiama in realtà ad un altro verdetto, che si riferisce ad un episodio simile a quello di Joseph Knight, nonché vero e proprio punto di svolta per la storia della campagna abolizionista non solo in Gran Bretagna, ma anche negli Stati Uniti. Si sta parlando della sentenza pronunciata nel 1772 dall’allora Chief Justice della Corona, Lord Mansfield, riguardo il caso Somerset v. Stewart.

 

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3. Il Somerset’s Case: una microstoria globale per l’abolizionismo atlantico

Ripensare in termini di microstoria globale alla vicenda di Somerset v. Stewart potrebbe rivelarsi assai utile sotto diversi aspetti. L’impatto avuto dalla sentenza di lord Mansfield infatti va ben al di là dei semplici effetti avuti sui principali protagonisti del caso, ma ha un impatto notevole anche nel dibattito giurisprudenziale sulla liceità della schiavitù negli Stati Uniti (Webb, 2014: 456-457).


Come già sottolineato, le circostanze che portano al pronunciamento del 1772 sono quasi analoghe a quelle del 1778: uno schiavo da poco giunto in Inghilterra, James Somerset, decide di citare in tribunale il proprio padrone, il mercante americano Charles Stewart, dopo essere entrato in contatto con dei neri liberi e degli abolizionisti bianchi.

L’esperienza microscopica di un singolo individuo, James Somerset, si propaga così in uno scenario macroscopico, all’interno del quale la sua singola vicenda diviene una chiave di lettura indispensabile per poter comprendere i motivi che portano ad un processo destinato a cambiare in maniera irrimediabile le modalità, legali prima ancora che morali, attraverso le quali si sarebbe guardata la schiavitù su entrambe le sponde del mondo atlantico.

Tra le varie figure che Somerset ha modo di conoscere, la più importante è senza dubbio quella di Granville Sharp, nipote dell’Arcivescovo di York e soprattutto un vigoroso abolizionista, autore di numerosi pamphlet, tra i quali si ricorda A Representation of the Injustice and Dangerous Tendency of Tolerating Slavery (1769).


Basandosi sulla norma 93 della Magna Charta (Wiecek, 1974: 97), Sharp afferma che mai in Inghilterra è esistita una norma che renda valida la schiavitù, che pertanto deve essere considerata priva di ogni fondamento giuridico che la giustifichi.

Se dunque Somerset può contare sul vigoroso appoggio degli ambienti abolizionisti, anche il suo padrone Charles Stewart si presenta all’inizio del processo assieme ad un alleato notevole: la West India Company, la quale ha tutto l’interesse ovviamente nel voler evitare che si crei un precedente legale che renda illecito il possesso di schiavi in Inghilterra.

Le pressioni mosse dagli avvocati di entrambi gli schieramenti sul Chief Justice Lord Mansfield sono veramente gigantesche, come si può evincere dal fatto che tra il termine delle audizioni in Maggio, e il pronunciamento del verdetto (22 Giugno) passa un mese. Recita la sentenza:

 

The state of slavery is of such a nature, that it is incapable of being introduced on any reasons, moral or political, but only by positive law, which preserves its force long after the reasons, occasions, and time itself from whence it was created, is erased from memory. It is so odious, that nothing can be suffered to support it, but positive law. Whatever inconveniences, therefore, may follow from the decision, I cannot say this case is allowed or approved by the law of England; and therefore the black must be discharged.

 

Le parole pronunciate da Lord Mansfield sono forti, così forti da avere un’eco immediata anche al di là dell’Atlantico; uno dei primi a commentarle è Benjamin Franklin, che denuncia l’ipocrisia della società inglese, che esulta per la liberazione di un singolo schiavo nero, ma il cui governo promuove leggi volte a sostenere i commerci degli schiavisti guineani.

Tanto in epoca pre-rivoluzionaria quanto negli anni successivi alla nascita degli Stati Uniti (e poi soprattutto nei decenni immediatamente a ridosso della guerra di secessione), la sentenza del Somerset’s Case è al centro di un enorme dibattito giuridico nel mondo legale americano.

Il dibattito legale sulla schiavitù negli Stati Uniti si riconduce a quattro grandi correnti:

 

•    Gli abolizionisti radicali, ossia i sostenitori dell’incostituzionalità della schiavitù.

•    I Garrisonians, fautori di un’abolizionismo progressivo, che si rifanno alle posizioni del riformista sociale William Lloyd Garrison.

•    Gli abolizionisti moderati, per i quali la schiavitù è giustificabile a livello locale, ma non federale. Tra costoro figura anche il futuro presidente Abraham Lincoln.

•    I difensori della legalità dell’istituto schiavile, tutti giuristi, e praticamente tutti provenienti dagli Stati del Sud.

 

Ognuno di questi gruppi riconosce alla sentenza di Lord Mansfield un’importanza indiscutibile, ma ovviamente tutti e quattro si prestano a interpretazioni più o meno antitetiche a questa. Se per gli abolizionisti radicali il Chief Justice con la sua sentenza afferma l’incostituzionalità della schiavitù in Inghilterra, per i Garrisonians invece egli non fa che abolirla dalla costituzione, che, proprio come nel caso degli Stati Uniti (Webb, 2014: 467), in precedenza la prevedeva.

Più complessa la posizione degli abolizionisti moderati, incarnati storicamente dalla figura di Lincoln, secondo i quali non si può eliminare la schiavitù a livello locale, in quanto una legge della consuetudine la tutela, ma la si può proibire a livello federale. Per gli abolizionisti moderati Lord Mansfield non aveva fatto che questo: proibire la schiavitù in Inghilterra, non nel resto dell’Impero Britannico, che allora era composto anche dalle colonie americane.


Per quanto riguarda invece l’ultimo gruppo, quello pro-slavery, esso giustifica la liceità legale della schiavitù attraverso diverse posizioni: dalla presenza di schiavi nella Bibbia, sino alla ripresa delle parole di Mansfield, che non possono accordarsi con uno dei diritti fondamentali espressi nella Dichiarazione d’Indipendenza, ossia quello di potere ricercare la felicità (pursuit of happiness). Questo principio è però del tutto inapplicabile per gli schiavi neri, in quanto inferiori moralmente ed intellettualmente agli uomini bianchi, ai quali, secondo la legge naturale, sono dunque giustamente sottomessi.

Questa modalità di riflettere in senso biologico sulla natura della legge positiva diventerà, alla vigilia del conflitto di secessione, uno dei tasselli principali della dottrina razziale elaborata dai politici della Confederazione, secondo i quali la schiavitù non è che la naturale subordinazione di una razza inferiore alla dominante razza bianca (Webb, 2014: 489).

 

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Bibliografia

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- J. Osterhammel e N. P. Petersson, Storia della globalizzazione, Il Mulino, Bologna, 2005.

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