7 Ottobre: due anni dopo
- Koinè Journal

- Oct 6
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di Lorenzo Ruffi.
Anatomia del Sette ottobre: dal Massacro all’Orrore
All’alba del 7 ottobre di due anni fa Hamas lanciava il suo più grande e devastante attacco contro Israele, culminato nell’uccisione a sangue freddo di 1200 persone e il rapimento di 250 ostaggi, riaccendendo un conflitto che infiamma ininterrottamente dalla creazione stessa dello Stato Ebraico. Da quel momento, una tragica spirale di eventi ha trasformato il volto del Medio Oriente e del mondo intero, innescando una reazione a catena che in meno di due anni ha radicalmente cambiato l’assetto geopolitico della regione. La devastante risposta israeliana al 7 ottobre non ha solo martoriato la Striscia di Gaza e il suo popolo, ma ha provocato l’allargamento del conflitto a paesi limitrofi e non, mettendo in chiaro come, per Netanyahu e il suo governo, quella in corso sia una guerra esistenziale per lo Stato d’Israele.
La brutalità delle operazioni condotte a Gaza, assieme ai trattamenti disumani inflitti contro i civili palestinesi, hanno poi alimentato uno scuotimento di coscienze a livello mondiale, che ha mobilitato milioni di cittadini da ogni angolo del pianeta a protestare contro un massacro che assume i contorni della pulizia etnica, se non addirittura del vero e proprio genocidio. Come conseguenza di ciò, Israele affronta una pressione internazionale che non ha eguali nella storia, pressione che ha progressivamente portato all’isolamento dello Stato Ebraico nello scacchiere internazionale. Dalla solidarietà globale successiva all’attacco di Hamas, alla condanna globale per i crimini di guerra commessi a Gaza, negli ultimi due anni la percezione stessa di Israele nel mondo è profondamente cambiata, come testimoniato dalla recente ondata di riconoscimenti, per lo più simbolici, dello Stato palestinese avvenuti nelle ultime settimane da paesi quali Belgio, Canada e Francia, alleati storici e indiscussi dello Stato Ebraico.
Dopo due anni di guerra, una nuova proposta di pace sembra farsi avanti. Se un’intesa di massima pare questa volta realizzabile, difficile resta ancora trovare un punto d’incontro che garantisca una convivenza fra le due parti principalmente coinvolte nel conflitto.
Israele: una guerra esistenziale?
“Cari cittadini d’Israele, (….) siamo in guerra. Non volevamo questa guerra, ma essa ci è stata imposta da chi disprezza la vita”. Con queste parole Benjamin Netanyahu si rivolse ai propri concittadini nella mattina del 7 ottobre 2023, appena qualche ora dopo il massacro compiuto dai miliziani di Hamas nei pressi dei kibbutz e villaggi israeliani adiacenti alla Striscia. Fin da subito, Israele ha delineato la sua campagna militare a Gaza come una vera e propria lotta di sopravvivenza, per estirpare un male che minaccia alle sue fondamenta l’esistenza stessa dello Stato Ebraico. Tale guerra esistenziale, tuttavia, ha immediatamente assunto connotati ben più ampi dell’iniziale scontro contro il movimento islamista palestinese, evolvendo in un conflitto diretto contro una serie di attori che Israele considera minacce esistenziali. Dagli attacchi in Libano contro Hezbollah ai bombardamenti in Yemen contro gli Houthi, dalla breve guerra combattuta a lungo raggio contro l’Iran agli sconfinamenti territoriali in Siria all’indomani della caduta del regime di Assad, Israele ha brevettato un nuovo approccio alla sicurezza nazionale estremamente assertivo, che permette attacchi spregiudicati contro obiettivi ritenuti in grado di attentare alla sicurezza del paese. In risposta all’attacco del 7 ottobre, Israele ha dunque lanciato una crociata sui generis contro il terrorismo, allargando arbitrariamente la propria guerra a territori distanti dall’epicentro del conflitto.
La questione di Gaza resta, tuttavia, la più impellente. L’attacco di Hamas ha mostrato al mondo che Israele è vulnerabile, proiettando un’immagine di debolezza che i suoi nemici avrebbero potuto sfruttare per colpirlo, ancora, inaspettatamente. Sbarazzarsi del movimento islamista che dal 2006 tiene in scacco la Striscia di Gaza e la sua popolazione divenne dunque imperativo all’indomani del 7 ottobre. Per farlo, Israele è stato trascinato in un estenuante conflitto di logoramento, che ha provocato circa 60mila morti nella Striscia, oltre a immani distruzioni, sfollamenti coatti, carestie e sofferenze indicibili per la popolazione civile intrappolata fra i due fuochi.
Tale risposta, oltre a provocare un’ondata di sdegno a livello internazionale che ha preso la forma di massicce iniziative civili e non governative volte a denunciare il massacro del popolo palestinese, ha progressivamente alienato il supporto a Israele di molti paesi, il cui appoggio era un tempo considerato incrollabile. Il naufragio degli Accordi di Abramo, ovvero il processo di normalizzazione delle relazioni fra Israele e i paesi arabi iniziato nel 2020 su iniziativa di Donald Trump, è forse la manifestazione più chiara dell’attuale status quo diplomatico dello Stato Ebraico.
La guerra a Gaza ha inoltre dimostrato la sua inefficacia nel risolvere il nodo gordiano degli ostaggi, portati dai terroristi di Hamas nella Striscia per essere usati come leva negoziale nei confronti di Israele. Rifiutando il negoziato diretto, Israele ha optato per la sola via militare, andandosi a impantanare nella guerriglia urbana della Striscia senza riuscire a identificare e a liberare la maggior parte dei concittadini tenuti in cattività. La questione degli ostaggi ha dunque assunto una rilevanza politica di primaria importanza: se per Hamas il mantenimento dei prigionieri israeliani è una sorta di assicurazione sulla vita, per Israele la loro liberazione sarebbe l’unico successo di questa guerra da presentare alla propria opinione pubblica.
Il tema degli ostaggi e della loro (mancata) liberazione è infine da collegarsi alle accuse, mosse dalla stessa società civile israeliana, al governo di Netanyahu, accusato di prolungare la guerra e di rifiutare ogni forma di trattativa per mantenersi al potere il più a lungo possibile. Il premier israeliano è infatti imputato in tre casi di corruzione, fra cui frode e abuso di fiducia, oltre ad essere stato bersaglio di un mandato di cattura internazionale per crimini di guerra nel novembre del 2024 da parte della Corte Penale Internazionale. Per Netanyahu e il suo governo, composto in parte da estremisti afferenti all’ala più radicale e messianica del sionismo religioso, il conflitto a Gaza è si è trasformato da guerra esistenziale per garantire la sopravvivenza dello stato Ebraico a misura necessaria, e ugualmente esistenziale, per assicurare la propria permanenza ai vertici del sistema politico israeliano.
Quale futuro per Hamas e la Striscia?
Per certi versi, il 7 ottobre ha innescato una guerra esistenziale per lo stesso movimento responsabile dell’attacco terroristico. A due anni dal massacro, restano ancora non del tutto chiari i motivi che hanno spinto Hamas ad attaccare. Disinnescare gli Accordi di Abramo, in particolare il riavvicinamento fra Israele e Arabia Saudita, era sicuramente un obiettivo strategico perseguito dal gruppo e dai suoi alleati, ma ad esso vanno sicuramente aggiunti il deteriorarsi delle condizioni dei palestinesi nella Cisgiordania, ove il movimento dei coloni da anni continua a sottrarre terra ai locali con la complicità, se non addirittura con il supporto, del governo israeliano, e il generale disinteresse mostrato dall’opinione pubblica mondiale per la causa palestinese stessa, oscurata da crisi più impellenti quali immigrazione, guerra in Ucraina, cambiamento climatico e così via.
L’attacco del 7 ottobre, destinato a segnare una nuova fase della storia del fenomeno terroristico, ha ottenuto ciò che Hamas sperava di ottenere: mostrare la debolezza di Israele, spingerlo a una reazione feroce e incontrollabile che sul lungo periodo avrebbe inevitabilmente danneggiato la sua immagine, far fallire ogni processo di normalizzazione fra lo Stato Ebraico e i paesi arabi, specie Arabia Saudita e, infine, dirottare l’attenzione mondiale nuovamente sulle sofferenze e ingiustizie subite dal popolo palestinese. Così facendo, Hamas sperava di rilanciare la lotta contro l’occupazione israeliana, ponendosi come avanguardia politica dei palestinesi, ma la brutale campagna militare israeliana rischia di annientare il movimento islamista in ogni sua forma.
Dopo due anni di intensi combattimenti, Hamas ha cambiato radicalmente aspetto. Non più in grado di rivendicare un controllo politico sulla Striscia occupata per gran parte dalle forze israeliane, oltre che privato della sua leadership politica e militare, Hamas ha abbandonato la sua vecchia struttura verticale e dirigistica, troppo esposta alle politiche mirate di decapitazione dei propri leader, optando per una de-centralizzazione delle sue strutture operative. I miliziani palestinesi operano ora come nuclei di guerriglia semi-autonomi per meglio contrastare le offensive di terra israeliane, ma tale conformazione, seppur militarmente conveniente, impedisce una rinascita politica del movimento a Gaza.
Quel che resta della classe dirigente di Hamas, in esilio da anni a Doha, difficilmente potrà negoziare un proprio ritorno al potere. L’attacco israeliano dello scorso 9 settembre contro il compound in cui si sarebbe riunita la leadership di Hamas nella capitale qatariota per discutere del cessate il fuoco dimostra infatti come per Israele l’opzione di una permanenza al potere di Hamas per il post-conflitto non possa essere presa in considerazione. Chi e come governerà la Striscia una volta cessate le ostilità? Dal criticatissimo e bizzarro piano della “Riviera Gaza” elaborato da Trump, al governo di tecnocrati esterni, fino alla totale occupazione della Striscia da parte israeliana, sul futuro dell’enclave palestinese continua ad aleggiare un fitto alone di mistero.
Se sulla liberazione degli ostaggi sembra profilarsi uno spiraglio di apertura a seguito della mediazione americana della scorsa settimana, ancora da sciogliere resta il nodo del disarmo di Hamas. Il movimento islamista deporrebbe le armi alla sola condizione di una sua inclusione nell’amministrazione della Striscia, ma tale opzione difficilmente verrà accettata da Israele. Un completo annientamento del gruppo attraverso la forza si è dimostrato altresì difficilmente realizzabile, data la capacità dimostrata di adattarsi a nuovi scenari e di reclutare nuovo personale fra la popolazione disperata di Gaza.
Due anni dopo, un accordo all’orizzonte?
Nelle ultime ore si sono fatte sempre più insistenti le voci in merito a un possibile accordo mediato dagli Stati Uniti che porterebbe la pace a Gaza, proprio in prossimità del secondo anniversario del massacro del 7 ottobre. Il Presidente americano Trump avrebbe infatti presentato un piano dettagliato in venti punti per un cessate il fuoco e scambio di ostaggi fra Israele e Hamas, i cui dettagli saranno oggetto di discussione durante incontri indiretti fra le due parti in Egitto. Secondo quanto emerso finora, le IDF e il movimento islamista avrebbero accettato una preliminare linea di ritiro israeliano da Gaza, che dovrebbe fare da preludio al cessate il fuoco generale e alla graduale consegna degli ostaggi (vivi e morti) ancora nelle mani di Hamas. Lo stesso ufficio politico di Hamas ha confermato la disponibilità alla liberazione degli ostaggi a condizione del ritiro israeliano dalla Striscia, ma i punti più spinosi, quale il futuro politico di Gaza e il disarmo, non sono ancora stati discussi dalle parti.
Il 7 ottobre e la guerra che da questo evento è scaturita hanno rafforzato ed esasperato l’idea che una coesistenza sia impossibile, che la distruzione dell’altro sia l’unica opzione per garantire la sopravvivenza della propria parte. La violenza è divenuta parte della quotidianità, ma non per questo l’opinione pubblica, che sia israeliana, palestinese o straniera, ne è divenuta assuefatta. Lo dimostrano le manifestazioni oceaniche che hanno invaso le arterie di Tel Aviv e Gerusalemme chiedendo a gran voce un immediato cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi; lo dimostrano i coraggiosi palestinesi che si sono opposti al giogo di Hamas, additandolo come corresponsabile delle loro sofferenze; lo dimostrano, infine, i milioni di cittadini che in ogni angolo del mondo sono scesi in piazza per denunciare un massacro a cui stanno assistendo impotenti, confermando che l’umanità non si piega dinnanzi a simili tragedie.
Qualunque sia l’esito delle trattative che si stanno tenendo in questi giorni al Cairo, l’impressione è che non si sia mai stati più lontani dal raggiungere una pace duratura in Palestina che in questo momento storico. Il 7 ottobre è stato forse il momento culminante di un graduale fallimento del compromesso politico fra Israele e Palestina iniziato dopo gli Accordi di Oslo. Le trattative hanno lasciato spazio alla violenza e alla retorica dell’odio e dell’esclusione, che hanno alimentato estremismi. Sia Hamas che il governo Netanyahu sono il prodotto storico di tale idiosincrasia. Affinché in futuro non si verifichi un altro 7 ottobre, la logica del dialogo e della comprensione dovrà prevalere sull’odio etnico-religioso, sulle paure e sulla violenza. Il reciproco riconoscimento e la mutua comprensione dovrebbero spianare la strada a qualsiasi piano di pace in Palestina. Solo così l’umanità e la pace potranno trionfare.
Image Copyright: Ronen Zvulun/Pool Photo via AP









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