di Stefania Chiappetta.
“La vigilia d’Ognissanti han paura tutti quanti” recitava la filastrocca pronunciata dai bambini nell’incipit del film Halloween (John Carpenter, 1978), introducendo un orrore festivo che non ha mai smesso di esercitare attrazione. La pellicola, che portò alla creazione del killer mascherato Michael Meyers, segnò la fine degli anni 70’ contribuendo alla fortuna del sottogenere slasher movie. Andò tratteggiandosi una prolifera rappresentazione di killer, in cui la forte carica psicologica permise un utilizzo seriale delle loro storie, tale da poter essere raccontata a fondo attraverso sequel, prequel, reboot e così via. Fu inoltre un fenomeno pop, in cui la scelta dei costumi per mascherare il volto umano si espanse fino all’audience. Michael Meyers, Freddy Krueger, Jason Voorhees, Pennywise ed ogni altro serial killer del genere horror, finirono per diventare costumi da indossare, maschere in cui calarsi per una notte.
Partendo da questa matrice, utilizzando gli stilemi dello slasher classico ed i suoi protagonisti per produrre uno strano ibrido caratterista, il regista ed effettista Damien Leone crea per la prima volta il suo killer. Art the Clown esordisce in un cortometraggio del 2008 (The 9th Circle), per poi ricomparire nel 2011 portando con sé la comparsa del titolo originale: Terrifier. Quella di Art è però una strana genesi, che guarda all’espansione temporale delle sue gesta cruenti. La base narrativa di Damien Leone poggia infatti su una dualità puramente cinematografica: da un lato l’idea di una raccolta antologica in cui poter racchiudere, come in un archivio, i due cortometraggi precedenti. All Hallow’s Eve esce nel 2013 e vede Art the Clown interpretato da Mike Giannelli, in cui il personaggio viene utilizzato come tratto unitario delle tre diverse storie raccontate.
Dall’altro si sceglie la strada vincente, sfruttando l’inaspettato successo della recezione del pubblico nonostante il film sia un progetto underground di medio budget, il cui primo capitolo venne presentato in anteprima al Telluride Horror Show Film Festival nel 2016. A questo punto la sorgente primaria della storia è una trilogia, il cui terzo capitolo vedrà la luce in anteprima il 31 ottobre, per poi uscire in sala il prossimo 7 novembre. Nonostante l’attrazione riguardi principalmente promesse di scene cruente, malessere corporale e terrore puro di chi lo guarda, tanto da alimentare i nefasti presagi di visione, ad emergere è invece un forte senso di autorialità. Per Damien Leone la sua creatura, che veste i panni di un clown ed uccide la notte di Halloween, non solo ha la capacità di produrre effetti sull’audience, ma anche la forza di reggere una trilogia tutta sua.
Art è in questo senso un caratterista, un mostro che incarna l’essenza del suo costume da clown; conduce ad estrema visibilità il rapporto che intercorre tra orrore e risate grottesche, desiderio sessuale e furia omicida, senza che la forza di una sceneggiatura guidi la sua personalità. Per il resto, gli appartiene poco altro. Quando nel 2016 compare per la prima volta in un film tutto suo, fuoriesce da un vicolo buio e segue due amiche mascherate, Tara e Dawn, uscite da una festa di Halloween. Le ragazze sono ubriache, affamate e non hanno alcuna fretta di rientrare nei loro dormitori, così come non hanno alcuna fretta di raccontarsi.
I personaggi di Damien Leone infatti, non solo sono liberi da volti attoriali in cui spicca il divismo, ma non ricercano alcuna forma empatica con lo spettatore, comparendo e scomparendo sullo schermo a seconda delle loro uccisioni. Mancano di carica attoriale proprio perché mancano di spessore, essendo figure adatte ad esistere solo nel tempo rarefatto del film, umane quanto basta affinché siano riconoscibili. Ogni aspetto che possa dirsi privato, sentimentale, riguardante un passato che faccia chiarezza sugli eventi che vediamo in scena, non sembra poter entrare in sceneggiatura.
Facile sostenere quanto il successo di Terrifier – esploso principalmente con il secondo capitolo uscito nel 2022 – sia alimentato da un’estetica da cortometraggio, inteso soprattutto come forma mediale che ha intrappolato Art sin dalla sua origine, possedendolo nella sua stessa rappresentazione. Seppur debitore di ogni altro killer che ha attraversato lo slasher movie negli anni, Art the Clown non parla, non si racconta. La sua maschera, ora indossata dall’attore David Howard Thornton, funziona in quanto mimo, affidando alla pura gestualità la sua parabola mostruosa, come un divo del cinema muto. Art può mimare ogni gamma di emozioni umane senza che queste gli appartengano davvero: può farsi scattare dei selfie, essere accolto da braccia materne ed assumere posture sempre differenti, risultando inquietante ma al contempo estremamente esilarante. Il suo principale contribuito nel genere è proprio quello di allontanare ogni forma classica appartenete alla sceneggiatura del lungometraggio.
Lo studio teorico nel sottogenere dello slasher, ha da tempo individuato diverse forme narrative che compaiono come elementi scenici. In questo senso lo sono le armi utilizzate per perpetrare orrore, il discorso generazionale che denuncia le inconsistenze della società contemporanea, la pornografia della violenza come spia di problematiche legate al rapporto con il femminile. Sebbene ognuna di queste costanti subentri in forma rimpicciolita nella saga di Terrifier, per Damien Leone è sviando le certezze spettatoriali legate agli elementi teorici la base su cui lavorare per creare engagement nel pubblico. Art non ha un’arma unica, non può essere ucciso o sconfitto, si sa relativamente poco sulla sua creazione sovrannaturale ed il rapporto che instaura con le final girl – le ragazze che gli sopravvivono alla fine dei film – è poco indagato e fumoso.
Eppure l’unica certezza pare riguardare proprio il livello di splatter che intercorre nelle scene violente, nonché la tensione di tono poggiando ora sul divertimento, ora sull’orrore disgustoso e sadico. Simili a stand-alone narrative, le sequenze degli omicidi appaiono come segmenti indipendenti in cui la regia di Damien Leone fa sfoggio dei suoi movimenti di macchina. Poggiando su colori freddi ma mai spenti, come il costume bianco e nero di Art, ogni schizzo di sangue, ogni arto lacerato, ogni tratto sfigurato, sembra sottolineare l’inconsistenza di una storia stratificata ed una recitazione forte e partecipe. La parabola di Art the Clown dimostra con forza che il cortometraggio può sopravvivere alla durata cinematografica, adattarsi ad essa ed esibire ogni sbavatura come punto estetico, in una forma stilistica che sfrutta il passaparola e lo streaming delle piattaforme.
Seppur difficile prevedere quanto la sua storia possa cambiare e crescere, o quanti capitoli ancora si aggiungeranno al franchise Terrifier, ciò che appare certo è la capacità di Art di farsi capire senza parlare, soltanto mimando visivamente usando la crudeltà delle immagini. Capacità questa che pare riecheggiare una forza insita proprio nel genere horror, forse più che in molti altri.
Image Copyright: Wired
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