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The Last of Us: parte II.

  • Writer: Koinè Journal
    Koinè Journal
  • Jun 5
  • 4 min read


di Stefania Chiappetta.


Concedete ad Ellie la possibilità di essere un adolescente come tante, come tutte. Lasciate che possa farsi un tatuaggio, dormire nel garage di casa (non di proprietà, quella assegnata), strimpellare alla chitarra per far colpo su Dina, esplorare la sua identità di genere. Sebbene i puristi del franchise videoludico, sviluppato da Naughty Dog nel 2013, potrebbero osservare che questa possibilità viene meno se l'essere umano è cancellato da un'epidemia, l'andamento discendente della seconda stagione di The Last of Us riguarda proprio l'appello introduttivo. 


Il passaggio da un ascolto fidelizzato e consensuale, che aveva riguardato la prima stagione conclusa nel marzo 2023, cede il posto ad un nuovo finale (dal titolo Convergenza) narrativamente debole nonostante la firma del suo showrunner, Craig Mazin. Concentrato in un cliffangher con ben poco impatto emotivo\visivo, soprattutto per quella fetta di pubblico che proviene dalla matrice del gioco: che già sa tutto, come non si smette di puntualizzare. Che l'onniscienza spettatoriale possa essere un problema per un prodotto mediale è assodato: quasi come sottolineare che una serie televisiva, con produzione HBO, è ben diversa da un videogioco. Non lo chiameremmo adattamento, altrimenti.


Nel nostro caso la diversità non riguarda solo il passaggio dall'animazione al live action, in cui si abbandona una precisa intermedialità visiva, quanto il cambio di ruolo da giocatore a spettatore. Nel primo, l'attivismo del videogioco anche se circoscritto da regole prestabilite genera una responsabilità diretta, un trasporto cognitivo che si estende nella realtà virtuale dei personaggi. Il giocatore li investe della propria carica etica, ne diventa per così dire responsabile: è l'azione corporale di controllo che lo permette. 


L'attività di uno spettatore invece appartiene alla dimensione dello sguardo, incoraggiando una distanza critica e riflessiva. Non si agisce direttamente sul corpo del personaggio, ma se ne osservano le scelte, la crescita personale, senza abbandonare il trasporto empatico. A mutare nei due approcci è l'intero rapporto che il fruitore instaura con la storia, con i personaggi, con l'ambiente circostante. Questo favorisce la necessità di apportare una decostruzione in cui esplorare luci e ombre dei protagonisti, evidenziare simbologie, ingigantire situazioni per armonizzare dettagli visivi. 


In sintesi decostruire non è snaturare, tutto il contrario. Per questo una delle decostruzioni che la serie adotta, è quella di frammentare la narrazione episodica per inserire digressioni, slittamenti temporali. Nella prima stagione infatti, ad unanimità spettatoriale, una delle puntate più riuscite era la terza dal titolo Molto, molto tempo. Curioso che questa non fosse presente nel gioco. Nella puntata il cammino di Joel e Ellie retrocede mentre si approfondisce la storyline di due personaggi secondari, Bill e Frank, mostrando ciò che resta della sopravvivenza umana. Però la prima stagione era molto più "semplice", alimentata dal rapporto speculare padre\figlia.


Mentre nella seconda stagione di The Last of Us i cambiamenti da apportare erano innumerevoli, emotivamente difficili se paragonati al modus operandi della serialità contemporanea, in cui la complessità televisiva ha ceduto il posto alle formule streaming delle piattaforme. Uno degli scogli primari riguardava proprio la seconda puntata (Throught the Valley) che, portando alla sottrazione di un personaggio come Joel (Pedro Pascal), doveva sorreggere l'introduzione di Abby interpretata dall'attrice Kaitlyn Dever. 


Dire addio ad un personaggio non è mai semplice, soprattutto se questo avviene all'improvviso, ad inizio stagione, quando l'audience sta ricominciando a partecipare al mondo diegetico. La serie ha il pregio di riuscirci con coraggiosa freddezza, senza abbellimenti registici, prendendo il videogioco come riferimento primario. I pregi e i limiti della serie, a parere di chi scrive, stanno tutti qui. La vicinanza alla narrazione videoludica, necessaria e virtuosa nella prima stagione, nel corso delle puntate della seconda soffoca il cambiamento nei personaggi, mancando di inserire un punto di vista seriale sugli avvenimenti.


Si ritorna ciclicamente al punto di partenza: la crescita di Ellie, il temibile coming of age che ha generato le critiche più aspre e ricondotto alla fisicità dell'attrice Bella Ramsey. Non è stato sufficientemente notato però come la scomparsa di Joel, e la conseguente vendetta che muove la ragazza verso Seattle, ponevano l'attenzione a quello che in una storia viene definito come "il viaggio dell'Eroina". Un percorso interiore, teorizzato da Maureen Murdock, psicoterapeuta junghiana, nel suo libro omonimo. Le formulazioni dell'autrice nascono in risposta al libro di Joseph Campell, L'eroe dai mille volti, il quale prendeva in considerazione solo la crescita dell'eroe maschile. Il modello della Murdock, che negli anni è servito come analisi di tante protagoniste, circoscrive esaustivamente l'arco narrativo di Ellie. Ne sorregge l'intero viaggio che compie da Jackson a Seattle, portando ad una riscoperta del personaggio: non più da figlia ma da protagonista.


Una delle tappe fondamentali che conduce alla riscoperta ha origine da una frattura (basti fare riferimento alla puntata pilota, Future Days), chiamata "il tradimento del padre". Non c'è bisogno di ricordare quell'okay secco, pronunciato da Ellie sul finale della prima stagione, quando il suo sacrificio per l'umanità viene annullato dall'egoismo paterno di Joel. Allora Ellie non era a conoscenza della verità - al contrario dei fruitori - eppure se ne intravedevano all'orizzonte le conseguenze. La colpevolezza maggiore della serie è proprio quella di aver ostacolato le tappe della protagonista, relegandole alla sfera privata ed emotiva, mancando di introdurre in modo solido il suo doppio - Abby - e prepararla così alla terza stagione. 


Narrativamente Abby è un nuovo modello di trasformazione per la protagonista, che guida alla convergenza delle loro linee narrative. Non vederla figurativamente su schermo può funzionare in un videogioco, non in una serie tv. Non se il corpo femminile in The Last of Us viene mostrato simbolicamente come luogo del sacrificio, dell'amore che si trasforma in vendetta, perché ostacolato da un immaginario post-apocalittico in cui la temporalità si dilata in un eterno presente. Anche il sentimento queer tra Ellie e Dina ne è prova: un nuovo ordine sociale da ristabilire, un atto politico, con buona pace di chi sostiene il contrario.



Riferimenti:


- Maureen Murdock, Il viaggio dell'Eroina, Dino Audino Editore, Roma, 2010.

- Joseph Campbell, L'eroe dai mille volti, Guanda, Parma, 2000.





Image Copyright: Style Magazine.

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