Il Cinema Ritrovato: XXXIX Edizione
- Koinè Journal
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di Stefania Chiappetta.
Sul manifesto ufficiale del festival Il Cinema Ritrovato, la cui trentanovesima edizione si è svolta dal 21 al 29 giugno grazie al lavoro della Cineteca di Bologna, lo sguardo fisso di Katharine Hepburn e Cary Grant, coppia iconica del cinema americano classico, sembra guardare a qualcosa di distante. La prima accigliata, dura e irriverente, il secondo con una finta aria seriosa che si addice agli abiti di stampo teatrale che indossano. A ben guardare però, l’immagine decontestualizzata dal film da cui è tratta, sembra collocare lo sguardo dei due proprio accanto a chi li osserva nel tempo presente. Che stiano forse guardando un oggetto in grado di trascendere la temporalità e dialogare in modo coerente, attivo, con sconosciute e sconosciuti provenienti da un’altra epoca?
Una sensazione che appare curiosa, soprattutto se si pensa che il frame scelto è tratto dal film Sylvia Scarlett di George Cukor, uscito nel 1935 e accolto alla sua premiere in modo disastroso. Il film è una commedia fluida in cui Katharine Hepburn si finge uomo per coprire suo padre, si taglia i capelli lunghissimi, indossa pantaloni larghi e giacche con il colletto rialzato, si arrampica dalle finestre e bacia uomini e donne attraversando i due generi in modo naturale, senza nessuna barriera rappresentativa. Katharine Hepburn nel doppio ruolo di Sylvia/Sylvester recita con una naturalezza identitaria che neppure i grandi film di genere contemporanei riescono ad avere, come sottolineato da Molly Haskell, critica cinematografica Americana, curatrice della sezione sull’attrice.
La sensazione per chi partecipa al festival (che quest’anno, come confermano le somme finali, è di circa 5.000 accreditati provenienti da 57 nazionalità differenti) è quindi sempre la stessa, si ripete come per magia tutti gli anni eppure sembra essere quello sguardo sul manifesto a renderla ancora più concreta. Riconoscibile, fluida come come l’attrice di cui si mostrano i film. Infatti se tanti sono i festival di cinema che ogni anno registrano numeri esorbitanti, raccolgono consensi e diventano specchio di discorsi che inseguono solo il glamour, pochissimi sono quelli che creano la loro ragion d’essere intorno alle immagini.
In una società in cui diminuisce la vitalità della sala cinematografica, a favore di schermi sempre più piccoli in cui i titoli possono essere scaricati, interrotti, abbandonati, ritrovarsi in una coda di 300 persone per vedere un film muto del 1929 fresco di restauro, è una grande forma di resistenza. Un’idea che richiama alla mente quell’onda di militanza cinefila degli anni 60 e 70’, forse un po’ elitaria per i gusti contemporanei che si formano sulle piattaforme di streaming, ma sicuramente impattante. Impegnata nella riappropriazione di spazi in cui sentirsi nuovamente una comunità viva, brulicante di idee, portatrice di discorsi animosi sui film appena visti, molti dei quali sconosciuti.
Si legge sul catalogo 2025 del festival, un librone di cinquecento pagine che raccoglie tutti i 454 titoli in programma: “La parola “comunità” è stata in questi ultimi anni, come quasi tutte le parole importati, svuotata del suo senso arcaico e sacro, per diventare un mostro in mano di mostri. Eppure non troviamo un’altra parola per definirci.” È chiaro che a sorreggere un sentimento di questo tipo, una mobilità così grande da portare alle code per garantirsi un posto in sala, o alle corse per raggiungere uno degli otto schermi sparsi per la città di Bologna, è il riconoscimento con l’altro. Non importa quanto strani si possa sembrare agli esterni che lanciano occhiate confuse ai passanti che corrono sotto il sole cocente, il pensiero di sentirsi accolti da spettatori che per dieci giorni vivono solo di proiezioni è un conforto sociale che genera appartenenza.
D’altronde la nostra è certamente una società profondamente legata alle immagini, le quali agiscono su molti livelli di senso, tuttavia la loro quotidiana esposizione le riduce ad una baraonda che ci travolge per inerzia. Le foto di Instagram, i video di TikTok, i trend generati con l’intelligenza artificiale in cui trasformarsi in un personaggio dello studio ghibli. Questo rende troppo spesso immuni alle immagini esplicite di dolore, di guerra, di cronaca nera: a volte abbiamo la sensazione di aver già visto tutto l’orrore possibile. Perché non sempre le immagini che si assorbono ogni giorno hanno un significato profondo o analitico, il che richiama probabilmente uno dei problemi cardine associati al saper guardare oggi un film.
Riconoscersi nelle immagini quotidiane non sempre è possibile quindi, certo non come lo era per un pubblico del 1935 che vedeva Katharine Hepburn (l’attrice con il maggior numero di premi Oscar vinti, ma che non ne ritirò nemmeno uno) fare acrobazie vestita da uomo. Quello che contraddistingue il lavoro del festival della Cineteca di Bologna dunque, rispetto a tanti altri molto più conosciuti, è portare ad evidenza questo bisogno comunitario legato alle immagini cinematografiche. Il lavoro annuale di ricerca, analisi del materiale, restauro dei negativi originali (spesso provenienti da copie di pellicole rovinate, graffiate, mancante di parti, considerate a lungo smarrite) è una riscoperta che focalizza l’attenzione sul cinema in quanto patrimonio culturale, che troppo spesso tende ad essere minimizzato, se non addirittura dimenticato.
Per riuscirci si parte da una riappropriazione dei luoghi cardine associati alla visione di un film, legandole però allo spazio del contesto cittadino. Lo schermo di piazza maggiore, uno dei più grandi all’aperto d’Europa composto da una programmazione di circa due mesi, è un simbolo di quanto detto sopra. Grande circa 20 metri, montato accanto alla basilica di San Petronio senza oscurarne però la visione, proietta ogni sera al calar del sole un film il cui sonoro si unisce ai rumori in sottofondo della città. Intorno tutto si muove come sempre, ma molto spesso per le proiezioni più attese un grandissimo numero di persone si siedono una accanto all’altra, anche sui gradini della chiesa se necessario, per godersi un film restaurato, il più delle volte già visto.
È quello che è accaduto in questa edizione per il restauro di Qualcuno volò sul nido del Cuculo (1975) di Miloš Forman, restaurato in 4K per il suo cinquantesimo anniversario, rendendo la piazza uno spazio letteralmente invaso da persone di tutti i tipi: turisti, accreditati, passanti, lavoratrici e lavoratori delle attività aperte intorno. Le foto della serata il giorno dopo sono rimbalzate su tutte le pagine social che si occupano di cinema: la folla, catturata nell’atto immersivo di guardare un film, era quanto di più consolatorio si potesse postare.
Al cinema ritrovato il momento di visione non è più solo soggettivo ma diventa un rituale collettivo, totalizzante, immerso in uno spazio sociale che ti connette con l’altro in modo quasi intimo, senza nemmeno il bisogno di conversare. Anche gli incontri con le registe e i registi che annualmente tengono masterclass, lezioni di cinema, viene spogliato della sua aura di composta eleganza. Abbandonati i tappeti rossi, i lustrini, le paillettes, i completi eleganti, l’attenzione è rivolta esclusivamente al discorso sul proprio cinema, sui film del cuore che hanno formato lo stile autoriale: ancora una volta in nome di quello spazio intimo di riappropriazione culturale.
Terry Gilliam, uno degli ospiti di questa edizione che ha presentato il nuovo restauro del suo film Brazil (1985), entrato in sala prima della sua masterclass ha iniziato a suonare il piano per gli ancora pochi presenti in sala, divertendosi come uno degli spettatori seduti. Non c’è alcuna distanza sociale, solo una vicinanza cinefila. Lo stesso nome scelto per il festival, il Cinema Ritrovato, è sentinella di questo sentimento: ritrovarsi per non perdere di vista quello che si è stati in passato, per capire meglio il futuro (poco consolatorio) che ci attende, non solo come spettatori ma soprattutto come collettività sociale.
In conclusione ritorniamo a quello sguardo congelato di Katharine Hepburn e Cary Grant, stampato sui poster, sulle shopper del festival, sul catalogo, per riacquistare una vitalità nuova, mobile, contemporanea. Forse quell’oggetto citato all’inizio, così lontano eppure incredibilmente vicino, capace di unire insieme temporalità diverse, non può essere altro che una sala cinematografica.
Riferimenti:
Il Cinema Ritrovato XXXIX edizione, Cineteca di Bologna, Bologna, 2025.
Image Copyright: Il Cinema Ritrovato, Cineteca di Bologna
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