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Writer's pictureKoinè Journal

Razzismo: continuità e discontinuità tra ieri e oggi

Updated: Oct 6, 2021


di Alessia di Lorenzo.


Razzismo” è una parola che ritorna purtroppo in maniera frequente nelle news dei nostri giorni. Sembra infatti che questo fenomeno, atteggiamento o modo di pensare non abbia mai abbandonato le abitudini e le attitudini di tanti, radicato com’è nell’immaginario comune; ma in che forma si ripresenta? La codifica delle peculiarità del razzismo contemporaneo consiste difatti in un arduo lavoro di analisi, necessario per considerarlo non come un semplice retaggio del passato -in cui ritorna la perpetrazione di odio, esclusione e violenza- bensì come un nuovo fenomeno che merita di essere ripensato. Una riflessione su quanto sta accadendo oggi permette quindi di non cadere nella tentazione di massificare la distanza tra il passato ed il presente, e ci consiglia di adottare coscientemente un’osservazione che collochi il razzismo nelle sue coordinate storiche e culturali.

E’importante fare luce sugli aspetti di continuità e discontinuità tra il topos del razzismo degli anni Trenta e il razzismo contemporaneo, in un breve percorso che traccia le matrici intellettuali generative del primo e le sue distanze o affinità dal secondo.


Il razzismo negli anni dei totalitarismi

Il razzismo dei totalitarismi in Europa prende piede da una speculazione intellettuale circa l’origine del genere umano risalente al XIX secolo, che considera l’umanità distinta in differenti gruppi. Il termine razza per come lo si intende attualmente, nasce in questo contesto ed indica un gruppo le cui specificità somatiche, intellettuali e comportamentali sono considerate trasmissibili per via ereditaria e biologica. Un importante contributo all’idea che le differenze culturali siano naturali e biologiche, viene teorizzata nel Saggio sulla diseguaglianza delle razze umane (1856) del Conte De Gobineau. Reazionario e conservatore, l’intellettuale francese elaborò una divisione delle razze umane su una rigida scala gerarchica all’apice della quale vi è quella ariana. De Gobineau tuona contro l’orrore della mescolanza: l’imperialismo ed il colonialismo europeo hanno profondamente macchiato la purezza della razza ariana e la sua contemporaneità gli appare sul punto di non ritorno. A questo filone di pensiero di tipo reazionario e tradizionale, si aggiunge l’appassionato interesse da parte delle scienze naturali ad indagare scientificamente su ogni aspetto della vita umana. Questa tendenza positivistica dell’Ottocento e le teorie evoluzioniste di Darwin preparano un terreno propizio alla discriminazione tra razze umane su basi biologiche: sostenendo la monogenesi della natura umana, gli individui si differenzierebbero per la loro capacità di adattamento all’ambiente. Una simile posizione rende legittima l’impresa del colonialismo europeo e la nascita di progetti di ingegneria biologica in Europa e negli Stati Uniti che si realizzano nell’elaborazione della teoria eugenetica di Francis Galton. Il nazismo, emergendo in un contesto in cui il nazionalismo si presenta sempre di più in vesti razziste, amalgama queste differenti spinte, coniugando il razzismo scientifico alla tendenza antimodernista proposta da De Gobineau. Nonostante sia stato considerato la parentesi più oscura della storia dell’umanità, le matrici intellettuali che hanno portato all’elaborazione di questa teoria genocida sono riscontrabili nell’Ottocento, in un clima imbevuto dalla cultura positivista, di piena fiducia nel progresso e nelle scienze naturali.

Essere razzisti nella Germania di Hitler degli anni Trenta e dell’Italia fascista di Mussolini, significava dunque sostenere una differenza prettamente biologica, la cui “soluzione finale” sembra realizzarsi unicamente nella Shoah e nell’eliminazione delle minoranze, seguendo un’intenzione volta ad intervenire artificialmente sulla purificazione del genere umano. La problematicità di questo fenomeno sta proprio nel porre al vaglio critico e scientifico la diversità, per cui chi è segnato da quella macchia di pregiudizio, non potrà mai liberarsi dallo stigma sociale di esser visto come difetto di natura. Qui il discrimine: se prima la conversione offriva un margine risolutivo alla natura di ebreo, la legittimità di una superiorità biologica di alcune razze rispetto ad altre rende irreversibile la condizione in cui si trovano le minoranze ed il diverso.


Una riflessione sul razzismo contemporaneo

Se dunque il fenomeno razzista degli anni Trenta pare improntato ad una differenza prettamente biologica, possiamo provare a misurare la distanza che lo separa dai discorsi di chi oggi sostiene che un gruppo etnico (il proprio, di solito) sia superiore rispetto ad un altro. Su che basi, allora, quelli che vengono chiamati movimenti neorazzisti rivendicano la superiorità del loro gruppo rispetto ad un altro? E soprattutto, chi è quel gruppo che diventa oggetto di bersaglio?

Nella seconda metà del Novecento viene elaborata una nuova categoria: quella di Identità culturale. In seguito alla Seconda Guerra mondiale, l’identità diventa il tema fondamentale su cui riflettono quegli studiosi che hanno a cuore lo studio critico della diversità. Nasce così quello che viene chiamato relativismo etico, un pensiero elaborato dalla scuola americana di Franz Boas, secondo cui ogni identità culturale deve essere preservata e rispettata nella sua integrità, in modo da favorire una maggiore tolleranza rispetto al diverso. Sostenendo, però, che le identità culturali siano differenti e separate si tende a considerarle cristallizzate in quello che viene definito “presente etnografico”, cioè incasellate in dei compartimenti stagni, omettendo e trascurando di considerare quei cambiamenti definiti dai fenomeni storico-culturali. Avviene, per questo, un processo che porta il nome di essenzializzazione culturale, in cui le culture sono considerate pressoché essenze fuori dalla storia e dal tempo, eterne. Questo discorso sulla relatività delle differenze tra gruppi umani è stato ripreso da molti studiosi importanti come Lévi-Strauss, il quale addirittura sosteneva una necessaria “sordità” tra le diverse culture, in modo da preservare quelle singolarità etniche e culturali di un singolo gruppo, che sembrano essere minacciate da un mondo globalizzato ed in costante movimento. Nascono così negli anni ’80 i cosiddetti “movimenti identitari”, ossia dei movimenti xenofobi che inseriscono il tema dell’identità culturale in un discorso volto al supporto ideologico dei nazionalismi e dei neorazzismi culturali, la cui critica è invece diretta ai flussi migratori e alla globalizzazione. Il concetto di identità culturale cambia così di segno, diventando il discrimine tra i differenti gruppi umani: chi porta avanti un discorso sulla diversità e l’esclusione oggi non farebbe più riferimento ad una differenza biologica tra gruppi umani, ma ad una incomunicabilità, necessaria o data, tra diverse culture. Ne emerge un atteggiamento etnocentrico, in cui chi parla sostiene la superiorità della propria identità culturale, considerando le altre come inferiori e sbagliate. Il razzismo differenzialista contemporaneo sembra allora saccheggiare il discorso antirazzista accettando il principio del relativismo culturale e rendendo difficile il proprio riconoscimento. Come sostiene Annamaria Fantauzzi:

«il neorazzismo ha una natura simbolica, sottile, indiretta, intelligente, sostiene gli stessi principi dell’antirazzismo per eludere i tradizionali filtri di riconoscimento, creando il concetto di neorazzismo soft, calcolato e mescolato» (Fantauzzi, 2014).

Il paradosso di un mondo globalizzato e interconnesso, in cui i fenomeni transnazionali come quelli migratori sfuggono alla pervasività del controllo statale, consiste proprio nell’affiorare di discorsi sull’incomunicabilità tra differenti culture, considerate stabili ed immutabili. Emerge una fobia nei confronti della mescolanza ed una tendenza nel separare concettualmente gli Altri -sbagliati, pericolosi, criminali- e Noi -giusti, buoni e conformi alla legge-. Questa retorica pregna di disprezzo ritorna nella comunicazione mediatica ed è particolarmente incentivata da politiche marginalizzanti e discriminatorie promosse proprio dalle figure istituzionali. Il bersaglio comune negli Stati Occidentali del XXI secolo sembrano essere dunque i migranti, persone provenienti da ambienti extraeuropei che, spesso, attraversando il Mediterraneo, sono costretti ad intraprendere un viaggio mortale per sognare e sperare in un futuro migliore. Emergono, nel discorso politico, categorie ed etichette come “clandestino” che diventano veri e propri status sociali e vengono risemantizzati in modo da essere strumentali alle posizioni di esclusione e marginalizzazione poste dagli Stati: il clandestino è chi non possiede i documenti necessari per poter fare ingresso in un Paese e che viene, insensatamente, tacciato di criminosità. La gestione dei flussi migratori da parte degli Stati Occidentali apre inoltre un nuovo dibattito: il discorso razzista sembra più essere rivolto nei confronti del povero, prescindendo in realtà dall’etnia di provenienza. L’atteggiamento di avversione e di odio è di frequente riservato a quei “migranti economici”, la cui colpa è quella di invadere di miseria l’Europa e gli Stati Uniti. Il riconoscimento di un “nemico comune”, spesso il povero migrante, diventa così un collante ideologico e politico che esaspera i nazionalismi e fomenta la posizione di alcuni sovranismi.

Pietro Basso scrive: «un revival del razzismo in corso è il razzismo istituzionale, e i suoi primi protagonisti sono proprio gli stati, i governi, i parlamenti: con le loro legislazioni speciali e i loro discorsi pubblici contro gli immigrati, le loro prassi amministrative arbitrarie, la selezione razziale tra nazionalità “buone” e nazionalità pericolose, le ossessive operazioni di polizia e i campi di internamento» (Fantauzzi 2014)


Passato e presente

Il discorso razzista dei nostri giorni sembra comunque avere una familiarità con quello dei Totalitarismi: emerge sia ieri che oggi come un intelligente strumento politico che, ricorrendo alla dicotomia Noi/Loro, funge da collante ideologico. I nazionalismi sembrano rafforzarsi da questa presa di distanza nei confronti del diverso che viene incatenato a dei pregiudizi sociali e posto in delle categorie prefissate. Ritornano le violenze nei confronti delle minoranze che continuano ad essere perpetrate in quello che Nancy-Scheper-Hughes chiama continuum genocida (Scheper-Hughes 2002:290) cioè il filo rosso che lega lo sterminio di massa alle vessazioni quotidiane e latenti praticate nei luoghi pubblici -come scuole ed ospedali- che tendono a ridurre gli altri a delle “non persone”. Nonostante questi caratteri comuni, le discontinuità tra queste forme distinte di razzismo sono riscontrabili su differenti punti di vista. Sicuramente l’aspetto più evidente che li distanzia consiste nel discrimine individuato tra i gruppi umani: se il razzismo biologico fa capo al concetto genetico ed ereditario di razza, il razzismo differenzialista si serve del concetto reificato di identità culturale, in cui il principio del relativismo culturale viene inglobato dal discorso neorazzista per far emergere una separazione netta e invalicabile tra le culture immutabili dei molteplici gruppi umani. La tendenza del neorazzismo a nascondersi dietro discorsi mirati ad una maggiore sensibilità nei confronti del diverso, si manifesta in formule spesso ricorrenti come l’ormai ridondante “non sono razzista ma”, mentre negli anni Trenta sono principalmente le istituzioni a rivendicare il razzismo biologico, come recita il Manifesto della Razza del 1938[1]:

“E’ tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti”.

Una riflessione su quanto accade tenta di dare luce su come di frequente, in un mondo frenetico e globalizzato, si tenda ad omologare determinati fenomeni anteponendoli alla storia e al loro contesto culturale. Il revival del razzismo oggi apre una crepa su come le nostre coscienze non abbiano imparato nulla o quasi dal passato; l’incontro con la diversità viene sempre meno visto come occasione di arricchimento, ma sempre più come pretesto per perpetrare odio e violenza. Alcuni studiosi del fenomeno neorazzista sostengono che sia necessario ripensare al termine identità, intendendolo come concetto aperto ed in costante mutamento, e al sostituire il termine “identità” al concetto di “noi”, in modo da sottolineare il coinvolgimento con gli altri. Seppur un’importante questione, un altro grande problema che emerge consiste nella parziale e inesatta coscienza storica e culturale di ognuno e al modo in cui l’umanità ha fatto i conti con la memoria dell’Olocausto. In un mondo in cui la fiducia nella scienza ed il progresso viene propugnata a gran voce, lo studio delle scienze umane sembra ritornare come una valida soluzione che permette di ripensare a questi “crimini di pace”, in modo che simili violenze possano essere riconosciute e difficilmente manifestabili.



Bibliografia

-Dei, F. (2016), Antropologia culturale, Bologna, il Mulino.

-De Gobineau, J.A. (1856), Saggio sulla diseguaglianza delle razze umane.

-Fantauzzi, A. (2014), Razzismo biologico, razzismo differenzialista. Dalle teorie alle testimonianze dei migranti in Italia, Sviluppo della persona ed esercizio dei diritti umani (pp.149), Roma, Aracne editrice.

-Manifesto della razza, 14 luglio 1938, Roma, Giornale d’Italia.

-Scheper-Hughes, N. (2002), Violence in war and Peace. An Anthology, Oxford, Blackwell.

[1]Manifesto della razza, art.7, comma 1, 14 luglio 1938, Il Giornale d’Italia

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