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  • Writer's pictureKoinè Journal

Ritualità cosmica. L'uomo e il culto della paura


di Andrea Pipponzi.


Dies Natalis Solis Invicti. Chiunque digiti tale locuzione su un qualsivoglia motore di ricerca potrà aver accesso a decine di migliaia di risultati, fatti di storie, strampalati dialoghi interreligiosi ed acritiche – forse sarebbe meglio definirle «prevenute» – considerazioni. La rete straripa di scritti attorno la festività romana del Sol Invictus – generalmente presentata a braccetto con i Saturnalia – quale prodromo del Natale, se non anche di suo progenitore ‘ignobilmente’ cristianizzato. E poi riferimenti a Mitra, a divinità partorite in una grotta o concepite da una vergine, a svariati abitanti del cielo la cui nascita possa essere in qualche modo collocata al 25. La questione è sovente tornare in auge proprio nel mese di dicembre. Da un lato due miliardi di persone si preparano a celebrare con religioso assenso la Natività; dall’altro la squadra degli atei, prevenuti ed arcigni, sente di dover rispettare una scadenza calendariale a cui risponder «presente!», pronta a sfogare tutto il proprio sentimento di contrasto. E così via libera alle tante nefandezze di cui sopra!    Ben inteso, non che non ci sia del vero nell’acquisizione e nella riscrittura dell’apparato festivo pagano, socialmente ed antropologicamente necessarie al neo-istituzionalizzato Cristianesimo del IV-V secolo, ma se ci si aspetta l’ennesimo lavoro sulle origini pagane del Natale e sulle sovrastrutture costruitevi attorno nell’ultimo millennio e mezzo, queste non saranno righe capaci di stuzzicare l’interesse.


Eppure, proprio il Natale è risultato l’esempio zero che ha innescato alcune delle considerazioni rinvenibili nelle pagine a seguire. Il Dies Natalis Solis Invicti celebrava, nel pantheon romano, la rinascita del Sole. Lo evidenzia la collocazione calendariale della festa (25 dicembre), perfettamente sovrapponibile all’odierno solstizio d’inverno (21 dicembre) per lo scarto di giorni che intercorre tra il loro ed il nostro computo annuale. Il Sole rinasce, le giornate si allungano, la bella stagione si avvicina. E così l’inverno inizia ad incutere meno timore.    


La celebrazione del Sol Invictus è programma di speranza e buon augurio. Seppur in termini ribaltati – in questo caso siamo all’inizio della buia stagione –, la stessa funzione svolgeva nel mondo celtico il Semhain, l’odierno Halloween. Discutendo del suo più profondo significato antropologico, in un precedente lavoro si era sottolineato quanto l’epistemologia del «caos rifondatore» avanzata da Georges Dumézil – lì declinata in un’ottica prettamente rituale, cioè quella dell’«orgia apotropaica» – sia insita in molteplici festività e tradizioni ancestrali di tutto il mondo, di cui Halloween ne rappresenta forse il caso più famoso. Di certo non l’unico. Sorprende in tal senso scoprire quanto il rituale orgiastico, livellatore del caos, accomuni tra loro culture esenti da contatti fisici e rapporti umani, sottolineando ancor di più l’universale, spasmodica volontà di vincere la paura dell’ignoto. L’indagine mossa da

Halloween quale case of study merita allora una visione di più ampio respiro.                       


Poniamo anzitutto l’accento sulla parola «paura». L’uomo ha in sé l’innata necessità di esorcizzarla, come suggerisce, appunto, la multitudo di rituali dagli intenti apotropaici, capaci di spaziare per le loro analogie dall’America nativa all’India, dal mondo celtico agli Inuit, dalle culture meso-americane a quelle semitiche. E questi riti, se collocati in un calendario ideale condiviso dalle società umane, ci forniscono ulteriori input. Ad esempio la stretta connessione che essi abbiano con il mondo naturale ed i cicli cosmogonici, ma anche, e soprattutto, la loro fitta collocazione nella stagione autunnale-invernale. Con una suggestiva proposta, ponendo la lente di ingrandimento sui periodi dell’anno più avversi alla sopravvivenza umana, Duccio Balestracci ha evidenziato come tale visione ‘naturalistica’ possa decostruire la quadri-partizione stagionale, originandone, al contrario, una marcatamente bicefala: «stagione calda» (estate e, seppur solo in parte, primavera) e «stagione fredda» (autunno e inverno). (Balestracci 2023) Quest’ultima, foriera di oscurità ed ignoto, di caducità e durezza della vita, è la culla del culto della paura.        


Eduardo Kohn, riflettendo sul rapporto tra uomo e natura, osservava che l’essere umano dovesse mettere in atto una continua pratica di «diplomazia cosmica con il mondo spirituale», dovendo chiedere, attraverso il rito, il permesso di usare le risorse che la terra stessa gli offrisse. (Kohn 2021) In altri termini, Kohn proponeva una visione dichiaratamente non antropocentrica, una «decolonizzazione del pensiero» (Viveiros de Castro 2017), in cui il figlio di Adamo diveniva – o meglio, lo era sempre stato – un componente della natura, e non il suo padrone. Tale rapporto di devota sottomissione sarebbe intuibile proprio grazie alle strutture rituali. Frazer, ad esempio, proponeva una perfetta coincidenza fra le festività delle società umane ed i culti legati alla vegetazione. (Frazer 2006) Una visione forse troppo radicale, ma pur sempre inseribile all’interno di uno schema basato sulla stagionalità (Baroja 1989) – che credo possa invece meglio spiegare il rapporto rito-cosmo – da cui la stessa attività agricola non può che essere dopotutto dipendente.   


Il tempo, nella sua linearità e finitudine, rappresenta l’eterno ed invincibile nemico dell’uomo, il quale tenta di far fronte alle sue paure provando a dominarlo. Questo atto coercitivo prende materia secondo svariate strategie: dall’oggettivazione del tempo scandito dai nostri orologi alla programmazione – per quanto incerta – del futuro, dalla divisione calendariale all’apparato festoso-rituale. Ma il tempo del rito, della festa, poco ha a che vedere con la dimensione lineare. Il dies festus è infatti metafora figurativa di un giorno che torna e che si rinnova, capace di annullare il passato in funzione di una renovatio futura. (Cardini 2016) Fasi cosmogoniche, fasi lunari, festività agrarie e/o astrali ad esse riconducibili… Ognuna di esse rievoca l’inizio del mondo. Nelle società primitive, ad esempio, ogni raccolto veniva vissuto come una sorta di Capodanno, da solennizzare con riti di purificazione che mettessero in scena l’«eterno ritorno» della vita. (Balestracci 2023)         


L’elemento fondamentale delle fasi cruciali della ricostruzione cosmologica è quindi costituito dalla ripetizione di gesti ed usi rituali, posti in essere in un passato remoto e, di regola, miticamente astorico. Il rito è, dunque, ciò che ricostruisce l’ordine e domestica il caos, con cui dèi e uomini si avvicinano. (Otto 1966) Ma il rito è anche ciò che dà senso alla sacralizzazione del ciclo stagionale.Questa stretta connessione cosmogonica è sottesa a tutte le cerimonie – di guarigione, di fecondità, di lavori agricoli – e costituisce la restaurazione della creazione in momenti ben precisi del calendario. Per limitarci all’esempio del Cristianesimo, non si può non constatare che l’anno liturgico si dipani attraverso una cristologica ripetizione di fatti. La Natività, la Passione, la Morte, la Resurrezione… Tutti momenti cuciti perfettamente con la ciclicità della natura e del cosmo.          


La paura accompagna l’uomo, per alcuni studiosi fin tanto da essere uno dei motori della Storia. Per farle fronte, nel corso dei millenni abbiamo elaborato rappresentazioni mentali che dessero senso al nostro rapporto con tutto ciò che ci circondi, timorosi che il mondo potesse inavvertitamente tradire un tacito patto di non belligeranza, rischio tanto più materializzabile, quanto più difficile sia la «stagione fredda». E in questo processo l’elemento naturalistico è, ancora una volta, centrale. Le temperature divengono più rigide, la vita si fa più dura e, su tutto, non può che angosciare l’indeterminabile destino del raccolto e la sopravvivenza del mondo selvaggio, in quanto da essi dipenda la sussistenza dell’intera comunità. Il freddo depaupera l’esistenza e mette a nudo le più profonde fragilità; obbliga il Sapiens a svestire i panni di padrone della natura e a negoziare con lei nel disperato tentativo di farsela amica, poiché essa è per definizione imprevedibile. Il figlio di Adamo sa che con la «stagione calda» il sole tornerà a splendere, perché questo è il corso delle cose. Eppure l’oscuro inverno continua a spaventare, necessitando della più alta intercessione divina. Festività e riti costituiscono quindi il medium, l’unica risposta capace di esorcizzare l’antropologico timore dell’ignoto, affinché si possa ‘nietzchanamente’ accettare ed attendere l’Eterno ritorno della natura.







BIBLIOGRAFIA

-Otto R. (1966), Il Sacro. L’irrazionale nella idea del divino e la sua relazione razionale, Milano: Feltrinelli

-Baroja J. C. (1989), Il Carnevale, Genova: il melangolo    

-Dumézil G. (2001), La religione romana arcaica, Milano: Rizzoli

-Frazer J. G. (2006), Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione, introduzione di A.M. di Nola, Roma: Newton Compton                  

-Cardini F. (2016), I giorni del sacro, Novara: De Agostini 

-Viveiros de Castro E. (2017), Metafisiche cannibali: elementi di antropologia post-strutturale, Verona: ombre corte       

-Kohn E. (2021), Come pensano le foreste. Per un’antropologia oltre l’umano, prefazione di E. Coccia, Milano: Nottetempo         

-Balestracci D. (2023), Attraversando l’anno. Natura, stagioni, riti, Bologna: il Mulino





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